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L’accusato “fantasma” di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 231/2001: distorsioni applicative vs possibili letture costituzionalmente orientate e prospettive di riforma

The Charged "ghost” in Article 8 of d.lgs. 231/2001: application distortions vs. possible constitutionally oriented readings and prospects for reform
Dove per la natura inizia la tundra artica
Ph. Isacco Emiliani / Dove per la natura inizia la tundra artica

Articolo pubblicato nella sezione La parola al giudice: prassi e indirizzi interpretativi del numero 1/2020 della Rivista "Sistema 231".

 

Abstract

Esistono rimedi per una corretta applicazione della responsabilità dell’ente nel caso di impossibilità ad identificare l’autore del reato?

Il presente contributo intende fornire alcune riflessioni che confermano la possibilità di applicare la disposizione normativa di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 231/01 alla luce di letture costituzionalmente orientate che valorizzino l’applicazione del principio di completezza delle indagini, la circoscrizione delle ipotesi applicative all’effettiva e comprovata disorganizzazione aziendale, ovvero l’effettiva e comprovata sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’accusato pur “fantasma”.

Are there remedies for the correct application of the corporation's liability when it is impossible to identify the perpetrator of the crime? The present work aims to provide some considerations that confirm the possibility of applying Article 8 of d.lgs. 231/01 in the light of constitutionally oriented readings that enhance the application of the principle of completeness of investigations, the circumscription of the application hypotheses to the actual and proven disorganization of the corporation, or the actual and proven existence of the criminal intent the charged individual even if "ghost".

 

Sommario

1. Inquadramento

2. Le distorsioni applicative

3. Proposte interpretative … in attesa di una auspicata riforma

 

Summary

1. Introduction

2. Applicative distortions

3. Interpretative proposals… waiting for a reform

 

1. Inquadramento

L’art. 8 D.Lgs. n. 231/2001 dispone in maniera icastica che «la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato».  

Tale disposizione normativa, posta a chiusura della Sezione I, assume significativo rilievo sotto il profilo sistematico in quanto chiarisce come la responsabilità a carico dell’ente, sebbene dipendente dalla commissione di un reato, costituisca un titolo autonomo di reato[1].

Tale scelta legislativa è stata motivata nella Relazione alla luce del seguente finalismo repressivo: «quello della mancata identificazione della persona fisica che ha commesso il reato è, al contrario, un fenomeno tipico nell'ambito della responsabilità d'impresa: anzi, esso rientra proprio nel novero delle ipotesi in relazione alle quali più forte si avvertiva l'esigenza di sancire la responsabilità degli enti. Si pensi, per fare un esempio, ai casi di cd. imputazione soggettivamente alternativa, in cui il reato (perfetto in tutti i suoi elementi) risulti senz'altro riconducibile ai vertici dell'ente e, dunque, a due o più amministratori, ma manchi o sia insufficiente la prova della responsabilità individuale di costoro. L'omessa disciplina di tali evenienze si sarebbe dunque tradotta in una grave lacuna legislativa, suscettibile di infirmare la ratio complessiva del provvedimento. Sicché, in tutte le ipotesi in cui, per la complessità dell'assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la responsabilità penale in capo ad uno determinato soggetto, e ciò nondimeno risulti accertata la commissione di un reato, l'ente ne dovrà rispondere sul piano amministrativo: beninteso, a condizione che sia ad esso imputabile una colpa organizzativa consistente nella mancata adozione ovvero nel carente funzionamento del modello preventivo».

La Relazione rappresenta ciò che effettivamente caratterizza l’attuale modello imprenditoriale, sempre più spesso multi-giurisdizionale, così come l’attuale organizzazione aziendale, sempre più spesso plurisoggettiva: da un lato, società controllate e collegate, unità organizzative decentrate anche a livello territoriale e dall’altro lato, organigramma cd. a matrice con sistemi di reporting infragruppo e multi-giurisdizionali, divisione del lavoro, frammentazione dei processi decisionali, ampio ricorso ad un sistema di deleghe di poteri-doveri.

E ciò in un quadro che svela il fenomeno della cd. spersonalizzazione della condotta ovvero, visto da una altra angolatura, la natura plurisoggettiva del singolo processo decisionale, dove alla realizzazione di una singola condotta concorre una moltitudine di funzioni, ognuna delle quali potenzialmente rilevante[2].

Tuttavia, sebbene tale modello di concorso organizzativo non possa evidentemente portare a quella inaccettabile, da un punto di vista di politica-criminale, via di fuga da parte dell’ente, non possono non considerarsi le ampie ricadute anche in termini garantistici che il principio dell’autonomia della responsabilità dell’ente genera a maggior ragione alla luce delle distorsioni applicative sinora maturate in seno anche alla giurisprudenza di legittimità.

Da un lato, non può infatti non evidenziarsi il concreto rischio di iscrizioni nei confronti delle persone fisiche cd. a strascico, coinvolgendo nella rete processuale tutti i soggetti che hanno fornito un contributo pur non determinante rispetto alla condotta contestata mentre dal lato diametralmente opposto non può non evidenziarsi il rischio di compravendere l’impunità delle persone fisiche pur identificabili attraverso il ricorso ad una risposta sanzionatoria concentrata solo sulla persona giuridica attraverso pene patteggiate che si concretizzano in sanzioni pecuniarie e confisca di profitti anche rilevanti, relegando, peraltro, ad un ruolo più ancillare l’attività rimediale volta ad adeguare i sistemi di controllo interno in modo tale da prevenire la fattispecie delittuosa verificatasi, che invece dovrebbe essere il modello ispiratore nell’ambito di tali strumenti di diversione processuale.

Ed allora il punto di equilibrio può sembrare difficile da raggiungere … ma come vedremo obiettivamente possibile offrendo letture, anche costituzionalmente orientate, della disposizione normativa di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 231/01.

 

2. Le distorsioni applicative

Le distorsioni applicative relative alla ritenuta responsabilità dell’ente in assenza di identificazione del soggetto agente possono essere, per una chiarezza di analisi, suddivise in due casistiche: la prima, in un momento pre-processuale che, come anticipato, vede un uso disinvolto dell’art. 8 D.Lgs. n. 231/01 in funzione transattiva mentre la seconda in un momento processuale di accertamento della responsabilità nei confronti dell’ente che prescinde e pretermette la sussistenza e il riscontro probatorio del reato, limitandosi al mero fatto obiettivamente tipico.

Partendo dalla prima distorsione pre-processuale, si assiste ad un sempre maggiore ricorso alla contestazione nei confronti dell’ente ai sensi dell’art. 8, laddove tale disposizione, anche nell’intenzione del legislatore così come sintetizzata nella Relazione, dovrebbe trovare applicazione solamente in casi eccezionali.

Tale ricorso pare inserirsi in un trend che consente all’autorità inquirente di concentrare gli sforzi investigativi su un’ipotizzata condotta illecita tralasciando o comunque mettendo sullo sfondo l’impiego di strumenti di accertamento con riferimento sia alla ricerca dei responsabili individuali sia al riscontro della sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo che, non possiamo dimenticare, caratterizza (nella quasi totalità dei casi) il reato-presupposto.

E ciò con buona pace del principio di completezza delle indagini preliminari che impone all’autorità di «garantire l’identificazione e la punizione di coloro che si rendono autori di azioni lesive, operando attraverso una corretta interpretazione ed applicazione delle norme penali e l’espletamento di indagini ufficiali, approfondite, trasparenti, celeri, imparziali che, in caso di accertata colpevolezza, posso condurre, in esito del processo, ad applicare sanzioni proporzionate alla gravità del fatto commesso»[3].

In tale direzione, la casistica interna registra già qualche caso di patteggiamento da parte della sola società di capitali senza l’individuazione degli autori del reato: in questi casi, l’art. 8 pare essere stato utilizzato proprio quale leva per portare la società (come in effetti avvenuto) ad accordarsi, preservando le persone fisiche addirittura da una iscrizione nel registro degli indagati oltre da un successivo dibattimento[4].    

Quest’utilizzo dell’art. 8 – pur da taluni evocato quale tecnica pre-processuale, equivalenti a sistemi di diversion attuate nella prassi statunitensi ma che, sia consentito rilevare, se ne discosta ampiamente – appare celare una distorsione della stessa essenza della disposizione[5].

Le casistiche interne si riferiscono, infatti, a reati dolosi di una certa gravità (quanto meno visto la pena edittale prevista) rispetto ai quali il principio di autonomia non può essere immolato sull’altare dell’inerzia investigativa ai fini della ricerca e dell’individuazione dei soggetti autori dei reati medesimi.

Oltre che alla disapplicazione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale ai sensi dell’art. 112 Cost., ciò comporterebbe a lungo tendere un duplice rischio: da un lato, si potrebbe via via assistere ad una deresponsabilizzazione individuale delle persone fisiche, che vedrebbero le proprie eventuali responsabilità in ogni caso schermate dal pagamento di sanzioni economicamente impattanti da parte dell’ente (vuoi in termini di sanzione pecuniaria vuoi in termini di confisca del profitto del reato) e dall’altro lato, una previsione e valutazione monetaria ex ante del rischio penale da parte della società.

Non solo. Le casistiche interne si riferiscono a società di capitali pluri-organizzate, che non solo prevedono l’intervento di diverse funzioni aziendali ognuna per le sue specifiche competenze ma disciplinano altresì i processi aziendali e decisionali in modo tale che gli stessi siano ex post ricostruibili e tracciabili: ed allora in tali contesti vi è da chiedersi come non sia possibile identificare il soggetto o i soggetti che tramite le loro condotte abbiamo integrato il reato (completo in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi) e come piuttosto non sia un errore metodologico di fondo che confonde il dato fattuale relativo all’analisi della pur complessa organizzazione aziendale con la valutazione giuridica che deve essere operata dall’autorità per identificare e dimostrare quali specifiche condotte intervenute abbiano effettivamente concorso alla realizzazione del reato.   

E valga un esempio per chiarire tale riflessione.

Ipotizziamo la contestazione del reato di truffa ai danni dello Stato nell’ambito di una gara di pubblica fornitura per avere una delle società partecipanti dichiarato falsamente il possesso di requisiti tecnici contestato come non posseduto ed essersi sulla base di tale falsa dichiarazione resasi aggiudicataria della gara; in linea generale, la partecipazione ad una gara di pubblica fornitura vede il coinvolgimento di diverse funzioni aziendali ed all’interno delle stesse di diversi soggetti competenti a titolo esemplificativo, l’ufficio gare che cura la predisposizione dell’offerta e di tutta la documentazione da inviare alla stazione appaltante, il team tecnico che verifica il possesso dei requisiti tecnici richiesti dal capitolato di gara che può essere chiamato ad interagire con un altro team tecnico magari estero produttore del prodotto offerto in gara, il team commerciale che verifica il prezzo; il legale rappresentante o un procuratore speciale che firma il documento di offerta, con un numero approssimativo di persone fisiche coinvolte in tale processo interno aziendale (cd. Partecipazioni a gare pubbliche) in dieci-dodici. 

Ebbene in tale contesto, tre potrebbe essere le strade percorribili dal Pubblico Ministero ma una sola corretta in applicazione dei principi di obbligatorietà dell’azione penale e della completezza delle indagini:

la prima, la cd. “pesca a strascico” per la quale sono sottoposte a procedimento penale tutte le persone fisiche che sono state coinvolte nel processo interno aziendale di cui alla gara contestata;

la seconda, la mancata identificazione del soggetto agente e l’iscrizione nel registro degli indagati solamente dell’ente ai sensi dell’art. 8;

la terza, giuridicamente corretta, l’accertamento e la valutazione delle persone fisiche che effettivamente hanno fornito un contributo causale apprezzabile alla condotta di reato contestata (nel caso ipotizzato, il team tecnico), l’accertamento e la valutazione non solo dell’elemento oggettivo bensì anche dell’elemento soggettivo della volontà decettiva ed ingannatoria in capo alle persone fisiche e solo dopo questi due passaggi l’incolpazione nei confronti della società alla quale appartengono quali soggetti agenti apicali o subordinati per non avere effettivamente ed adeguamento implementato un sistema di controllo interno idoneo a prevenire il rischio-reato contestato ed avere tratto un interesse o un vantaggio dalla consumazione del reato-presupposto.

Al contrario, solamente nel caso in cui l’organizzazione interna aziendale fosse opaca o a tal punto destrutturata da essere effettivamente impossibile compiutamente individuare le persone coinvolte nel relativo processo aziendale si verificherebbe quella condizione legittimante il ricorso alla responsabilità dell’ente in caso di mancata identificazione del soggetto agente.       

Nel primo scenario, che, vede, dunque, l’ente avere adottato una organizzazione trasparente, non pare in alcuno modo possibile utilizzare il parametro della responsabilità autonoma dell’ente per non essere stato identificato l’autore, se non applicando l’inammissibile paradigma della responsabilità oggettiva nei confronti dell’ente stesso.

Diversamente, nel secondo scenario, l’impossibilità di identificare l’autore del reato-presupposto proprio a causa dell’opacità interna dell’organizzazione dell’ente, che non consentire di ricostruire l’imputabilità soggettiva del fatto, pare determinabile l’addebito nei confronti dell’ente in termini di colpa di organizzazione con previsione, avendo lo stesso omesso di prevenire un evento-reato poi effettivamente occorso[6] a proprio interesse o vantaggio.     

In conclusione, non può non richiedersi agli organi inquirenti ogni sforzo investigativo atto ad imputare il reato ad una persona fisica determinata, prima di poter invocare il principio di autonomia della responsabilità dell’ente per modo che una corretta applicazione dell’art. 8 presupporrebbe lo svolgimento di indagini complete ed approfondite e, solo dopo la conclusione delle stesse, la presa d’atto dell’impossibilità di identificare il soggetto agente, stante la comprovata disorganizzazione ed opacità aziendale.

Così come non può non richiedersi agli organi inquirenti ogni sforzo investigativo atto ad accertare la sussistenza di un reato completo in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ancora una volta prima di passare ad accertare nei confronti dell’ente una colpa organizzativa consistente nella mancata adozione ovvero nel carente funzionamento di un sistema di controllo interno idoneo a prevenire il reato contestato. 

Ed è sotto tale specifico aspetto in tema di accertamento dell’elemento soggettivo che si verifica la seconda distorsione processuale relativa ai criteri di accertamento della responsabilità a carico dell’ente: la querelle si incentra sulla nozione stessa di reato quale presupposto della responsabilità dell’ente e, in sintesi, se per reato si debba intendere un fatto tipico, antigiuridico e colpevole ovvero un mero fatto obiettivamente tipico, senza alcuna verifica, in quest’ultimo caso, della colpevolezza individuale.  

In particolare, nel procedimento noto come Citibank, avente ad oggetto la responsabilità ex D.Lgs. n. 231/01, dipendente del delitto di aggiotaggio p.p. dall’art. 2637 c.c., la Suprema Corte di Cassazione affermava il seguente principio[7]: dall’assoluzione della persona fisica imputata del reato-presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest’ultimo (l’imputato era infatti stato mandato assolto dal giudice di prime cure per non avere commesso il fatto) non consegue automaticamente l’esclusione della responsabilità dell’ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità ai sensi dell’art. 8 deve essere affermata anche nel caso in cui l’autore del suddetto reato non sia stato identificato.     

In una successiva pronuncia, confermativa della sentenza emessa a seguito del giudizio di rinvio, i giudici di legittimità ribadivano che una società può essere condotta nonostante l’assoluzione dell’autore del reato-presupposto, qualora risulti la commissione del reato da parte di altrui soggetti, i quali, ancorché non compiutamente identificati, siano riconducibili alla società ed abbiano agito nell’interesse o vantaggio dell’ente stesso[8].

Queste prime pronunce, oltre a non circoscrivere i limiti di applicabilità dell’art. 8 e nel trascurare peraltro ogni argomentazione in merito alla categoria soggettiva di appartenenza dell’autore non identificato (se apicale o sottoposto all’altrui vigilanza), ingenerano più di un dubbio laddove si consideri che, in realtà, dalla ricostruzione fattuale presente agli atti emerge l’effettiva individuazione di un altro funzionario (mai neppure iscritto nel registro degli indagati) come partecipante alla condotta contestata – ovvero sia al processo di redazione del comunicato stampa falso.

Ciò nonostante i giudici di legittimità prescindono, ritenendola irrilevante, da tale circostanza fattuale che avrebbe invece imposto l’accertamento pregiudiziale della commissione, da parte di tale soggetto identificato, del reato di aggiotaggio nei suoi elementi non solo oggettivi ma anche soggettivi.

In altri termini, la nuova identità dell’autore della condotta avrebbe imposto la verifica della rappresentazione e volizione decettiva in capo a tale nuovo soggetto e non supporre (come avvenuto) la avvenuta consumazione del reato da parte di imprecisati soggetti e concludere per l’impossibilità (non riscontrata) di identificare l’autore del fatto penalmente illecito.

Tale impostazione interpretativa veniva ribadita in una successiva sentenza dove – dopo avere correttamente rilevato che la responsabilità dell’ente non è del tutto autonoma da quella individuale «nel senso che non può prescindersi dall’esistenza di un reato commesso da una persona fisica. La responsabilità dell’ente è autonoma da quella della persona fisica, ma non dall’obiettiva realizzazione in un reato» – statuisce che il reato al quale si riferisce l’art. 8 esprime un significato che non è quello proprio del diritto penale individuale comprensivo dell’elemento soggettivo ma un reato «inteso come tipicità del fatto, accompagnato dalla sua antigiuridicità, con esclusione della sua dimensione psicologica»[9].

Pare questa una interpretazione inaccettabile per una molteplicità di considerazione.

La prima risiede nel fatto che non può non riconoscersi l’appartenenza del dolo al fatto tipico quale insieme di elementi oggettivi e soggettivi, descrittivi e valutativi: un reato doloso senza dolo, ovvero sia senza l’elemento che ne definisce il disvalore penalmente rilevante, appare chiaramente una contraddizione in termini, a maggior ragione in quelle fattispecie soggettivamente pregnanti, come ad esempio la corruzione o la frode, nelle quali il disvalore dell’evento è connotato proprio dalla rappresentazione e volizione corruttive o decettive.

La seconda è poi riscontrabile nell’impossibilità di individuare la stessa norma incriminatrice da applicare laddove si pretermette l’accertamento dell’elemento soggettivo in tutti in quei casi nei quali i reati sono puniti sia a titolo di dolo sia a titolo di colpa, si pensi a titolo esemplificativo alle fattispecie di market abuse, di ostacolo all’attività di vigilanza, a taluni delitti ambientali.    

A chi oppone il dilemma dell’accertamento del dolo in capo all’accusato fantasma, valga osservare che, sul piano probatorio, appare oramai consolidata l’argomentazione per la quale, non potendo essere adottate scorciatoie presuntive o criteri preconfezionati secondo lo schema del dolus in re ipsa, il dolo, quale elemento che attiene alla sfera rappresentativa e volitiva del soggetto agente ovvero sia alla sua sfera prettamente interiore, non può che essere dimostrato attraverso l’analisi e la valorizzazione di tutte le circostanze esterne sintomatiche e pregnanti di una voluntas colpevole, anche ricorrendo attraverso a massime di esperienza.

Ne consegue che, tale essendo l’approdo interpretativo in tema di accertamento della sussistenza del dolo in capo al soggetto agente, non è data ravvisarsi alcuna incompatibilità tra la prova del più pregnante elemento soggettivo e l’impossibilità di dimostrare che un determinato soggetto abbia realizzato la fattispecie delittuosa[10].

    

3. Proposte interpretative … in attesa di una auspicata riforma

Provando a sintetizzare le riflessioni sopra svolte con riferimento alla responsabilità dell’ente nel caso di accusato “fantasma” con una unica espressione: rifuggire dalle distorsioni applicative sinora maturate. E ciò in considerazione delle pericolose ricadute che le stesse possono determinare in punto di:

1) violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale;

2) violazione del principio di completezza delle indagini;

3) deresponsabilizzazione delle persone fisiche che vedrebbero nell’ente uno scudo delle proprie condotte così come la deresponsabilizzazione dell’ente medesimo che potrebbe giungere a valutare il raggiungimento di accordi disinvolti quale rischio operativo accettabile e quantificabile;

4) violazione del canone probatorio dell’accertamento del dolo così come dello statuto della responsabilità amministrativa dell’ente che in ogni caso come specificato dalla Relazione presuppone l’accertamento della sussistenza del reato-presupposto completo di tutti i suoi elementi, compreso l’elemento soggettivo, dal quale dipende l’illecito a carico dell’ente in termini di omesso impedimento per colpa di organizzazione.

La disposizione normativa di cui all’art. 8 mal si presta, come sopra argomentato, ad essere utilizzato quale strumento di diversione processuale.

Laddove si volesse seguire l’approccio statunitense poi implementato anche nel Regno Unito e in altri paesi europei in merito a strumenti quale i defered prosecution agreement (DPA)[11] e/o no prosecution agreement (NPA) non si potrebbe prescindere da una riforma legislativa specifica disciplinante in modo puntuale l’accesso, i presupposti, il contenuto, le finalità rimediali degli stessi così come le valutazioni condotte dall’autorità[12].

Prendendo spunto dai modelli stranieri già ampiamenti sperimentati ma rifuggendo una operazione di trapianto tout court di tali istituti che presentano in ogni caso differenze sostanziali che confliggono o potrebbe confliggere con diritti e garanzie previste dal nostro ordinamento[13], i nuovi istituti da introdurre potrebbero ispirarsi alla già prevista ed applicata messa alla prova adottata per la persona fisica ovvero alla previsione di una causa specialità di archiviazione per l’ente. Tuttavia, al di là delle forme processuali che potranno essere adottate anche a seconda degli impatti e delle fasi processuali che caratterizzano il nostro procedimento penale, il maggior sforzo innovativo dovrà essere concentrato sul contenuto di tali accordi.

Se è vero che gran parte di esso trova già previsione nello stesso D.Lgs. n. 231/2001, specificatamente in punto di sanzioni pecuniarie, risarcimento del danno, eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivate dal reato, confisca del profitto, il punto centrale è rappresentato dalla correzione o implementazione, sotto la guida e la supervisione di un soggetto terzo da individuarsi in un perito di nomina giudiziale o di un commissario, del modello di organizzazione, gestione e controllo, già adottato prima della commissione del reato ma rivelatosi in concreto inidoneo alla sua prevenzione, così come anche altri aspetti, già emersi alla luce della esperienza anglo-americana, quali l’istituzione, a spese dell’ente, di corsi di formazione relativi alla prevenzione di reati dello stesso tipo di quello in concreto verificatosi, la possibilità di subordinare tali accordi anche estintivi dell’illecito amministrativo all’effettuazione di condotte di self-reporting che spazino dalla condivisone con l’autorità delle risultanze delle indagini interne condotte fino alla comunicazione tempestiva degli autori del reato.

Tali strumenti dovrebbero essere puntualmente disciplinati per limitare possibili abusi o distorsioni da parte di tutti gli attori processuali e dovrebbero essere oggetto di specifica ed ampia formazione anche nell’ottica più ampia di modificare il rapporto oggi talvolta troppo oppositivo e reciprocamente antagonista tra operatori del diritto ed operatori economici che si traduce in un finalismo sanzionatorio-repressivo fine a se stesso, per favorire e lasciare spazio ad un finalismo preventivo, rieducativo e risocializzante.

 

[1] Varraso, G, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Giuffrè, Milano, 2012; Lasco, G., Loria, V, Morgante, M, Enti e responsabilità da reato, Giappichelli, Torino, 2017.

[2] Mongillo, V, La responsabilità penale tra individuo ed ente collettivo, Giappichelli, Torino, 2018; Bartolucci, M.A., L’art. 8 D. Lgs. n. 231/2001 nel triangolo di Penrose, in Diritto Penale Contemporaneo, 2017.  

[3] Montagna, M., Necessità della completezza delle indagini, in AA.VV., I principi europei del processo penale, Dike Giuridica, Roma, 2016; Valentini, C., La completezza delle indagini, tra obbligo costituzionale e (costanti) elusioni della prassi, in Archivio Penale, n. 3 2019.

[4] Cfr. sentenze di patteggiamento tra la Procura di Milano e primari istituti finanziari di matrice internazionale in relazione a contestate condotte di riciclaggio realizzate in connessione a determinati prodotti finanziari e specifiche attività di business

[5] Mongillo, V., op. cit.

[6]Bartolucci, M.A, op. cit.

[7] Cass. Pen. Sez. V, 9 maggio 2013, n. 20060

[8] Cass. Pen. Sez. I, 2 luglio 2015, n. 35818

[9] Cass. Pen. Sez. VI, 7 luglio 2016, n. 28299

[10] Mongillo, V., op. cit.

[11] Cfr. D’Acquarone, R., Roscini-Vitali, R., Sistemi di Diversione processuale e D. Lgs. 231/2001: spunti comparativi in Rivista 231, n. 2, 2018: «Può definirsi DPA l’accordo tra pubblica accusa (prosecutor) ed ente indagato (defendant), soggetto a valutazione del giudice, per cui la persona giuridica, allo scopo di sottrarsi al procedimento penale avviato nei suoi confronti, si impegna, per un periodo di sorveglianza di regola da sei mesi a due anni, a intraprendere una serie di attività rieducative. Inter alia: uno statement of facts non ritrattabile, ossia l’accettazione dell’addebito mosso; la collaborazione con l’autorità inquirente nell’individuare l’autore materiale del reato, anche abdicando ai attorney-client e work product privileges, cioè alla riservatezza dei colloqui tra avvocato e cliente e del carteggio difensivo. Rinunciando all’attorney-client privilege la società indagata autorizza l’ufficio legale interno a fornire al prosecutor informazioni apprese in ragione delle funzioni svolte. Spogliandosi della work product protection l’azienda indagata acconsente a esibire all’autorità inquirente atti e documenti predisposti in funzione dell’avvio del procedimento penale (disclosure); l’adozione o implementazione del compliance program, meglio se sotto supervisione di un monitor, ossia un commissario esterno; corrispondere una financial penality, cioè una somma di denaro a titolo di risarcimento danni, donazione a istituti di beneficienza pubblici o privati, ecc. (…) Rispetto al DPA, l’NPA si colloca in fase antecedente l’iscrizione (filing) della persona giuridica nel registro delle notizie di reato. Può, quindi, definirsi NPA l’accordo stipulato tra autorità inquirente e società indiziata privatamente, ossia in assenza di vaglio giudiziale dacché scongiura l’apertura del procedimento penale. In conformità ai criteri orientativi determinati nei Memorandum diffusi dal 2000 dal Department of Justice (DOJ) – i principali sono Federal Prosecution of Corporations del 2000 (o Holder Memorandum, dal nome del Deputy Attorney General che l’ha stilato) e Principles of Federal Prosecution of Business Organizations del 2003 (o Thompson Memorandum) – il prosecutor, nel ricorrere a DPA e NPA, deve considerare i seguenti additional public interest factors: natura e gravità del reato; grado di diffusione della condotta illecita nell’organizzazione aziendale; compartecipazione del management nell’agire criminoso; precedenti dell’azienda indagata o indiziata di natura penale, civile e/o amministrativa («criminal, civil and regulatory enforcement actions», ma anche «warning [...] or criminal charges»); prontezza dell’impresa nel denunciare il reato (attività di self reporting); collaborazione dell’ente nelle investigazioni, anche conducendo indagini interne e trasmettendo i relativi esiti all’autorità procedente; presenza di un compliance program;  iniziative avviate dalla persona giuridica indagata o indiziata per riparare alle conseguenze dannose o pericolose del reato, ivi inclusi l’adozione o implementazione di un compliance program, l’irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti dei responsabili (sostituzione o licenziamento degli organi responsabili dell’area aziendale nella quale è stato commesso l’illecito) o il risarcimento del danno patito dalla persona offesa; esistenza di danni cagionati a terzi; situazione economico-finanziaria della società indagata o indiziata ed effetti che il procedimento penale potrebbe provocare sulla stessa; adeguatezza di azioni civili o amministrative esperibili».

[12] D’Acquarone, R.; Roscini-Vitali, R., ibivid. Cfr. Mazzacuva, f., La diversione processuale per gli enti collettivi nell’esperienza anlgo-americana, in Diritto Penale Contemporaneo 2 2016.  

[13] Quali, a titolo esemplificativo, l’accettazione non ritrattabile dell’addebito mosso, la collaborazione con l’autorità inquirente nell’individuare l’autore materiale del reato abdicando alla riservatezza dei colloqui tra avvocato e cliente e del carteggio difensivo.    

Bartolucci, M.A., L’art. 8 D.Lgs. n. 231/2001 nel triangolo di Penrose, in Diritto Penale Contemporaneo, 2017.

D’Acquarone, R., Roscini-Vitali, R., Sistemi di Diversione processuale e D.Lgs. 231/2001: spunti comparativi in Rivista 231, n. 2 2018.

Mazzacuva, F., La diversione processuale per gli enti collettivi nell’esperienza anlgo-americana, in Diritto Penale Contemporaneo n. 2 2016.

Montagna, M., Necessità della completezza delle indagini, in AA.VV., I principi europei del processo penale, Dike Giuridica, Roma, 2016.

Mongillo, V., La responsabilità penale tra individuo ed ente collettivo, Giappichelli, Torino, 2018.

Lasco, G., Loria, V., Morgante, M., Enti e responsabilità da reato, Giappichelli, Torino, 2017.

Valentini, C., La completezza delle indagini, tra obbligo costituzionale e (costanti) elusioni della prassi, in Archivio Penale, n. 3 2019.

Varraso, G., Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Giuffrè, Milano, 2012.