Le società in house: profili giuridici e dubbi interpretativi

Le società in house: profili giuridici e dubbi interpretativi
Le società in house: profili giuridici e dubbi interpretativi

Abstract

La natura giuridica delle società cosiddette “in house” rimane uno degli argomenti più controversi e dibattuti dalla dottrina e dalla giurisprudenza all’interno del nostro ordinamento. Con il Decreto Legislativo n. 175/2016 il legislatore è intervenuto al fine di disciplinare la materia delle società partecipate, riservando diverse norme ad hoc alle società in house, senza tuttavia dipanare i principali dubbi ermeneutici sollevati da numerose sentenze emesse dalla Corte di Cassazione e dal contributo di autorevole dottrina. I giudici nomofilattici, in particolare, con la nota sentenza a Sezioni Unite, 25 novembre 2013, n. 26283 e con successive pronunce hanno gettato profondi dubbi sull’istituto in parola, arrivando a mettere in discussione l’opportunità e l’efficacia di quelli che sembrano essere meri moduli organizzativi della P.A. “mascherati” da enti societari di diritto comune.

 

Le società in house: profili giuridici e dubbi interpretativi

L’intervento del legislatore. Il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica di cui al d.lgs., n. 175/2016 (da ora in avanti Testo Unico), in armonia con la legge delega (la quale, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, esortava il legislatore a considerare, nella stesura del Testo Unico, della “distinzione tra tipi”), ha incluso una serie di previsioni dedicate in modo specifico alle società cosiddette in house, orientate, in primo luogo, a definire - sulla base di consolidati orientamenti interpretativi - le modalità di affidamento diretto del servizio e le relative condizioni minime e, in secondo luogo, a rendere compatibile le norme sulle società di capitali con l’“assetto organizzativo” qualificante la figura societaria in parola.

Allo scopo, il legislatore, conferendo all’autonomia statutaria la facoltà di derogare ex art. 16, comma 2, le norme che regolano sul versante codicistico la ripartizione di competenze tra soci ed amministratori (al fine di permettere l’esercizio del c.d. controllo analogo, che con riferimento all’in house costituisce elemento caratterizzante), affronta il vulnus della disciplina, ma non lo scioglie, riservando all’interprete il delicato compito.

Rimane irrisolta (e, a ben vedere, neppure dipanata), la questione di base concernente la qualificazione giuridica della fattispecie di in house (la cui “anomalia” rispetto ai principi di diritto societario operanti nel nostro ordinamento è stata ben afferrata, nei termini che si analizzeranno, dalla ben nota sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 25 novembre 2013, n. 26283).

Profili giuridici: l’in house providing e il diritto societario. Tra i numerosi profili della materia meritevoli di un approfondimento è opportuno chiedersi se l’intervento del legislatore abbia espunto tout court l’incompatibilità genetica sussistente tra l’in house e i principi del nostro ordinamento societario. A tal’uopo, considerando che le stesse previsioni della nuova disciplina, come si avrà modo di appurare, inducono a ricondurre le società a partecipazione pubblica, incluse - sia pure con qualche evidente contraddizione in nuce - le società in house, nell’alveo del diritto societario, facendo sì che esse vengano attratte, salvo espresse deroghe di legge, dalla relativa disciplina, è desumibile che detto conflitto non solo persista, ma ne risulti in una certa misura acuito.

La società in house, sulla falsariga di un’interpretazione ormai pacifica della giurisprudenza, preserverebbe della società solo la forma esteriore, costituendo, in realtà, «un’articolazione in senso sostanziale della pubblica amministrazione da cui promana e non un soggetto giuridico ad essa esterno e da essa autonomo [Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile, 14 marzo 2016, n. 4938]. Una tale configurazione, che trova le proprie origini nel diritto comunitario, si giustifica in base al fatto che solo quando la società affidataria è interamente partecipata dall’ente pubblico, esercita in favore del medesimo la parte più importante della propria attività ed è soggetta al suo controllo in termini analoghi a quello in cui si esplica il controllo gerarchico dell’ente sui propri stessi uffici, non sussistono esigenze di concorrenza e quindi si può escludere il preventivo ricorso a procedure di evidenza pubblica [tra le più recenti sentenze in tal senso, Corte di Giustizia UE, Quinta Sezione, 8 maggio 2014, causa C-15/13].

Tale fenomeno giuridico, come precisa la sopracitata sentenza della Cassazione, Sezioni Unite, n. 28283, risulta però anomalo per il nostro ordinamento, non solo in quanto le società in house sono “società di capitali non destinate (se non in via del tutto marginale e strumentale) allo svolgimento di attività imprenditoriali a fini di lucro, così da dover operare necessariamente al di fuori del mercato”, ma soprattutto per l’estrema difficoltà di conciliare con la configurazione della società di capitali (intesa come persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono e per il cui tramite essa agisce) una fattispecie che, invece, si caratterizza per “la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale” I suoi organi sociali, in quanto assoggettati a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, non potrebbero perciò essere considerati titolari di un mero “munus” privato, ma risulterebbero legati a quest’ultima da un vero e proprio rapporto di servizio, non diversamente da quanto vale per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico.

La stessa società in house, infine, sarebbe addirittura priva di quell’autonomia giuridica che caratterizza qualsiasi altra società di capitali la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva”; l’uso del termine “società” starebbe a giustificare il paradigma organizzativo tipico modello societario ma, in tale fattispecia, non è più possibile rintracciare elementi distintivi delle società di capitali, individuabili nell’autonomia della persona giuridica, anche intesa come centro decisionale, di cui sia possibile individuare un interesse proprio.

La natura giuridica delle società in house: orientamenti giurisprudenziali. Recentemente il Consiglio di Stato, in sede di Adunanza della Commissione Speciale, ha ricordato come «sulla natura giuridica dell’ in house sussistano essenzialmente due orientamenti, l’uno, che qualificandolo come mera articolazione interna della pubblica amministrazione, lo assoggetta (sia pure con i necessari adattamenti) al regime delle pubbliche amministrazioni e l’altro che, considerandolo come persona giuridica di diritto privato, ne afferma invece la riconducibilità al regime privatistico (salvo le “deroghe” operanti per tutte le altre società partecipate)». Qualunque sia la prospettazione seguita, chiosa il Consiglio di Stato, è certo che la società in house mantenga «una forte peculiarità organizzativa, imposta dal diritto europeo, che la rende non riconducibile al modello generale di società quale definito dalle norme di diritto privato» [Consiglio di Stato, Adunanza Commissione Speciale, 16 marzo 2016, n. 438].

Rileva, dunque, la necessità di approfondire il tema della qualificazione giuridica della società in house, nonché il grado di “resistenza” della ricostruzione giurisprudenziale prospettata, alla luce dei nuovi sviluppi legislativi, che, invece, sembrano suggerire diverse conclusioni. In definitiva, questione interpretativa fondamentale concerne l’accertamento dei requisiti della società in house, imprescindibili per ritenerla mera “longa manus” della P.A. partecipante, analizzata, come è ovvio e doveroso, avendo riguardo ai principi enunciati dalla Corte di giustizia, sui quali è sembrato quindi opportuno soffermarsi.

Secondo l’esplicitazione fornita dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 25 novembre 2013, n. 26283 e da quelle successive, occorre:

  1. «in primo luogo, che il capitale sociale faccia capo ad un ente pubblico, anche ad una pluralità di essi, ferma la necessità dell’inibizione statutaria alla partecipazione al capitale sociale di soci privati [Corte di Cassazione Sezioni Unite, 24 febbraio 2015, n. 3677], salva la possibilità di non tenere conto di una tale previsione, qualora sia nulla per incompatibilità con norme speciali di carattere pubblico ed imperativo [Corte di Cassazione Sezioni Unite, 22 luglio 2014, n. 16622];
  2. in secondo luogo, «è imprescindibile la prevalente destinazione dell'attività in favore dell'ente o degli enti partecipanti alla società che, pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l'attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente con altre imprese sul mercato di beni o servizi [Corte di Cassazione Sezioni Unite, 10 marzo 2014, n. 5491];
  3. «in terzo luogo, è necessario accertare l’esistenza del cosiddetto controllo analogo, che consiste nel potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica, così da non identificarsi con l'influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull'assemblea della società, dovendo trattarsi di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell'ente con modalità e con un'intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile» [Corte di Cassazione Sezioni Unite, 22 luglio 2014, n. 16622].

Dubbi interpretativi. La chiarezza e, per certi versi, la ratio del principio non permettono, peraltro, di negare quella che, in tutta evidenza, risulta un’anomalia ordinamentale, che dà vita ad un vero e proprio paradosso giurisprudenziale, poiché un istituto nato per valorizzare il mercato e la parità delle condizioni degli operatori diviene, al contrario, «strumento di estensione del settore pubblico», senza neppure essere imposto dal diritto comunitario. La società in house, infatti, trova le sue origini nell’ordinamento comunitario, che a sua volta si ispira all’ordinamento giuridico anglosassone e dal common law, in cui la nozione in parola è stata elaborata al fine di garantire l’obiettivo «di assicurare la libera circolazione dei servizi e l’apertura dei mercati ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri» [Corte di giustizia, 19 giugno 2008, C-454/06].

Tuttavia, nella dimensione giuridica e fenomenologica dell’in house, «la natura societaria finisce con il divenire meramente definitoria, evocativa di una categoria, ma non di un regime giuridico; l'elemento distintivo, sostanziale è caratterizzato esclusivamente dalla natura pubblica dell'azionista e delle risorse che da esso affluiscono alla società; l'azionista pubblico viene posto in una situazione differente, sia per ciò che concerne le tutele patrimoniali, sia per quanto riguarda l’autonomia nella decisione di avviare l'azione di responsabilità. Pertanto, per la società in house, ipso iure, si inverte il rapporto fra regola ed eccezione, perché la disciplina del codice civile diviene puramente residuale, mentre le norme speciali dettate per ciascuna società pubblica vengono messe in primo piano e divengono decisive per individuare la disciplina applicabile secondo i diversi profili giuridici con si intende analizzarle.

Il cammino verso il distacco dalle società di diritto comune sembra così definitivamente compiuto, al punto che, come evidenziato nella citata sentenza n. 26283 del 2013 della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, «l’uso del vocabolo società qui serve solo allora a significare che, ove manchino più specifiche disposizioni di segno contrario, il paradigma organizzativo va desunto dal modello societario», ma «di una società di capitali intesa come persona giuridica autonoma cui corrisponde un autonomo centro decisionale e di cui sia possibile individuare un interesse suo proprio, non è più possibile parlare».

In definitiva, affermano le Sezioni Unite, le società in house hanno della società di capitali «solo la forma esteriore», ma sono in realtà una “longa manus della P.A. e per esse «la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva». Il risultato è l’impossibilità di distinguere la titolarità del patrimonio dell’ente pubblico e della società, essendo gli amministratori legati all’ente da un vero e proprio rapporto di servizio, con conseguente ricorrenza dei presupposti della giurisdizione della Corte dei conti sulle azioni in esame. La domanda che, sostanzialmente, parte della dottrina oggi ancora si pone è quella che induce a «dubitare dell’opportunità di moduli organizzativi della P.A. che dovrebbero garantire efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa e che, invece, non di rado, da un canto, appaiono preordinati a rappresentare un aggravio della spesa pubblica, dall’altro, introducono elementi di incertezza ed irrazionalità e appaiono suscettibili di cagionare gli interessi di quanti con tali strutture entrano in rapporti giuridici». [SALVATO L., Società pubbliche, responsabilità degli amministratori e riparto della giurisdizione, www.scuolamagistraura.it ]