x

x

L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia

L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia
L’eccesso di potere nelle interdittive antimafia

Le ragioni di questo mio intervento nell’odierna assise sono dettate dalla esigenza di non collocarmi nel solco dell’agiografia ermeneutica tipica del politically correct che sta progressivamente avvilendo la libertà di espressione propria del pensiero giuridico immiserendo e, per certi versi, destabilizzando il ruolo dello stesso di ambito privilegiato del confronto delle idee.

Sant’Agostino in un passo del De Civitate Dei, ancora oggi di una attualità impressionante, ha affermato che “uno Stato senza diritto è una banda di briganti”, identificando il diritto non già con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere. Non è infatti la legge che fonda la verità, bensì è la verità che dà fondamento alla legge. Ne consegue che l’esigenza di garanzia dei valori si pone quale fondamento essenziale per un concetto di democrazia che non sia soltanto di stampo formale. E ciò perché, per dirla con Giovanni Paolo II[1], “una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto”.

Da qui  l’esigenza dello Stato di essere sì inflessibile e severo nei confronti della criminalità organizzata, senza le ineleganti scorciatoie ormai proprie del tempo attuale, ma piuttosto attraverso l’ausilio di una legislazione che, nei suoi contenuti, non si ponga quale frutto di astratta legalità di maniera, bensì quale momento regolatore profondamente rispettoso del sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto.

Per venire all’analisi del tema che mi è stato assegnato, è da riferire che la vigente legislazione, per definire il tentativo di infiltrazione mafiosa, utilizza un’astratta formula di contenuto in realtà più sociologico che giuridico considerando, senza alcuna ragione plausibile, il fenomeno mafioso causa piuttosto che effetto dell’attività criminale, ed attribuisce apoditticamente alla informativa antimafia la precipua finalità di anticipare il momento in cui la P.A. può intervenire in sede di autotutela amministrativa, al fine di evitare le possibili ingerenze della criminalità organizzata nello svolgimento dell’attività di impresa e consiste in una informativa diretta a verificare se l’impresa affidataria possa essere considerata affidabile e ciò a prescindere dai rilievi probatori tipici del processo penale, nonché dalla commissione di un illecito e dalla conseguente condanna, come invece accade per le misure di sicurezza. Ne consegue che le informative prefettizie, così come concepite, hanno come oggetto sotteso la verifica dell’esistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o delle imprese interessate da cui si desume che è sufficiente anche la mera eventualità che l’impresa possa, persino per via indiretta, favorire la criminalità.

Nella considerazione, dunque, che, nelle intenzioni, l’interdittiva antimafia è un istituto preordinato a garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso per la cui configurazione dogmatica è sufficiente la mera sussistenza di un quadro indiziario tale da generare un un ragionevole convincimento di un condizionamento mafioso, si ritiene che legittimamente il Prefetto possa adottare l’informativa ostativa sulla base di elementi sintomatici ed indiziari dai quali è astrattamente possibile dedurre il paventato tentativo di ingerenza. Siffatta sintomatologia può essere rappresentata ad esempio da una condanna penale non irrevocabile, dalla intervenuta adozione di misure cautelari, dal coinvolgimento in una indagine penale, da cointeressenze societarie o da frequentazioni con soggetti malavitosi, che nel loro insieme e, quindi, non in ipotesi atomizzate, appaiano di rilevanza tale da fornire la stura al radicare, in termini di fondatezza, un giudizio di probabilità che l’attività di impresa possa, anche  per via indiretta, consentire l’agevolazione delle attività criminali, ovvero dalle stesse risultare tale attività in qualche modo condizionata. In questo quadro di, per vero, manifesta e, peraltro dichiarata, labilità  probatoria anche i legami di natura parentale assumono  pregnante rilievo qualora emerga un intreccio di interessi economici e familiari, dai quali sia possibile desumere la sussistenza dell’oggettivo pericolo che rapporti di collaborazione intercorsi a vario titolo tra soggetti inseriti nello stesso contesto familiare abbiano a porsi come strumento atto a diluire e a travisare aspetti di infiltrazione mafiosa nell’impresa oggetto di attenzione prefettizia. 

In ragione di siffatto invero astratto paradigma il Prefetto quasi sempre radica la propria valutazione su un quadro assolutamente indiziario in cui assumono rilievo pregnante i fattori da cui trarre la conclusione che non siano manifestamente infondati i sospetti che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo attraverso cui le organizzazioni criminali hanno la tendenza ad infiltrarsi negli appalti delle P.A.

Alla luce di quanto delineato il Prefetto utilizza un margine di accertamento e di apprezzamento discrezionale di ampiezza senza precedenti nella ricerca e nella valutazione dei fatti sintomatici di eventuali connivenze o collegamenti di tipo mafioso.

Secondo la ormai costante giurisprudenza amministrativa, infatti, l’informativa antimafia fonda la sua (anomala con riferimento alle garanzie) ragion d’essere su un quadro meramente indiziario il cui obiettivo finalistico si sostanzia nella più precocemente possibile anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto alla quale assumono rilievo e sostanza fatti e vicende soltanto sintomatici ed indiziari.

Tale lata discrezionalità si presenta talmente monolitica da apparire insuscettiva di essere, in alcun modo e misura, scalfita, viepiù che la stessa non può essere sindacata nel merito bensì soltanto sotto l’aspetto della legittimità, con particolare riguardo all’eccesso di potere relativo ai profili della insufficiente motivazione, della manifesta illogicità o della erronea e travisata valutazione dei fatti presupposti, avuto particolare riguardo ai caratteri dell’attualità, della obiettiva congruità e della concretezza che gli elementi assunti dal Prefetto devono poter giustificare.

Così paradigmate le interdittive antimafia costituiscono un istituto di frontiera volto a colpire categorie di soggetti che si presume assumano relazioni qualificate con la criminalità mafiosa, nell’ottica di realizzare un efficace contrasto alle plurime forme di penetrazione della criminalità organizzata nelle attività economiche.

Nel quadro così determinato, caratterizzato da un esageratamente ampio e per certi versi incontrollato ed incontrollabile potere discrezionale conferito all’autorità prefettizia, il solo, anche se pur vero per certi versi labile - considerata la utilizzazione concreta che si è, purtroppo, spesso fatta - baluardo, è rappresentato dalla figura dell’eccesso di potere che mi permetto di definire il cuore antico del corretto sentire amministrativo, l’unico vero contraltare di garanzia nel complesso ambito della discrezionalità amministrativa che nella specie è tanto forte da assumere, per certi versi, connotati  così pregnanti da giungere a trasmodare i limiti di una effettiva garanzia ordinamentale. Per questo suo caratteristico imprinting, a mio avviso, l’eccesso di potere continua ad avere anche in prospettiva un futuro di sicuro rilievo con riferimento peculiare all’istituto dell’interdittiva, proprio perché, vizio di legittimità che, nella sua essenza, mira a contrastare l’aspetto patologico dell’attività provvedimentale discrezionale non correttamente esercitata alla luce dei parametri di logicità e congruità a  cui devono essere informati gli atti discrezionali della P.A.

In buona sostanza occorre opporre alla sbandierata necessità di assicurare il massimo livello di protezione nei confronti di fenomeni di particolare pericolosità ed aggressività per la vita sociale, una seria e meditata azione di controllo del potere discrezionale attribuito al Prefetto perché la sia pur lodevole intenzione di anticipazione della soglia di difesa sociale, non si risolva in un rimedio peggiore del male, viepiù che l’ecceso di potere, il cui paradigma strutturale, così come oggi più che mai, abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare, si estende ben oltre la sfera della “discrezionalità” in senso proprio perché esso si connota, senza se e senza ma, quale elemento fondante, parte integrante della legalità amministrativa visto e considerato che esso istituto costituisce lo strumento indiscutibilmente più forte e significativo per controllare la funzione amministrativa e porre rimedio all’operato non sempre fisiologico dell’attività del Prefetto in funzione dell’osservanza della legalità.

È di tutta realtà, invero, che l’irrazionalità di una scelta a seguito di un criterio irragionevolmente utilizzato dal Prefetto dimostra, a chiare note, come la decisione adottata non può che connotarsi - e questo deve far molto riflettere - come illegittima a monte, atteso che nelle fattispecie considerate non sussistono altre scelte legittime di cui evidentemente si sia potuta valutare l’opportunità di adozione.

A questo aggiungasi, senza tema di smentita o di ermeneusi di segno contrario, che il portato fisiologico della ragionevolezza è proiezione dei principi costituzionali di imparzialità e di eguaglianza, oltre che di quello del buon andamento ed assurge a canone generale dell’azione amministrativa le cui scelte, ivi comprese quelle del Prefetto, hanno l’obbligo di rivelarsi del tutto coerenti e congrue rispetto alle premesse di fatto e di diritto poste a fondamento delle decisioni assunte.

La legittimità dell’atto prefettizio, infatti, discende dalla razionalità dell’inferenza a cointeressenze economiche fra soggetti, che devono apparire tali da indurre il sospetto che il condizionamento mafioso possa estendersi nel maggior ambito rappresentato dai collegamenti societari, di guisa che è da assumersi come dato paradigmatico assodato che chi, interviene, in sede di sindacato giustiziale, sulla legittimità dell’interdittiva, non si produce in una compiuta analisi della fattispecie dedotta, non va a comparare il fatto di ciascuno dei singoli elementi con lo schema normativo, ma deduce l’esistenza del vizio dalla constatazione di talune carenze individuali di logica e di congruità o di queste in collegamento con i principi dell’attività amministrativa quali la manifesta ingiustizia e la disparità di trattamento.

In buona sostanza il sindacato del G.A. deve sempre estendersi, pleno titulo, all’esame della ragionevolezza ed alla logicità del ragionamento effettuato dal Prefetto avendo come paradigma di riferimento la realità del quadro istruttorio posto a fondamento dei fatti oggetto del provvedimento del Prefetto.

Alla luce di quanto sin qui considerato il vizio non presuppone la mancanza o l’erroneità di questo o quel motivo, bensì esso viene ad essere percepibile e configurabile dal complesso dei motivi. L’accertamento del vizio, infatti, non è il risultato di un giudizio di tipo meccanicistico, bensì la risultanza di un giudizio valutativo, talora sintetico, talora sintomatico.   

In buona sostanza l’eccesso di potere ravvisabile nel provvedimento di interdittiva può essere probabilmente più efficacemente individuato in un eccesso della funzione intesa come attività teleologicamente preordinata all’esercizio della potestà che non è stata esercitata in conformità allo schema normativo.

Correttamente inteso l’eccesso di potere si pone quale unico e significativo argine allo scorretto uso del potere discrezionale perché esso non è riconoscibile come vizio risultante dall’esame dell’atto, bensì quale percezione di un ragionamento, di un’analisi che riesce a dimostrare che le argomentazioni fatte proprie dal Prefetto per sostenere il suo operato appaiono del tutto illogiche, incoerenti ed irragionevoli.

Il giudizio del suo accertamento rimane, in subiecta materia, comunque nell’ambito del giudizio di legittimità - anche se l’indagine medesima si pone al confine con il criterio di opportunità -  perché attraverso tale attività di controllo non si procede a verificare la valutazione dei vari interessi effettuata dal Prefetto, ma si va ad esaminare attraverso il giudizio medesimo la sussistenza dei prefati interessi in fatto e, nel contempo, si ha cura di riscontrare e di valutare che non si siano determinate omissioni o sostituzioni importanti, nonché l’obiettivo riscontro che dalla valutazione medesima emerga una evidente coerenza logica e la concreta verifica che siano stati osservati i principi istituzionali della giustizia e dell’uguaglianza giacché l’eccesso di potere analizzato sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza si sostanzia quale principio cardine dell’azione amministrativa e, quindi, quale indiscutibile baluardo al cattivo esercizio della stessa. E ciò perché nelle ipotesi concreta del verificarsi dell’eccesso di potere si determina un vero e proprio decampare dai confini della norma.

Quanto detto sta ancora a significare che il giudizio sulla correttezza o meno dell’operato amministrativo, per i profili sopra evidenziati, postula il sindacato sulla validità della scelta effettuata dalla P.A. e delle modalità dell’azione medesima ed impone un giudizio articolato e penetrante nella sostanza dell’azione stessa.

Vale a dire che attraverso il sindacato giustiziale si giunge a presumere l’inadeguatezza e, quindi, l’inopportunità della scelta medesima ogniqualvolta dall’analisi e dall’esame degli atti procedimentali sia dato desumere la violazione del più volte ricordato principio di ragionevolezza e di logicità.

Le stesse figure sintomatiche dell’eccesso di potere, nella loro pluralità e diversità, non sostanziano altro che le forme di illogicità di cui risulta affetto il provvedimento interdittivo, ossia elementi sufficienti ed idonei a far presumere l’inopportunità dell’atto medesimo e quindi dedurne in via cautelativa la sua illegittimità.

L’eccesso di potere, dunque, rappresenta, soprattutto con riferimento alle interdittive antimafia, l’unico strumento nel panorama giuridico atto a vincolare il Prefetto al rispetto non formalistico del principio di legalità.

Ed è per questo che le conclusioni a cui perviene il Prefetto non possono e non devono essere sottratte al controllo esterno di legittimità, nei limiti del vizio di eccesso di potere sotto i profili dell’adeguatezza della sufficienza istruttoria, del corretto apprezzamento dei presupposti del provvedere, della ragionevolezza  delle statuizioni adottate e della proporzionalità della scelta provvedimentale correlata allo interesse pubblico da conseguire attraverso l’interdittiva.

In conformità a quanto riferito non appare revocabile in dubbio che l’emanazione di provvedimenti interdittivi non può fondarsi, sotto il profilo della loro logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati, su asserzioni inidonee a partecipare concreti elementi di giudizio suppostamente indiziari, ovvero causa spesso la loro indeterminatezza  dare soltanto astrattamente conto del loro effettivo grado di permeabilità in relazione al concreto pericolo di condizionamento e dell’infiltrazione mafiosa.

Va ancora per completezza soggiunto che, in subiecta materia, l’eccesso di potere si caratterizza anche e soprattutto quale vizio della funzione[2] individuabile dall’analisi del provvedimento di interdittiva oltre che espressione delle omissioni dell’intero procedimento (disparità di trattamento) che si traduce in un controllo della razionalità del comportamento amministrativo che, però, non può e non deve tralignare in valutazioni di  merito che per ciò stesso in sede di legittimità sono vietate; giacché soltanto tale controllo di razionalità, condotto attraverso il sindacato giustiziale di legittimità, può consentire di presumere la assoluta carenza di opportunità della scelta operata dal Prefetto.

Quanto alla distinzione tra motivazione illogica e motivazione contraddittoria va, con forza, specificato che essa è sofisma di elaborazione giurisprudenziale giacché la contraddittorietà è in sostanza una specie dell’illogicità che, però, nel ragionamento della giurisprudenza - i cui costrutti, come ricorda Giannini[3] vanno presi per quello che sono, ossia strumenti empirici di giustizia - vuole rappresentare qualche cosa di più immediatamente evidente da far risaltare attraverso l’analisi dell’accuratezza dell’istruttoria, della completezza dei dati e dei fatti assunti nell’interdittiva alla valutazione dell’attualità dei fatti medesimi da cui possa ragionevolmente presumersi il tentativo di ingerenza nella compagine sociale, nonché di ogni eventuale travisamento dei riferiti fatti, del riscontro della sufficienza della motivazione e della logicità e ragionevolezza delle conclusioni relative ai fatti posti a presupposto del provvedimento interdittivo.

Va infine precisato ed evidenziato a conclusione di questa ormai lunga nota che quel  che però appare una indiscutibile forza della figura sintomatica in esame rivela, nel contempo, anche la intrinseca sua debolezza atteso che se l’eccesso di potere viene maneggiato con la non necessaria e prudente accortezza in sede giustiziale[4], può dar luogo - come spesso, purtroppo sta avvenendo con decisioni non particolarmente coraggiose ed attente soltanto alla preservazione dello stare decisis - ad autentici dinieghi di giustizia, oltre che all’ulteriore e non commendevole risultato di procurare, a causa di interdittive assunte in forza di talvolta stereotipate motivazioni, esiziali pregiudizi economici. È di tutta evidenza, infatti, che le interdittive non correttamente espresse, proprio per determinare un effetto paralizzante nei confronti dei procedimenti afferenti alle gare di appalto ed all’esecuzione di opere pubbliche non sono foriere di danno unicamente per le imprese e le associazioni di categoria, bensì, in conseguenza dei ritardi connessi al blocco temporale dalle stesse determinato, producono ricadute estremamente significative soprattutto nei confronti della collettività. E ciò perché, come facilmente intuibile, i ritardi medesimi comportano una indubbia lievitazione dei costi per le P.A. committenti sia in termini di adeguamento dei costi medesimi, sia perché inibiscono o comunque fortemente rallentano il completamento delle opere.  

Tutto ciò va indiscutibilmente e correttamente evitato.

A mio parere, per rendere effettiva la tutela di difesa sociale occorrerebbe ipotizzare, al fine di garantire misure più adeguate di trasparenza e di riduzione della permeabilità nei confronti della criminalità organizzata, strumenti normativi più semplici ed efficaci delle interdittive quali, una seria, profonda e finalmente intellegibile riforma del codice degli appalti[5], e per eliminare l’attuale ingiustificato grado di frammentazione, la istituzione di stazioni appaltanti centralizzate nonché l’approntamento di “white list” che siano effettivamente tali, oltre alla cancellazione dal mondo giuridico del ricorso all’assurdo criterio del massimo ribasso che porta con sé l’ignobile fardello di consentire il compimento di opere pubbliche di discutibile sicurezza strutturale poste in esecuzione attraverso una rete, essa sì da colpire, di indegne connivenze.

Se ciò avverrà e soprattutto se si smetterà di inseguire astratti ed in verità poco efficaci interventi c.d. di legalità, si potrà, senza tema di smentita, asserire che l’eccesso di potere quale vizio della funzione amministrativa avrà ancora una volta pienamente assolto allo scopo cui, da sempre, è teleologicamente preordinato: garantire la razionalità del comportamento amministrativo, il buon andamento e la trasparenza dell’azione della P.A. anche riguardo agli odiosi tentativi di ingerenza della criminalità organizzata nelle attività imprenditoriali.

 

[Intervento tenuto il 16 dicembre 2015 presso l’Aula Magna Quistelli dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria nel seminario di studio su “Il controllo delle giurisdizioni sulla discrezionalità amministrativa” organizzato dal T.A.R. della Calabria, dalla Scuola Superiore della Magistratura - Struttura Territoriale di Reggio Calabria -, dalla Università degli Studi di Reggio Calabria “Mediterranea”, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Calabria, dalla Camera degli Avvocati Amministrativisti di Reggio Calabria]

 

[1] Enciclica Centesimus Annus n°46

[2] F. Benvenuti, Eccesso di potere per  vizio della funzione, RaDP 1950; A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere amministrativo Milano, 1976

[3] M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Vol. II, pag. 696 e ss, Milano 1988

[4] M.S. Giannini, Diritto Amministrativo Vol. II, pag. 756, Milano 1988;

[5] D.Lgs n°163/2006

Le ragioni di questo mio intervento nell’odierna assise sono dettate dalla esigenza di non collocarmi nel solco dell’agiografia ermeneutica tipica del politically correct che sta progressivamente avvilendo la libertà di espressione propria del pensiero giuridico immiserendo e, per certi versi, destabilizzando il ruolo dello stesso di ambito privilegiato del confronto delle idee.

Sant’Agostino in un passo del De Civitate Dei, ancora oggi di una attualità impressionante, ha affermato che “uno Stato senza diritto è una banda di briganti”, identificando il diritto non già con la semplice legge, bensì con tutto ciò che la legge è tenuta a riconoscere. Non è infatti la legge che fonda la verità, bensì è la verità che dà fondamento alla legge. Ne consegue che l’esigenza di garanzia dei valori si pone quale fondamento essenziale per un concetto di democrazia che non sia soltanto di stampo formale. E ciò perché, per dirla con Giovanni Paolo II[1], “una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto”.

Da qui  l’esigenza dello Stato di essere sì inflessibile e severo nei confronti della criminalità organizzata, senza le ineleganti scorciatoie ormai proprie del tempo attuale, ma piuttosto attraverso l’ausilio di una legislazione che, nei suoi contenuti, non si ponga quale frutto di astratta legalità di maniera, bensì quale momento regolatore profondamente rispettoso del sistema delle garanzie proprie dello Stato di diritto.

Per venire all’analisi del tema che mi è stato assegnato, è da riferire che la vigente legislazione, per definire il tentativo di infiltrazione mafiosa, utilizza un’astratta formula di contenuto in realtà più sociologico che giuridico considerando, senza alcuna ragione plausibile, il fenomeno mafioso causa piuttosto che effetto dell’attività criminale, ed attribuisce apoditticamente alla informativa antimafia la precipua finalità di anticipare il momento in cui la P.A. può intervenire in sede di autotutela amministrativa, al fine di evitare le possibili ingerenze della criminalità organizzata nello svolgimento dell’attività di impresa e consiste in una informativa diretta a verificare se l’impresa affidataria possa essere considerata affidabile e ciò a prescindere dai rilievi probatori tipici del processo penale, nonché dalla commissione di un illecito e dalla conseguente condanna, come invece accade per le misure di sicurezza. Ne consegue che le informative prefettizie, così come concepite, hanno come oggetto sotteso la verifica dell’esistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o delle imprese interessate da cui si desume che è sufficiente anche la mera eventualità che l’impresa possa, persino per via indiretta, favorire la criminalità.

Nella considerazione, dunque, che, nelle intenzioni, l’interdittiva antimafia è un istituto preordinato a garantire un ruolo di massima anticipazione all’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso per la cui configurazione dogmatica è sufficiente la mera sussistenza di un quadro indiziario tale da generare un un ragionevole convincimento di un condizionamento mafioso, si ritiene che legittimamente il Prefetto possa adottare l’informativa ostativa sulla base di elementi sintomatici ed indiziari dai quali è astrattamente possibile dedurre il paventato tentativo di ingerenza. Siffatta sintomatologia può essere rappresentata ad esempio da una condanna penale non irrevocabile, dalla intervenuta adozione di misure cautelari, dal coinvolgimento in una indagine penale, da cointeressenze societarie o da frequentazioni con soggetti malavitosi, che nel loro insieme e, quindi, non in ipotesi atomizzate, appaiano di rilevanza tale da fornire la stura al radicare, in termini di fondatezza, un giudizio di probabilità che l’attività di impresa possa, anche  per via indiretta, consentire l’agevolazione delle attività criminali, ovvero dalle stesse risultare tale attività in qualche modo condizionata. In questo quadro di, per vero, manifesta e, peraltro dichiarata, labilità  probatoria anche i legami di natura parentale assumono  pregnante rilievo qualora emerga un intreccio di interessi economici e familiari, dai quali sia possibile desumere la sussistenza dell’oggettivo pericolo che rapporti di collaborazione intercorsi a vario titolo tra soggetti inseriti nello stesso contesto familiare abbiano a porsi come strumento atto a diluire e a travisare aspetti di infiltrazione mafiosa nell’impresa oggetto di attenzione prefettizia. 

In ragione di siffatto invero astratto paradigma il Prefetto quasi sempre radica la propria valutazione su un quadro assolutamente indiziario in cui assumono rilievo pregnante i fattori da cui trarre la conclusione che non siano manifestamente infondati i sospetti che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo attraverso cui le organizzazioni criminali hanno la tendenza ad infiltrarsi negli appalti delle P.A.

Alla luce di quanto delineato il Prefetto utilizza un margine di accertamento e di apprezzamento discrezionale di ampiezza senza precedenti nella ricerca e nella valutazione dei fatti sintomatici di eventuali connivenze o collegamenti di tipo mafioso.

Secondo la ormai costante giurisprudenza amministrativa, infatti, l’informativa antimafia fonda la sua (anomala con riferimento alle garanzie) ragion d’essere su un quadro meramente indiziario il cui obiettivo finalistico si sostanzia nella più precocemente possibile anticipazione dell’azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia e di sicurezza, rispetto alla quale assumono rilievo e sostanza fatti e vicende soltanto sintomatici ed indiziari.

Tale lata discrezionalità si presenta talmente monolitica da apparire insuscettiva di essere, in alcun modo e misura, scalfita, viepiù che la stessa non può essere sindacata nel merito bensì soltanto sotto l’aspetto della legittimità, con particolare riguardo all’eccesso di potere relativo ai profili della insufficiente motivazione, della manifesta illogicità o della erronea e travisata valutazione dei fatti presupposti, avuto particolare riguardo ai caratteri dell’attualità, della obiettiva congruità e della concretezza che gli elementi assunti dal Prefetto devono poter giustificare.

Così paradigmate le interdittive antimafia costituiscono un istituto di frontiera volto a colpire categorie di soggetti che si presume assumano relazioni qualificate con la criminalità mafiosa, nell’ottica di realizzare un efficace contrasto alle plurime forme di penetrazione della criminalità organizzata nelle attività economiche.

Nel quadro così determinato, caratterizzato da un esageratamente ampio e per certi versi incontrollato ed incontrollabile potere discrezionale conferito all’autorità prefettizia, il solo, anche se pur vero per certi versi labile - considerata la utilizzazione concreta che si è, purtroppo, spesso fatta - baluardo, è rappresentato dalla figura dell’eccesso di potere che mi permetto di definire il cuore antico del corretto sentire amministrativo, l’unico vero contraltare di garanzia nel complesso ambito della discrezionalità amministrativa che nella specie è tanto forte da assumere, per certi versi, connotati  così pregnanti da giungere a trasmodare i limiti di una effettiva garanzia ordinamentale. Per questo suo caratteristico imprinting, a mio avviso, l’eccesso di potere continua ad avere anche in prospettiva un futuro di sicuro rilievo con riferimento peculiare all’istituto dell’interdittiva, proprio perché, vizio di legittimità che, nella sua essenza, mira a contrastare l’aspetto patologico dell’attività provvedimentale discrezionale non correttamente esercitata alla luce dei parametri di logicità e congruità a  cui devono essere informati gli atti discrezionali della P.A.

In buona sostanza occorre opporre alla sbandierata necessità di assicurare il massimo livello di protezione nei confronti di fenomeni di particolare pericolosità ed aggressività per la vita sociale, una seria e meditata azione di controllo del potere discrezionale attribuito al Prefetto perché la sia pur lodevole intenzione di anticipazione della soglia di difesa sociale, non si risolva in un rimedio peggiore del male, viepiù che l’ecceso di potere, il cui paradigma strutturale, così come oggi più che mai, abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare, si estende ben oltre la sfera della “discrezionalità” in senso proprio perché esso si connota, senza se e senza ma, quale elemento fondante, parte integrante della legalità amministrativa visto e considerato che esso istituto costituisce lo strumento indiscutibilmente più forte e significativo per controllare la funzione amministrativa e porre rimedio all’operato non sempre fisiologico dell’attività del Prefetto in funzione dell’osservanza della legalità.

È di tutta realtà, invero, che l’irrazionalità di una scelta a seguito di un criterio irragionevolmente utilizzato dal Prefetto dimostra, a chiare note, come la decisione adottata non può che connotarsi - e questo deve far molto riflettere - come illegittima a monte, atteso che nelle fattispecie considerate non sussistono altre scelte legittime di cui evidentemente si sia potuta valutare l’opportunità di adozione.

A questo aggiungasi, senza tema di smentita o di ermeneusi di segno contrario, che il portato fisiologico della ragionevolezza è proiezione dei principi costituzionali di imparzialità e di eguaglianza, oltre che di quello del buon andamento ed assurge a canone generale dell’azione amministrativa le cui scelte, ivi comprese quelle del Prefetto, hanno l’obbligo di rivelarsi del tutto coerenti e congrue rispetto alle premesse di fatto e di diritto poste a fondamento delle decisioni assunte.

La legittimità dell’atto prefettizio, infatti, discende dalla razionalità dell’inferenza a cointeressenze economiche fra soggetti, che devono apparire tali da indurre il sospetto che il condizionamento mafioso possa estendersi nel maggior ambito rappresentato dai collegamenti societari, di guisa che è da assumersi come dato paradigmatico assodato che chi, interviene, in sede di sindacato giustiziale, sulla legittimità dell’interdittiva, non si produce in una compiuta analisi della fattispecie dedotta, non va a comparare il fatto di ciascuno dei singoli elementi con lo schema normativo, ma deduce l’esistenza del vizio dalla constatazione di talune carenze individuali di logica e di congruità o di queste in collegamento con i principi dell’attività amministrativa quali la manifesta ingiustizia e la disparità di trattamento.

In buona sostanza il sindacato del G.A. deve sempre estendersi, pleno titulo, all’esame della ragionevolezza ed alla logicità del ragionamento effettuato dal Prefetto avendo come paradigma di riferimento la realità del quadro istruttorio posto a fondamento dei fatti oggetto del provvedimento del Prefetto.

Alla luce di quanto sin qui considerato il vizio non presuppone la mancanza o l’erroneità di questo o quel motivo, bensì esso viene ad essere percepibile e configurabile dal complesso dei motivi. L’accertamento del vizio, infatti, non è il risultato di un giudizio di tipo meccanicistico, bensì la risultanza di un giudizio valutativo, talora sintetico, talora sintomatico.   

In buona sostanza l’eccesso di potere ravvisabile nel provvedimento di interdittiva può essere probabilmente più efficacemente individuato in un eccesso della funzione intesa come attività teleologicamente preordinata all’esercizio della potestà che non è stata esercitata in conformità allo schema normativo.

Correttamente inteso l’eccesso di potere si pone quale unico e significativo argine allo scorretto uso del potere discrezionale perché esso non è riconoscibile come vizio risultante dall’esame dell’atto, bensì quale percezione di un ragionamento, di un’analisi che riesce a dimostrare che le argomentazioni fatte proprie dal Prefetto per sostenere il suo operato appaiono del tutto illogiche, incoerenti ed irragionevoli.

Il giudizio del suo accertamento rimane, in subiecta materia, comunque nell’ambito del giudizio di legittimità - anche se l’indagine medesima si pone al confine con il criterio di opportunità -  perché attraverso tale attività di controllo non si procede a verificare la valutazione dei vari interessi effettuata dal Prefetto, ma si va ad esaminare attraverso il giudizio medesimo la sussistenza dei prefati interessi in fatto e, nel contempo, si ha cura di riscontrare e di valutare che non si siano determinate omissioni o sostituzioni importanti, nonché l’obiettivo riscontro che dalla valutazione medesima emerga una evidente coerenza logica e la concreta verifica che siano stati osservati i principi istituzionali della giustizia e dell’uguaglianza giacché l’eccesso di potere analizzato sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza si sostanzia quale principio cardine dell’azione amministrativa e, quindi, quale indiscutibile baluardo al cattivo esercizio della stessa. E ciò perché nelle ipotesi concreta del verificarsi dell’eccesso di potere si determina un vero e proprio decampare dai confini della norma.

Quanto detto sta ancora a significare che il giudizio sulla correttezza o meno dell’operato amministrativo, per i profili sopra evidenziati, postula il sindacato sulla validità della scelta effettuata dalla P.A. e delle modalità dell’azione medesima ed impone un giudizio articolato e penetrante nella sostanza dell’azione stessa.

Vale a dire che attraverso il sindacato giustiziale si giunge a presumere l’inadeguatezza e, quindi, l’inopportunità della scelta medesima ogniqualvolta dall’analisi e dall’esame degli atti procedimentali sia dato desumere la violazione del più volte ricordato principio di ragionevolezza e di logicità.

Le stesse figure sintomatiche dell’eccesso di potere, nella loro pluralità e diversità, non sostanziano altro che le forme di illogicità di cui risulta affetto il provvedimento interdittivo, ossia elementi sufficienti ed idonei a far presumere l’inopportunità dell’atto medesimo e quindi dedurne in via cautelativa la sua illegittimità.

L’eccesso di potere, dunque, rappresenta, soprattutto con riferimento alle interdittive antimafia, l’unico strumento nel panorama giuridico atto a vincolare il Prefetto al rispetto non formalistico del principio di legalità.

Ed è per questo che le conclusioni a cui perviene il Prefetto non possono e non devono essere sottratte al controllo esterno di legittimità, nei limiti del vizio di eccesso di potere sotto i profili dell’adeguatezza della sufficienza istruttoria, del corretto apprezzamento dei presupposti del provvedere, della ragionevolezza  delle statuizioni adottate e della proporzionalità della scelta provvedimentale correlata allo interesse pubblico da conseguire attraverso l’interdittiva.

In conformità a quanto riferito non appare revocabile in dubbio che l’emanazione di provvedimenti interdittivi non può fondarsi, sotto il profilo della loro logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati, su asserzioni inidonee a partecipare concreti elementi di giudizio suppostamente indiziari, ovvero causa spesso la loro indeterminatezza  dare soltanto astrattamente conto del loro effettivo grado di permeabilità in relazione al concreto pericolo di condizionamento e dell’infiltrazione mafiosa.

Va ancora per completezza soggiunto che, in subiecta materia, l’eccesso di potere si caratterizza anche e soprattutto quale vizio della funzione[2] individuabile dall’analisi del provvedimento di interdittiva oltre che espressione delle omissioni dell’intero procedimento (disparità di trattamento) che si traduce in un controllo della razionalità del comportamento amministrativo che, però, non può e non deve tralignare in valutazioni di  merito che per ciò stesso in sede di legittimità sono vietate; giacché soltanto tale controllo di razionalità, condotto attraverso il sindacato giustiziale di legittimità, può consentire di presumere la assoluta carenza di opportunità della scelta operata dal Prefetto.

Quanto alla distinzione tra motivazione illogica e motivazione contraddittoria va, con forza, specificato che essa è sofisma di elaborazione giurisprudenziale giacché la contraddittorietà è in sostanza una specie dell’illogicità che, però, nel ragionamento della giurisprudenza - i cui costrutti, come ricorda Giannini[3] vanno presi per quello che sono, ossia strumenti empirici di giustizia - vuole rappresentare qualche cosa di più immediatamente evidente da far risaltare attraverso l’analisi dell’accuratezza dell’istruttoria, della completezza dei dati e dei fatti assunti nell’interdittiva alla valutazione dell’attualità dei fatti medesimi da cui possa ragionevolmente presumersi il tentativo di ingerenza nella compagine sociale, nonché di ogni eventuale travisamento dei riferiti fatti, del riscontro della sufficienza della motivazione e della logicità e ragionevolezza delle conclusioni relative ai fatti posti a presupposto del provvedimento interdittivo.

Va infine precisato ed evidenziato a conclusione di questa ormai lunga nota che quel  che però appare una indiscutibile forza della figura sintomatica in esame rivela, nel contempo, anche la intrinseca sua debolezza atteso che se l’eccesso di potere viene maneggiato con la non necessaria e prudente accortezza in sede giustiziale[4], può dar luogo - come spesso, purtroppo sta avvenendo con decisioni non particolarmente coraggiose ed attente soltanto alla preservazione dello stare decisis - ad autentici dinieghi di giustizia, oltre che all’ulteriore e non commendevole risultato di procurare, a causa di interdittive assunte in forza di talvolta stereotipate motivazioni, esiziali pregiudizi economici. È di tutta evidenza, infatti, che le interdittive non correttamente espresse, proprio per determinare un effetto paralizzante nei confronti dei procedimenti afferenti alle gare di appalto ed all’esecuzione di opere pubbliche non sono foriere di danno unicamente per le imprese e le associazioni di categoria, bensì, in conseguenza dei ritardi connessi al blocco temporale dalle stesse determinato, producono ricadute estremamente significative soprattutto nei confronti della collettività. E ciò perché, come facilmente intuibile, i ritardi medesimi comportano una indubbia lievitazione dei costi per le P.A. committenti sia in termini di adeguamento dei costi medesimi, sia perché inibiscono o comunque fortemente rallentano il completamento delle opere.  

Tutto ciò va indiscutibilmente e correttamente evitato.

A mio parere, per rendere effettiva la tutela di difesa sociale occorrerebbe ipotizzare, al fine di garantire misure più adeguate di trasparenza e di riduzione della permeabilità nei confronti della criminalità organizzata, strumenti normativi più semplici ed efficaci delle interdittive quali, una seria, profonda e finalmente intellegibile riforma del codice degli appalti[5], e per eliminare l’attuale ingiustificato grado di frammentazione, la istituzione di stazioni appaltanti centralizzate nonché l’approntamento di “white list” che siano effettivamente tali, oltre alla cancellazione dal mondo giuridico del ricorso all’assurdo criterio del massimo ribasso che porta con sé l’ignobile fardello di consentire il compimento di opere pubbliche di discutibile sicurezza strutturale poste in esecuzione attraverso una rete, essa sì da colpire, di indegne connivenze.

Se ciò avverrà e soprattutto se si smetterà di inseguire astratti ed in verità poco efficaci interventi c.d. di legalità, si potrà, senza tema di smentita, asserire che l’eccesso di potere quale vizio della funzione amministrativa avrà ancora una volta pienamente assolto allo scopo cui, da sempre, è teleologicamente preordinato: garantire la razionalità del comportamento amministrativo, il buon andamento e la trasparenza dell’azione della P.A. anche riguardo agli odiosi tentativi di ingerenza della criminalità organizzata nelle attività imprenditoriali.

 

[Intervento tenuto il 16 dicembre 2015 presso l’Aula Magna Quistelli dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria nel seminario di studio su “Il controllo delle giurisdizioni sulla discrezionalità amministrativa” organizzato dal T.A.R. della Calabria, dalla Scuola Superiore della Magistratura - Struttura Territoriale di Reggio Calabria -, dalla Università degli Studi di Reggio Calabria “Mediterranea”, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Calabria, dalla Camera degli Avvocati Amministrativisti di Reggio Calabria]

 

[1] Enciclica Centesimus Annus n°46

[2] F. Benvenuti, Eccesso di potere per  vizio della funzione, RaDP 1950; A. Azzena, Natura e limiti dell’eccesso di potere amministrativo Milano, 1976

[3] M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Vol. II, pag. 696 e ss, Milano 1988

[4] M.S. Giannini, Diritto Amministrativo Vol. II, pag. 756, Milano 1988;

[5] D.Lgs n°163/2006