Interdittiva antimafia: soci e amministratori non sono legittimati all’impugnazione

Casa rossa Castiglione della Pescaia -Riserva naturale Diaccia Botrona
Ph. Maria Cristina Sica / Casa rossa Castiglione della Pescaia -Riserva naturale Diaccia Botrona

1. Premessa

Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (di seguito CGA) ha chiesto all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato di chiarire: a) se in materia di impugnazione di interdittive antimafia vada, o meno, riconosciuta, in capo ad ex amministratori e soci della società attinta, autonoma legittimazione a ricorrere, avuto riguardo alla situazione giuridica dedotta in giudizio, e se gli stessi vadano ritenuti soggetti che patiscano “effetti diretti” dall’adozione di provvedimenti di siffatta natura; b) in caso di soluzione positiva al primo quesito, se l’effetto devolutivo proprio dell’appello si estenda anche al caso in cui il ricorso in primo grado non sia stato riunito a ricorsi aventi ad oggetto l’impugnazione del medesimo provvedimento da parte degli stessi ovvero da diversi ricorrenti.

L’Adunanza plenaria ha risposto ai quesiti con la sentenza n. 3/2022, emessa in esito all’udienza pubblica del 17 novembre 2021.

È un’importante occasione di verifica dei criteri interpretativi in uso riguardo all’informazione interdittiva antimafia e alla composizione degli interessi sottostanti.

Le parti evidenziate tra virgolette ed in corsivo, se non diversamente specificato, sono tratte testualmente dalla sentenza commentata.

 

2. La vicenda sottostante al giudizio

Un Prefetto ha emesso un’informazione interdittiva nei confronti di una società per azioni.

Per l’effetto è stata risolta la convenzione di gestione di un importante servizio che questa aveva con una pubblica amministrazione, è stato nominato un Commissario straordinario con il compito di proseguire le attività convenzionate e i soci sono stati estromessi dalle cariche rivestite nel consiglio d’amministrazione della società e dalla sua gestione concreta.

I soci hanno impugnato il provvedimento[1].

Il TAR adito ha considerato inammissibile il ricorso per difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti.

Costoro hanno appellato la decisione di primo grado deducendo l’inesistenza di un criterio formale di individuazione del soggetto titolare dell’interesse all’impugnazione e ricavandone la propria legittimazione in quanto titolari di un interesse attuale e concreto collegato ad una loro posizione di vantaggio attinente ad uno specifico bene della vita. Hanno rilevato che la motivazione del provvedimento prefettizio, nella parte in cui attestava condizionamenti mafiosi, causava loro un grave pregiudizio, gli precludeva l’esercizio dei poteri gestionali in una società nella quale avevano investito somme importanti, gli impediva di intervenire per sanare la crisi societaria e, in definitiva, gli arrecava un ingente danno patrimoniale alla cui causazione aveva concorso la pessima gestione commissariale e un altrettanto grave danno reputazionale dovuto al grande risalto mediatico del provvedimento impugnato.

Si sono costituite in giudizio l’Amministrazione e l’ATO interessate per resistere all’appello.

Il CGA ha emesso una sentenza non definitiva, rigettando le eccezioni proposte dalle amministrazioni.

Ha contestualmente rimesso gli atti all’Adunanza plenaria, rilevando l’esistenza di orientamenti conflittuali in senso al Consiglio di Stato quanto all’individuazione dei soggetti legittimati ad impugnare le informative prefettizie.

In talune decisioni (tra queste, Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2020, n. 6205) si è affermato infatti che l’impugnazione spetta solo a chi ne patisce gli effetti diretti sulla sua posizione giuridica di interesse legittimo, in altre  (Cons. Stato, sez. III, 4 aprile 2017, n. 1559) è stata invece affermata la tesi opposta sul presupposto dell’esistenza di un interesse insieme professionale, patrimoniale e morale, quest’ultimo individuato nella potenziale lesione dell’onore e della reputazione dei soggetti per i quali il provvedimento prefettizio ipotizzi la soggezione a condizionamenti mafiosi.

Il CGA ha posto conseguentemente all’Adunanza plenaria i quesiti esposti in premessa.

Costituitesi le parti dinanzi a tale organo e svolte le loro difese, la causa è andata in decisione.

 

3. La decisione dell’Adunanza plenaria

È cruciale per la soluzione dei quesiti accertare se esista una situazione soggettiva in capo agli amministratori ed ai soci della persona giuridica destinataria dell’interdittiva antimafia e se tale situazione abbia la consistenza di interesse legittimo.

La legittimazione ad agire in giudizio ex artt. 24 e 113 Cost. e la possibilità di partecipazione procedimentale in una delle forme previste dalla Legge n. 241/1990 dipendono infatti dalla risposta positiva a quegli interrogativi e dall’ulteriore requisito del pregiudizio causato all’interesse legittimo dall’esercizio di un potere amministrativo.

Spetta quindi al giudice una verifica preliminare[2] che va compiuta sulla base di precise coordinate concettuali[3].

Se l’indispensabile relazione diretta ed immediata esiste, la sua prima conseguenza è la facoltà di partecipazione procedimentale riconosciuta al titolare dell’interesse legittimo dall’art. 7 L. n. 241/1990 cui si aggiunge il potere di agire in giudizio per tutelare il proprio interesse legittimo compromesso dall’esercizio o dal mancato esercizio (provvedimento negativo) del potere amministrativo e, in caso di lesione accertata, l’eliminazione del provvedimento lesivo e il recupero della pienezza del proprio patrimonio giuridico o l’esercizio del potere amministrativo e l’ampliamento del proprio patrimonio giuridico.

Su queste premesse, l’Adunanza plenaria ha escluso la legittimazione ad agire degli appellanti perché, essendo l’esercizio del potere amministrativo diretto alla persona giuridica, l’interesse legittimo si costituisce in capo a questa e non ai suoi soci o amministratori i quali, semmai, possono ricevere un pregiudizio riflesso in virtù del rapporto contrattuale o di altro tipo che li lega alla destinataria diretta ed essere conseguentemente abilitati, ove ne ricorrano i presupposti, ad intervenire in giudizio.

 

4. Il commento

La decisione dell’Adunanza plenaria è ben poco convincente.

Lo è anzitutto nella sostanziale inesplicabilità dell’esclusione fatta derivare dalla nozione prescelta di interesse legittimo.

È tale, secondo l’Adunanza, una posizione qualificata e differenziata che si distingue dal diritto soggettivo in quanto inerente all’esistenza e all’esercizio (o al mancato esercizio) di un potere amministrativo.

Questa posizione ha dunque una dimensione relazionale tra un soggetto che ha già o intende ottenere una determinata utilità (a sua volta riferita a un bene della vita) e la pubblicazione amministrazione che esercita un potere attribuitole dall’ordinamento giuridico.

L’utilità può consistere nella neutralizzazione dell’esercizio di un potere allorché questo comprima un patrimonio giuridico esistente (interesse oppositivo) o nella pretesa dell’esercizio di un potere allorché ne consegua l’ampliamento del patrimonio (interesse pretensivo).

In entrambi i casi occorre un rapporto diretto e immediato tra l’esercizio del potere e il soggetto che vi è interessato nel senso che il provvedimento amministrativo produce effetti diretti di tipo limitativo o compressivo nella sfera di costui.

Legate a questa configurazione sono due ulteriori caratteristiche: la personalità dell’interesse (che si ha quando il soggetto è destinatario del provvedimento o si trovi in una posizione opposta e speculare rispetto al destinatario diretto) e la sua attualità (data dall’esigenza di tutela a fronte di un atto lesivo e dall’effettiva utilità ricavabile dall’azione in giudizio).

Enunciato questo denso apparato argomentativo, l’Adunanza plenaria lo applica tuttavia al ribasso e di fatto fonda le sue conclusioni su un mero dato formale: la società è la destinataria dell’atto prefettizio e per ciò stesso si trova in rapporto di immediata inerenza con l’esercizio del potere interdittivo sicché è l’unico soggetto ad essere legittimato ad impugnare il provvedimento espressivo di quel potere.

Non è dato tuttavia comprendere, e la sentenza non lo chiarisce affatto, perché mai non si possano e debbano considerare effetti diretti, immediati, personali e attuali la perdita dei poteri gestori e di controllo subita dai soci, l’avvicendamento forzato subito dagli amministratori ed il discredito subito dagli uni e dagli altri quando il loro nome e le loro attività siano valorizzati in negativo ai fini della dimostrazione di un pericolo presunto di infiltrazione e di condizionamento di natura mafiosa.

Ognuna di queste diminuzioni trova infatti la sua fonte immediata nel provvedimento interdittivo, ha un’innegabile e grave valenza lesiva patrimoniale e personale, può essere rimossa solo attraverso la rimozione dell’atto che l’ha prodotta.

Né pare significativo il passaggio della sentenza in cui, sia pure en passant, si adombra che la reputazione e la dignità attengano a diritti soggettivi e non interessi legittimi il che renderebbe inammissibile il ricorso che chieda l’annullamento dell’atto amministrativo che le abbia lese.

Basterà qui ricordare il diverso istituto dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare disciplinato dagli artt. 143/146 del D. Lgs. 267/2000 (il cosiddetto testo unico degli enti locali) e gli indirizzi interpretativi formatisi al riguardo in punto di legittimazione all’azione.

Cons. Stato, sez. III, sentenza n. 2793/2021, ha riconosciuto l’ammissibilità del ricorso presentato dal sindaco e da alcuni consiglieri di un ente sciolto per mafia pur essendo già cessata la consiliatura per la quale erano stati eletti ed essendo quindi impossibile ripristinarla in caso di annullamento del provvedimento dissolutorio.

Nell’occasione il giudice amministrativo ha valorizzato l’interesse «quanto meno morale, a che gli amministratori del disciolto Consiglio, a tutela della loro stessa immagine e reputazione, facciano dichiarare l’erroneità delle affermazioni contenute nel provvedimento impugnato e, quindi, l’inesistenza di forme di pressione e di vicinanza della compagine governativa alla malavita organizzata […] Né vale obiettare […] che la lesione dell’immagine del singolo ex amministratore discende semmai (e a tutto voler concedere) essenzialmente dai “fatti” posti a fondamento della misura dissolutoria, l’accertamento della cui veridicità è oggetto di verifica solo incidentale da parte del giudice amministrativo. La tesi non persuade in quanto non si può negare che quei fatti assurgono a significanza proprio per il tramite del giudizio valutativo altamente discrezionale che ne rende l’amministrazione, sicché, se la portata del loro disvalore è compendiata ed enucleata essenzialmente nell’atto ex art. 143, è certamente apprezzabile l’interesse demolitorio volto a contrastare l’interpretazione che in detto atto risulta trasposta e cristallizzata».

È lo stesso Consiglio di Stato quindi a riconoscere che l’immagine e la reputazione possono pacificamente rientrare nella sfera dell’interesse legittimo ove siano lese nell’esercizio di un potere amministrativo.

Si deve quindi riconoscere l’esattezza della tesi secondo la quale la scelta di ciò che è interesse legittimo non solo è eminentemente giurisprudenziale ma è causa di incertezze e imprevedibilità[4].

Un vero e proprio deficit di tassatività, dunque, che nel caso qui in esame genera un difetto di tutela ben colto nel provvedimento di rimessione del CGA[5].

Sembra allora di potersi affermare che la decisione dell’Adunanza plenaria, interamente ed esclusivamente focalizzata sui parametri della qualificazione e differenziazione, abbia banalizzato gli effetti che l’esercizio del potere interdittivo è capace di causare nelle vite e nei patrimoni dei soci e degli amministratori e inteso in modo minimalista il ruolo del giudice amministrativo[6], soprattutto a fronte di un istituto, quello dell’informazione interdittiva antimafia, che si fonda su un pericolo presunto, la cui dimostrazione può essere ricavata da meri sospetti ai limiti dell’impalpabilità.

Il suo contenimento entro i confini del principio di legalità è subordinato dunque non solo alla correttezza dei percorsi valutativi ma anche alla loro controllabilità ad iniziativa di chi ne patisce gli effetti.

C’era l’occasione di attivare un ulteriore presidio di controllo ma è stata sprecata.

 

[1] Hanno lamentato «la perdita della gestione dell’azienda, nella quale avevano investito ingenti capitali, nonché la preclusione all’esercizio della carica da parte del Presidente del Consiglio di amministrazione e da parte di tutti gli altri consiglieri di amministrazione che erano espressione delle società ricorrenti, detentrici dei pacchetti azionari della società».

[2] Il suo scopo è accertare se esistano «una posizione qualificata e differenziata (avente consistenza di interesse legittimo), correlata al bene della vita oggetto di esercizio del pubblico potere, idonea a distinguere il ricorrente da ogni altro consociato (accertamento strumentale alla verifica della legittimazione al ricorso)» e «una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente, suscettibile, pertanto, di essere beneficiato - e, dunque, di trarre un’utilità effettiva - da un’eventuale sentenza di accoglimento della propria impugnazione».

[3] Il giudice deve infatti tenere conto che «ciò che caratterizza l’interesse legittimo – e che costituisce la differenza essenziale dello stesso dal diritto soggettivo – è la sua inerenza alla esistenza e, soprattutto, all’esercizio del potere amministrativo: l’interesse legittimo, infatti, non è percepibile sul piano, per così dire, “statico”, senza, cioè, che la pubblica amministrazione abbia esercitato o negato di esercitare, nei confronti del soggetto, il potere del quale essa è titolare […] la posizione di interesse legittimo (alla quale inerisce la legittimazione ad agire in sede processuale) presuppone ed esprime necessariamente una relazione intercorrente tra un soggetto che ha (o intende ottenere) una determinata utilità (riferita ad un “bene della vita”), e la pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere ad essa attribuito dall’ordinamento giuridico, sia che tale utilità consista nel neutralizzare l’esercizio del potere amministrativo, a tutela di un patrimonio giuridico già esistente che verrebbe altrimenti compresso; sia se volta ad ottenere l’esercizio del potere amministrativo negato dall’amministrazione, attraverso il quale si intende(va) conseguire un ampliamento del proprio patrimonio giuridico. In ambedue le ipotesi, quindi, esiste un rapporto diretto ed immediato tra l’esercizio del potere amministrativo (e ciò in cui esso si sostanzia, cioè il provvedimento amministrativo) e l’interessato all’esercizio del potere medesimo, Tale relazione diretta si concretizza nel fatto che il provvedimento amministrativo e suoi effetti interessano direttamente (ed univocamente) il patrimonio giuridico di un determinato soggetto, in senso compressivo o ampliativo». Il giudice deve inoltre ricordare che «l’interesse è “personale” in quanto si appunta solo in capo al soggetto che si rappresenta come titolare, ed è altresì (inscindibilmente con la prima caratteristica), anche “diretto”, in quanto il suo titolare è posto in una relazione di immediata inerenza con l’esercizio del potere amministrativo (per essere destinatario dell’atto e/o per avere nei confronti dell’atto una posizione opposta, speculare a quella del destinatario diretto) […] Laddove, dunque, gli attributi di “personale” e “diretto” attengono all’interesse legittimo in quanto posizione sostanziale, e consentono di circoscriverne la titolarità, l’ulteriore attributo di “attuale”, attiene alla proiezione processuale della posizione sostanziale, alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che renda dunque necessaria l’azione in giudizio, onde ottenere tutela, e quindi “utile”, a tali fini, la pronuncia del giudice. È  tale posizione giuridica, nei sensi sopra descritti, che legittima al ricorso avverso l’atto amministrativo lesivo, se ed in quanto, attraverso l’annullamento dell’atto, si conserva o consegue (o si può conseguire, anche attraverso il riesercizio del potere amministrativo) quella utilità di cui si è, o si ritiene di dovere diventare, o si intende diventare, “titolare”. Al contrario, laddove non è individuabile tale posizione, ma purtuttavia sono enucleabili generiche posizioni di interesse (anche derivanti da rapporti, quale che ne sia la fonte, intercorrenti tra soggetto in relazione con il potere amministrativo ed ulteriori soggetti), queste ultime – che ben possono ricevere indirettamente e/o di riflesso, un “pregiudizio”- legittimano i loro titolari a spiegare intervento in giudizio, ma non già ad impugnare autonomamente il provvedimento lesivo della sfera giuridica del soggetto con il quale intrattengono a diverso titolo rapporti giuridici».

[4] Il riferimento è a M. Ramajoli, Pluralismo giurisdizionale e situazioni soggettive sostanziali, in Questione Giustizia, speciale n. 1/2021, La giurisdizione plurale: giudici e potere amministrativo, pagg. 86 e ss.

Per l’Autrice «La qualificazione di una situazione giuridica soggettiva come interesse legittimo oppure come diritto soggettivo è operata non dal legislatore, bensì dalla giurisprudenza. O, meglio, gli interessi legittimi e i diritti soggettivi nei confronti dell’amministrazione, pur affondando le loro radici nel diritto sostanziale, prendono forma precisa nel processo. Nel riconoscere una situazione giuridica soggettiva il giudice utilizza le disposizioni normative reputate rilevanti e da lui interpretate, ma, al tempo stesso, ricorre a schemi teorici di carattere generale. Del resto, manca una tipizzazione legislativa delle situazioni soggettive spettanti ai singoli nei confronti dell’amministrazione e conseguentemente la loro identificazione avviene necessariamente caso per caso, «senza l’ausilio di quelle definizioni e di quelle clausole generali che conferiscono alle situazioni soggettive di diritto civile la loro caratteristica evidenza a priori […] In concreto, l’interesse legittimo è riconosciuto caso per caso dalla giurisprudenza attraverso la concessione dell’azione in ragione, non solo di una non sempre agevole qualificazione e/o differenziazione normativa, ma anche di schemi logici che influiscono ex ante. Dal momento che la situazione giuridica fatta valere nei riguardi dell’amministrazione «ha una consistenza indeterminata, non appartenendo a catalogazioni legislative specifiche (…) la conseguenza è che processo amministrativo e diritto sostanziale risultano solo relativamente autonomi tra loro», con la sede processuale che svolge una funzione di autentica individuazione degli interessi sostanziali meritevoli di tutela. Quindi, non solo sono poco chiari i confini tra l’interesse legittimo e il diritto soggettivo o l’interesse di fatto, ma anche tra l’interesse legittimo e la legittimazione a ricorrere».

[5] Il testo che segue è la riassunzione delle argomentazioni del CGA fatta nella sentenza dell’Adunanza plenaria:

«Il Giudice remittente afferma di condividere il secondo orientamento giurisprudenziale sopra riportato, esponendo a supporto una pluralità di ragioni.

In primo luogo, si evidenzia come, dall’analisi degli artt. 84 e 91 d.lgs. n. 159/2011, emerga che l’emanazione dei provvedimenti interdittivi costituisce frutto di un procedimento amministrativo connotato da una natura tendenzialmente cautelare e con finalità preventiva dell’infiltrazione mafiosa, al quale, secondo la giurisprudenza, non possono essere estese le garanzie del contraddittorio di cui alla l. n. 241/1990, e ciò nonostante la decisione prefettizia si basi generalmente su accertamenti di fatto complessi, in qualche caso addirittura di tipo indiziario, nell’ambito dei quali ben possono manifestarsi significativi margini di errore.

E dunque “il sacrificio delle garanzie procedimentali potrebbe essere bilanciato dalla possibilità di far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale anche da parte dei soggetti che sono immediatamente e gravemente incisi dal provvedimento prefettizio, sebbene non formalmente diretti destinatari dello stesso, ove si riguardi, (i) quanto alla posizione dei soci, alla perdita di ogni controllo sulla gestione aziendale ove sovente sono stati investiti ingenti capitali, e (ii) quanto alla posizione degli ex amministratori, alla sostanziale espunzione da un’attività professionale che spesso costituisce l’unica fonte di reddito, senza tralasciare il discredito e la lesione alla reputazione ed onore dei soggetti le cui vicende personali ed i precedenti giudiziari vengono ampiamente richiamati, interpretati ed esternati con grave connotazione negativa negli atti di cui si discute; il tutto senza che questi ultimi, diretti interessati spesso a conoscenza di altri fatti rilevanti e finanche decisivi, abbiano mai potuto interloquire: non in sede procedimentale, fase nella quale il contraddittorio, come visto, è escluso (a maggior ragione con riferimento a soggetti diversi dal destinatario dell’interdittiva), e nemmeno in via giurisdizionale”.

E tale conclusione “sottopone ad evidente tensione l’applicazione dell’istituto con i principi eurounitari (n.d.r.: cioè il principio del contraddittorio prima dell’adozione di provvedimenti che incidono sensibilmente su interessi di soggetti specifici), oltre che con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost.”.

Anche con riferimento al caso oggetto di giudizio, l’atto di rimessione rileva come “proprio la caratteristica della motivazione di tali provvedimenti evidenzia un irrimediabile vulnus laddove ai soggetti le cui vicende personali, anche molto risalenti e addirittura già oggetto di valutazione favorevole in occasione di precedenti provvedimenti favorevoli, vengano rivisitate in chiave opposta, non venisse consentito di interloquire, avuto riguardo alle conseguenze esiziali che poi derivano dall’interdittiva (anche) per gli stessi sul piano individuale e patrimoniale” e dunque “il riconoscimento della legittimazione al ricorso potrebbe, tra l’altro, compensare l'omessa garanzia del contraddittorio endoprocedimentale”.

Si ricordi, a tal fine, come “nonostante l’invasività degli effetti delle misure in questione, per pervenire alle quali si attinge normalmente a piene mani da atti di procedimenti penali . . . il procedimento in questione, formalmente amministrativo, (non) contempli alcune delle garanzie riconosciute all’indagato e/o all’imputato”, di modo che “la possibilità di ricorrere consentirebbe (a chi si trova definitivamente estromesso da ogni attività economica/professionale) di recuperare, quantomeno a provvedimento emesso, attraverso la tutela giudiziale, parte delle garanzie ordinariamente connesse a provvedimenti di natura gravemente afflittiva”».

[6] Si rinvia sul punto a B. Giliberti, La legittimazione ad agire nel processo amministrativo di legittimità tra potere qualificatorio pubblico e forza legittimante della sovranità dell’individuo, 2019, in Persona e Amministrazione, pagg. 27 e ss. Nell’opinione dell’Autore «la legittimazione ad agire è usualmente declinata come diade di qualificazione e differenziazione, di tal che in assenza anche solo di una delle due la legittimazione andrebbe sempre esclusa. Questa impostazione ammette, infatti, che, in assenza di un’operazione di qualificazione espressa (id est di individuazione legislativa – o, meglio, ordinamentale – di una posizione protetta), il potere amministrativo possa dispiegarsi nella vita dei singoli (id est differenziarsi), senza che a ciò corrisponda la disponibilità di strumenti processuali, che consentano di verificare la legalità di quell’incursione, ritenendola giuridicamente irrilevante. Il che appare quanto meno sorprendente non solo perché questa visione riecheggia fortemente il distinguo tra norme di azione e di relazione (e tutto quanto questo binomio sottrasse alla tutela del cittadino) ma perché non appare in armonia con il principio di legalità, con la sua essenza di presidio delle libertà individuali avverso il potere amministrativo. Qui, invero, non è di certo in discussione la facoltà del legislatore di disegnare potestà amministrative capaci di incidere sulle sfere individuali, quanto piuttosto di accettare l’idea che, nel definire funzioni e caratteri di quegli strumenti esecutivi, il legislatore si trovi tra le mani un foglio sostanzialmente bianco nel quale, a discrezione, individuare modalità di esercizio del potere e situazioni giuridiche protette. Ciò come se, prima che la funzione legislativa si esplichi, nell’ordinamento – salvo rilevantissimi eppur episodici riconoscimenti costituzionali (diritto alla salute, ad esempio) – non sia da individuare alcunché di generale e preesistente con cui misurare il potere pubblico. A tal riguardo, pare significativo che, nel chiedersi di quanto e quale afflato di libertà individuali sia intrisa la Costituzione italiana, sebbene se ne rinvengano di particolarmente pregnanti (art. 2 Cost.), risulta difficile selezionare questa o quella disposizione particolare. La Costituzione, infatti, è essa stessa, nel suo intero, statuto di libertà. Tutto questo, ovviamente, nulla toglie alla natura dei pubblici poteri, alla loro attitudine, ugualmente costituzionale e nei limiti imposti dalla Costituzione, a prevalere sulle stesse libertà individuali in nome del pubblico interesse. Si rendono possibili, però, almeno due osservazioni. La prima è che, per quanto la libertà dell’individuo sia declinabile in singole articolazioni, essa mantiene una matrice unitaria; la seconda è che è nella libertà unitariamente intesa che va rintracciata la fondamentale posizione legittimante del cittadino avverso il potere pubblico (e tutto ciò, ancorandosi costituzionalmente, prescinde da singole fonti legislative legittimanti). La conseguenza è che ogni qual volta il potere pubblico si dispieghi, differenziandosi nelle sfere individuali, al soggetto interessato – per il fatto stesso di essere libero e di esser stato interessato da un episodio di potere – non potrà che essere riconosciuta (protezione procedimentale e) la facoltà di reclamare presso gli organi della giustizia amministrativa di legittimità la verifica della correttezza dell’attività amministrativa svolta nei suoi confronti. L’incontro tra il potere pubblico e l’individuo, infatti, genera l’attivazione dei presidi costituzionali della libertà avverso il potere, a cominciare dalla partecipazione al procedimento amministrativo. Si tratta essenzialmente di presidi strumentali nel senso che operano a prescindere dalla legittimità dell’operato dell’amministrazione o, il che è quanto dire, dal diritto del cittadino a conseguire, dall’incontro con il potere pubblico, tutto quanto di sostanziale aspiri ad ottenere o preservare».