L’efficienza della giustizia e i "nuovi" percorsi della conciliazione

L’esempio offerto da una prassi riscontrata presso il Tribunale di Bari

1. Premessa: la media-conciliazione ai sensi del d. lgs. n. 28/2010. La conciliazione come via seguita dall’ordinamento italiano: continuità o discontinuità col passato?

Non appena oggi si adopera la parola conciliazione sovviene alla mente degli operatori la così detta media-conciliazione, quella introdotta dal d. lgs. n. 28/2010 e tanto invisa alla classe forense; secondo un’opinione diffusa l’ennesima riforma asistematica ed a costo zero per lo Stato, che – con l’intento di trovare una soluzione stragiudiziale dei conflitti, prima che gli stessi finiscano con l’infoltire il ruolo del giudice civile – viene percepita dalla più parte degli avvocati come un inutile intralcio nel percorso che conduce, attraverso sentieri divenuti sempre più impervi, alla soluzione giudiziale delle liti. Si noti che il legislatore della riforma utilizza nell’articolato normativo i sostantivi mediazione e conciliazione come fossero fungibili. Non si dimentica, invero, che adoperando la tecnica della legislazione mediante definizioni – nella norma di apertura (art. 1) del decreto legislativo citato – si individua nella mediazione l’attività del mediatore e nella conciliazione l’esito eventuale di composizione di una controversia mediante l’accordo amichevole. Lo stesso legislatore, tuttavia, non si è attenuto scrupolosamente alle proprie definizioni, facendo un uso sostanzialmente sinonimico dei due sostantivi (si vedano l’art. 5 co. 5, ove si adopera l’espressione <<clausola di mediazione o conciliazione>>; l’articolo 23 co. 2, il quale prevede che <<Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto>>); ivi ci si è intesi conformare a questo impiego, discutibile ma legittimato dal legislatore. Pure a fronte di quanto detto, non si omette di segnalare al lettore che la conciliazione amministrata dal giudice è fenomeno antico, come riscontrabile dalla pluralità di riferimenti disseminati nel codice di rito civile vigente, e rappresenta un istituto profondamente diverso dalla neo-istituita media-conciliazione (qualche spunto per una distinzione verrà offerto infra).

Senza voler esprimere valutazioni in merito alla riforma, certo è che le modalità alternative di risoluzione delle controversie, ad uno sguardo conscio dello stato di crisi in cui vive la giustizia civile, si palesano come uno strumento che non può essere sottovalutato, a patto che gli operatori sappiano fare propria una riforma piombatagli addosso dall’alto, in un sistema che pure conosceva varie forme settoriali di conciliazione stragiudiziale, si pensi in proposito alla conciliazione stragiudiziale societaria o, ancora, nella materia lavoristica, al tentativo di conciliazione esperito ante causam dinanzi alle commissioni provinciali o in sede sindacale, ai tentativi di conciliazione che si svolgono quotidianamente dinanzi ai Comitati Regionali per le Comunicazioni, in tema di contenzioso tra utenti e compagnie telefoniche, a quelli in materia di contratti agrari ai sensi dell’art. 46 della l. n. 203 del 1982, infine – e sempre esemplificativamente – al tentativo obbligatorio di conciliazione previsto in tema di contratto di subfornitura ai sensi dell’art. 2, co. 4, lett. a) della legge n. 580 del 1993.

Insomma, a guardar bene, la spinta conciliativa latamente intesa, con esiti invero non sempre fausti, non è poi così estranea alla nostra tradizione, anche senza necessità di spostare lo sguardo a tradizioni, culture ed ordinamenti diversi dal nostro, da cui pure questa spinta al mutamento ha preso le mosse.

Senza omettere di considerare come pure numerose sono le norme che valorizzano la funzione conciliativa del giudice lite pendente ed in proposito si rammentano l’art. 183 co. 3 c.p.c. (Prima comparizione delle parti e trattazione della causa) per il rito ordinario; l’art. 420 c.p.c. (Udienza di discussione della causa) per il rito del lavoro; gli artt. 320 (Trattazione della causa) e il sostanzialmente disapplicato art. 322 c.p.c. (Conciliazione in sede non contenziosa) per quanto concerne il procedimento dinanzi al giudice di pace; l’art. 708 c.p.c. (Tentativo di conciliazione e provvedimenti del presidente) in tema di procedimento di separazione personale dei coniugi; un ruolo conciliativo è poi riconosciuto al consulente nell’accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis c.p.c. (la così detta <<prova in luogo del processo>>, articolo aggiunto dal D.L. n. 35/2005 convertito con modifiche in l. 14 maggio 2005, n. 80) e un ruolo conciliativo è riconosciuto anche al consulente tecnico d’ufficio ex artt. 199-200 c.p.c., con espressa previsione che <<le dichiarazioni delle parti, riportate dal consulente nella relazione, possono essere valutate dal giudice a norma dell’articolo 116 secondo comma>>.

2. La mediazione come opzione culturale.

In un suo recente studio, pubblicato in Italia (Gestire i conflitti. Diritti, cultura, rituali, Roma-Bari, 2009, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti), Oscar Chase evidenzia la circolarità di rapporti che connota la relazione tra cultura sociale e il diritto, anche in quelle pieghe del diritto più fortemente connotate dal tecnicismo quali sono le norme processuali. Detto altrimenti: il modo prescelto dal diritto per la risoluzione dei conflitti sottende un’opzione <<culturalmente condizionata>>.

Chase, con lo spessore di una prospettiva che non è soltanto quella del processualista colto, evidenzia come dietro l’irruzione sulla scena delle ADR stiano una pluralità di fattori, tra di essi la crisi del procedimento giudiziario, la sfiducia verso lo Stato, lo stesso scetticismo contemporaneo verso l’esistenza di una realtà oggettiva e, perciò, la ritenuta impossibilità che il giudice possa pervenire, all’esito del processo e mediante l’acquisizione delle prove, ad attingere all’accertamento di una verità storica, così fotografandola nel provvedimento conclusivo del processo. Oscar Chase, il cui angolo visuale è concentrato sullo scenario americano (USA), in realtà offre numerosi strumenti per chiunque intenda scandagliare le modalità prescelte per dirimere le controversie all’interno dei singoli contesti ordinamentali, rammentandoci come le variegate opzioni di politica della legislazione in proposito finiscano tutte con l’essere tutte determinate dalle conoscenze, dalle credenze e dalle strutture delle società in cui si inseriscono, non risolvendosi mai in una scelta di mero ordine tecnico.

L’analisi diviene tanto più appassionante allorché si scopre come il fenomeno della mediazione, in Italia divenuto materia di animati confronti soltanto in tempi recenti, è stato già ampiamente sperimentato in altri sistemi giuridici e, segnatamente, in quello nordamericano. Ed, invero, della mediazione rispetto al modo giurisdizionale di dirimere i conflitti, già in una prospettiva sociologico-giuridica si erano segnalati i pregi, essendosi evidenziato come la risoluzione della lite mediante la sentenza (una volta definitivamente demitizzato l’esercizio  della giurisdizione e superata l’idea del diritto come corpo organico e dotato di coerenza interna, idea rivelatasi figlia di un’ideologia – quella statalistica – piuttosto che avente valore descrittivo di una realtà) non fosse altro che <<una riduzione fittizia dei conflitti sociali>> (in proposito v. Valerio Pocar, Guida al diritto contemporaneo, Roma-Bari, 2002, pp. 74 e ss.) ed essendosi da tempo segnalato che esistono modi di risolvere le contese alternativi alla decisione, i quali intervengono direttamente sul conflitto, facendo leva sugli interessi ad esso sottostanti, superando la dialettica tipicamente tecnico-giuridica dello scontro tra chi ha torto e chi pretende di avere ragione alla luce dello jus positum e concentrando così l’attenzione sugli interessi sostanziali, veri motori del contendere.

La novità più rilevante dei nostri tempi e venendo all’ordinamento italiano è che siffatti metodi, sempre esistiti, sebbene di ciascuno di essi occorra cogliere specificità e caratteri distintivi – si pensi soltanto alla transazione, che ne è l’espressione più immediata e diffusa nella prassi della professione forense, la quale si realizza attraverso <<reciproche concessioni>> anche rispetto a una lite non ancora attuale, ma <<che può sorgere>> tra due o più parti (cfr. art. 1965 c.c.) – adesso divengono oggetto di un deciso riconoscimento da parte del diritto, quasi espressione di un’opzione preferenziale, che finisce con l’indicare al cittadino un modo di risolvere le controversie diverso dal processo, addirittura, condizionando in via tendenzialmente generalizzata (si pensi alla latitudine delle ipotesi per cui si è contemplata l’obbligatorietà della mediazione in materia civile!) la procedibilità dell’azione stessa al preventivo esperimento del tentativo di media-conciliazione, ideale tappa di un cammino che conduce ad una lite in senso tecnico solo in ipotesi di fallimento della mediazione, ma anche sede – quella pre-processuale e non contenziosa dinanzi al mediatore – in cui si rende necessario un differente approccio prospettico nel modo stesso di concepire la gestione del conflitto e, per l’avvocato, il proprio ruolo.

3. La prassi sperimentata presso il Tribunale di Bari.

È nel contesto segnato dalle più recenti riforme normative sul tema, che il Tribunale di Bari ha posto in essere una sperimentazione dei percorsi conciliativi anche nella sede giudiziale, sia nella sezione distaccata di Altamura sia in quella di Modugno. Si tratta di un protocollo conciliativo, <<a legislazione (processuale) invariata>>, ma che risente, nell’interpretazione delle norme vigenti, dell’influsso della novella costituzionale del 1999 e del principio di ragionevole durata del processo, essendo divenuta la celerità processuale elemento ontologico della giustizia, così anche superando l’impostazione tradizionale per cui si riconosceva pregio soltanto all’esattezza della decisione senza che alcun risalto fosse riconosciuto al momento in cui la si fosse raggiunta (ciò che si esprimeva nel comune riconoscimento dell’inesorabilità della giustizia, anche accettandone la lentezza): la nozione costituzionalizzata di <<giusto processo>> permea di sé l’interpretazione delle norme, ma anche le modalità organizzative interne degli uffici giudiziari (in proposito illuminanti le osservazioni di Chiara Graziosi, La nuova figura del giudice civile tra riforme processuali, moduli organizzativi e protocolli d’udienza, in www.judicium.it). Neppure si trascura di evidenziare come, da ultimo e proprio ad una lettura congiunta degli artt. 2 e 111 Cost., la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di poter espandere l’area di operatività della buona fede anche alla fase giudiziale (si veda, inoltre, l’art. 88 c.p.c.), con pronunciamenti che hanno inteso ribadire che la portata del giusto processo si estende anche a censurare tutte quelle ipotesi di proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti che incidano negativamente sull’organizzazione giudiziaria, producendo un allungamento dei tempi processuali, così sanzionando, ad esempio, la frammentazione del credito in plurime domande (cfr. Cass. civ. 15476/2008), quantunque una siffatta sanzione non possa che ritenersi circoscritta ad ipotesi estreme, postulando un bilanciamento con la solenne proclamazione di cui all’art. 24 Cost.

Più in particolare, passa attraverso la valorizzazione di una serie di indici normativi, letti al lume dell’opzione culturale fatta propria dal legislatore nella direzione della mediazione, che il Tribunale di Bari ha avviato la sperimentazione dei percorsi conciliativi di tipo giudiziale, esprimendo la consapevolezza che <<nell’interpretazione giuridica di un ordinamento in vigore, il giurista non si può arrestare al senso originario della norma, ma deve fare un passo avanti, perché la norma, lungi dall’esaurirsi nella sua primitiva formulazione, ha vigore attuale ed è destinata a passare e a trasfondersi nella vita sociale alla cui disciplina deve servire>> (Emilio Betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949). Si tratta, ovviamente, di conciliazione così detta abbreviativa, non di conciliazione filtro come quella prevista dal d.lgs. n. 28/2010 (sulla distinzione v. sempre GRAZIOSI).

È un tentativo di conciliazione che non necessariamente si inserisce agli esordi del processo (si rammenti come l’art. 183 c.p.c., nel disciplinare la prima udienza di trattazione, è stato significativamente novellato proprio mediante la soppressione dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, essendo peraltro generalmente infruttuoso esperirlo in un momento processuale così precoce), ma sperimentabile – giusta l’applicazione dell’art. 185 co. 1 e 2 c.p.c. (articolo modificato ex l. 263/2005) – in ogni fase del giudizio, ove ricorra il consenso ovvero l’adesione delle parti a ciò sollecitate dal giudice (sperimentabile eventualmente anche dinanzi agli organismi di mediazione, ove le parti lo ritengano).

È evidente che detta conciliazione, pure per taluni versi contigua alla conciliazione filtro, mirando entrambe ad evitare – in ipotesi pure solo parzialmente – la soluzione mediante il pronunciamento della sentenza, è molto diversa dalla seconda, in quanto nella prima il giudice cumula in sé una natura promiscua: quella di mediatore dell’accordo conciliativo contenente la regolamentazione della lite e quello di titolare del potere di decidere la controversia in caso di fallimento della conciliazione (così Antonio Scarpa, Ruolo del giudice e poteri delle parti nell’udienza di trattazione, ne Il correre del merito n. 10/2010, pp. 905-906), assolvendo ad un ruolo che non è quello di mero recettore di informazioni, ma è anche il ruolo attivo di formulatore di proposte, sebbene si tratti di un ruolo - quest’ultimo - da esercitare con il discernimento richiesto dalla salvaguardia dell’imparzialità del giudicante.

Il tentativo è reso più efficace allorché sia posto in essere dal giudice che abbia potuto prendere adeguata conoscenza della causa, ad esempio all’esito dello scioglimento di una riserva istruttoria, una volta stilata la programmazione dell’assunzione dei mezzi istruttori mediante il <<calendario del processo>> (cfr. art. 81 disp. att. c.p.c.). Il giudice, nell’esperire il tentativo, potrà richiamare alle parti quei precedenti giurisprudenziali (propri dell’ufficio ovvero delle Corti superiori) che possano fornire le regole applicabili al caso concreto, costituendo criterio di decisione della questione sottoposta al suo esame e fungendo da propellente per la conciliazione proprio la prevedibilità dell’eventuale esito giudiziale della lite. Altro momento propizio per la conciliazione amministrata dal giudice è quello successivo all’avvenuto esperimento della consulenza tecnica, una volta che si sia acquisita una base di accertamento tecnico che lasci intravedere l’esito del giudizio e su cui le parti possono essere stimolate al dialogo.

Ma è anche attraverso la valorizzazione delle norme di cui agli artt. 91 e 92 co. 2 c.p.c. in tema di spese processuali che il protocollo conciliativo barese è stato strutturato. La prima delle due norme richiamate prevede, infatti, nella formula novellata ad opera della l. 69/2009, che il giudice <<se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92>>; si tratta di un’importante deroga al principio della soccombenza che, tuttavia, richiede – per poter trovare concreta attuazione – che in atti risulti lo scambio di proposte transattive tra le parti e rimanga traccia processuale del contegno tenuto dalle stesse (art. 116 c.p.c.), dovendo le proposte, oltre che riscontrabili, essere connotate da un sufficiente grado di specificità, specie per quanto concerne la determinazione del quantum.

Proprio a questo scopo è stato adottato dal Tribunale di Bari uno schema di ordinanza (già pubblicato online sul sito del Centro Studi sull’Arbitrato, www.centrostudiarbitrato.it e riprodotto anche ivi, in fine), ove è formalizzato e temporalmente cadenzato (calibrando i tempi conformemente alle esigenze palesate dalle parti) lo scambio delle proposte tra le parti, con deposito, nei dieci giorni anteriori alla udienza di rinvio, del processo verbale di conciliazione, nel quale si dia atto delle condotte assunte dalle parti, con avviso alle stesse che dell’esito (negativo) del tentativo esperito, e.g. sulla base del rifiuto di taluna delle parti eventualmente immotivato o motivato adducendo ragioni pretestuose, <<potrà tenersi conto, nel merito, al momento della regolamentazione delle spese processuali>> (così, testualmente, lo schema di provvedimento).

Un meccanismo così congegnato potrà funzionare soltanto se gli avvocati sapranno ben consigliare i propri assistiti e se, specie ove l’esito del processo paia segnato dalle acquisite risultanze istruttorie, sapranno suggerire loro una via di uscita dal processo anteriormente alla sentenza con una soluzione comunque satisfattiva, ancorché non coincidente con le loro aspettative di partenza; in altre parole agli avvocati si richiede di rendere meglio edotto il proprio assistito delle conseguenze complessive della lite, atteso che talora l’incidenza delle spese, specie nelle small claims, si rivela più onerosa della posta in gioco; tenendo, altresì, conto anche della norma di cui all’art. 40 co. 1 del codice deontologico degli avvocati, a mente del quale <<L’avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all’atto dell’incarico delle caratteristiche e dell’importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili>> e ricordato che le prescrizioni deontologiche, malgrado talora si tenda a dimenticarlo, sono vere e proprie norme giuridiche in quanto fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato (cfr. Cass. Civ. S.U. n. 26810/2007).

All’avvocato, forte della propria competenza tecnica ed autentico protagonista della macchina processuale, si richiede una accurata valutazione dei rischi e delle opportunità del contenzioso; sarebbe perciò saggio da parte del professionista e nell’interesse dei propri assistiti, far desistere questi ultimi dal perseverare in un’ottica di massimizzazione delle aspettative in tutti i casi in cui l’indulgere in questa prospettiva si palesi ingiustificato e badare a ciò che è realisticamente preferibile ad una valutazione economica complessiva delle reciproche posizioni e dei possibili epiloghi, una volta effettuata una coscienziosa prognosi sull’esito processuale, che solo per il tramite della sapienza tecnica del proprio avvocato la parte è fattivamente in grado di compiere.

L’impressione che se ne ritrae è che plurimi sono gli indici - legislativi come giurisprudenziali - tesi a rammentare agli avvocati che si può pervenire alla soluzione dei problemi legali loro rappresentati anche mediante l’esperimento di vie alternative alla giurisdizione, anche se talora è proprio l’accertamento del fatto compiuto in sede giurisdizionale a dischiudere le porte di un accordo conciliativo altrimenti insperato; tutto ciò mediante una valorizzazione del ruolo dell’avvocato - aduso a trattare tutti i casi di patologia del rapporto - quale consulente, non soltanto quale litigator, poiché il pervenimento ad una soluzione condivisa sovente richiede una partecipe attività di negoziato ed una piena consapevolezza delle questioni giuridiche involte, anche al fine di evitare la semina, magari inconsapevole, di nuovi germi di future controversie.

Insomma, il provvedimento che si è inteso qui segnalare e che più sotto si riproduce, costituisce una prassi lodevole, che si auspica le parti e (soprattutto!) i loro difensori sappiano valorizzare nell’obiettivo di un più corretto funzionamento della macchina giudiziaria.

 

4. Il modello di provvedimento adottato presso il Tribunale di Bari, Sezione distaccata di Modugno.

REPUBBLICA ITALIANA

TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI BARI

SEZIONE DISTACCATA DI MODUGNO

IL GIUDICE

- Condotta nel contraddittorio breve discussione sui punti salienti della controversia;

- Valutata, con l’adesione delle parti, l’opportunità di avviare fra loro un percorso conciliativo;

- Letto l’art. 185, comma 1, cpc (come modif. dalla L. n. 263/2005), in vigore dall’1.3.2006;

- Richiamate le recenti riforme normative in materia di conciliazione e mediazione nel processo civile;

INVITA

“le parti a scambiarsi via fax, entro il ___________ , proposte e/o offerte per la definizione bonaria della controversia, ed entro il____________a scambiarsi via fax eventuali controproposte, assegnando ulteriore termine sino al ___________per tenere fra loro un incontro assistiti dei legali (ed eventualmente presso gli organismi preposti all’attività conciliativa ai sensi della L. n. 69/2009),

finalizzato ad esaminare le ipotesi transattive articolate, avendo cura di documentarne l’esito mercè la redazione di apposito processo verbale da depositarsi sino a 10 gg prima dell’udienza di rinvio e di cui potrà tenersi conto, nel merito, al momento della regolamentazione delle spese processuali”.

RINVIA

il presente procedimento all’udienza del___________, ore________, disponendo per quella data la comparizione delle parti innanzi a sé al fine di poter svolgere, in ossequio al dettato del citato art. 185 cpc ed ove ancora possibile, il tentativo giudiziale di conciliazione.

Modugno,

IL GIUDICE

D.SSA MIRELLA DELIA

1. Premessa: la media-conciliazione ai sensi del d. lgs. n. 28/2010. La conciliazione come via seguita dall’ordinamento italiano: continuità o discontinuità col passato?

Non appena oggi si adopera la parola conciliazione sovviene alla mente degli operatori la così detta media-conciliazione, quella introdotta dal d. lgs. n. 28/2010 e tanto invisa alla classe forense; secondo un’opinione diffusa l’ennesima riforma asistematica ed a costo zero per lo Stato, che – con l’intento di trovare una soluzione stragiudiziale dei conflitti, prima che gli stessi finiscano con l’infoltire il ruolo del giudice civile – viene percepita dalla più parte degli avvocati come un inutile intralcio nel percorso che conduce, attraverso sentieri divenuti sempre più impervi, alla soluzione giudiziale delle liti. Si noti che il legislatore della riforma utilizza nell’articolato normativo i sostantivi mediazione e conciliazione come fossero fungibili. Non si dimentica, invero, che adoperando la tecnica della legislazione mediante definizioni – nella norma di apertura (art. 1) del decreto legislativo citato – si individua nella mediazione l’attività del mediatore e nella conciliazione l’esito eventuale di composizione di una controversia mediante l’accordo amichevole. Lo stesso legislatore, tuttavia, non si è attenuto scrupolosamente alle proprie definizioni, facendo un uso sostanzialmente sinonimico dei due sostantivi (si vedano l’art. 5 co. 5, ove si adopera l’espressione <<clausola di mediazione o conciliazione>>; l’articolo 23 co. 2, il quale prevede che <<Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto>>); ivi ci si è intesi conformare a questo impiego, discutibile ma legittimato dal legislatore. Pure a fronte di quanto detto, non si omette di segnalare al lettore che la conciliazione amministrata dal giudice è fenomeno antico, come riscontrabile dalla pluralità di riferimenti disseminati nel codice di rito civile vigente, e rappresenta un istituto profondamente diverso dalla neo-istituita media-conciliazione (qualche spunto per una distinzione verrà offerto infra).

Senza voler esprimere valutazioni in merito alla riforma, certo è che le modalità alternative di risoluzione delle controversie, ad uno sguardo conscio dello stato di crisi in cui vive la giustizia civile, si palesano come uno strumento che non può essere sottovalutato, a patto che gli operatori sappiano fare propria una riforma piombatagli addosso dall’alto, in un sistema che pure conosceva varie forme settoriali di conciliazione stragiudiziale, si pensi in proposito alla conciliazione stragiudiziale societaria o, ancora, nella materia lavoristica, al tentativo di conciliazione esperito ante causam dinanzi alle commissioni provinciali o in sede sindacale, ai tentativi di conciliazione che si svolgono quotidianamente dinanzi ai Comitati Regionali per le Comunicazioni, in tema di contenzioso tra utenti e compagnie telefoniche, a quelli in materia di contratti agrari ai sensi dell’art. 46 della l. n. 203 del 1982, infine – e sempre esemplificativamente – al tentativo obbligatorio di conciliazione previsto in tema di contratto di subfornitura ai sensi dell’art. 2, co. 4, lett. a) della legge n. 580 del 1993.

Insomma, a guardar bene, la spinta conciliativa latamente intesa, con esiti invero non sempre fausti, non è poi così estranea alla nostra tradizione, anche senza necessità di spostare lo sguardo a tradizioni, culture ed ordinamenti diversi dal nostro, da cui pure questa spinta al mutamento ha preso le mosse.

Senza omettere di considerare come pure numerose sono le norme che valorizzano la funzione conciliativa del giudice lite pendente ed in proposito si rammentano l’art. 183 co. 3 c.p.c. (Prima comparizione delle parti e trattazione della causa) per il rito ordinario; l’art. 420 c.p.c. (Udienza di discussione della causa) per il rito del lavoro; gli artt. 320 (Trattazione della causa) e il sostanzialmente disapplicato art. 322 c.p.c. (Conciliazione in sede non contenziosa) per quanto concerne il procedimento dinanzi al giudice di pace; l’art. 708 c.p.c. (Tentativo di conciliazione e provvedimenti del presidente) in tema di procedimento di separazione personale dei coniugi; un ruolo conciliativo è poi riconosciuto al consulente nell’accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis c.p.c. (la così detta <<prova in luogo del processo>>, articolo aggiunto dal D.L. n. 35/2005 convertito con modifiche in l. 14 maggio 2005, n. 80) e un ruolo conciliativo è riconosciuto anche al consulente tecnico d’ufficio ex artt. 199-200 c.p.c., con espressa previsione che <<le dichiarazioni delle parti, riportate dal consulente nella relazione, possono essere valutate dal giudice a norma dell’articolo 116 secondo comma>>.

2. La mediazione come opzione culturale.

In un suo recente studio, pubblicato in Italia (Gestire i conflitti. Diritti, cultura, rituali, Roma-Bari, 2009, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti), Oscar Chase evidenzia la circolarità di rapporti che connota la relazione tra cultura sociale e il diritto, anche in quelle pieghe del diritto più fortemente connotate dal tecnicismo quali sono le norme processuali. Detto altrimenti: il modo prescelto dal diritto per la risoluzione dei conflitti sottende un’opzione <<culturalmente condizionata>>.

Chase, con lo spessore di una prospettiva che non è soltanto quella del processualista colto, evidenzia come dietro l’irruzione sulla scena delle ADR stiano una pluralità di fattori, tra di essi la crisi del procedimento giudiziario, la sfiducia verso lo Stato, lo stesso scetticismo contemporaneo verso l’esistenza di una realtà oggettiva e, perciò, la ritenuta impossibilità che il giudice possa pervenire, all’esito del processo e mediante l’acquisizione delle prove, ad attingere all’accertamento di una verità storica, così fotografandola nel provvedimento conclusivo del processo. Oscar Chase, il cui angolo visuale è concentrato sullo scenario americano (USA), in realtà offre numerosi strumenti per chiunque intenda scandagliare le modalità prescelte per dirimere le controversie all’interno dei singoli contesti ordinamentali, rammentandoci come le variegate opzioni di politica della legislazione in proposito finiscano tutte con l’essere tutte determinate dalle conoscenze, dalle credenze e dalle strutture delle società in cui si inseriscono, non risolvendosi mai in una scelta di mero ordine tecnico.

L’analisi diviene tanto più appassionante allorché si scopre come il fenomeno della mediazione, in Italia divenuto materia di animati confronti soltanto in tempi recenti, è stato già ampiamente sperimentato in altri sistemi giuridici e, segnatamente, in quello nordamericano. Ed, invero, della mediazione rispetto al modo giurisdizionale di dirimere i conflitti, già in una prospettiva sociologico-giuridica si erano segnalati i pregi, essendosi evidenziato come la risoluzione della lite mediante la sentenza (una volta definitivamente demitizzato l’esercizio  della giurisdizione e superata l’idea del diritto come corpo organico e dotato di coerenza interna, idea rivelatasi figlia di un’ideologia – quella statalistica – piuttosto che avente valore descrittivo di una realtà) non fosse altro che <<una riduzione fittizia dei conflitti sociali>> (in proposito v. Valerio Pocar, Guida al diritto contemporaneo, Roma-Bari, 2002, pp. 74 e ss.) ed essendosi da tempo segnalato che esistono modi di risolvere le contese alternativi alla decisione, i quali intervengono direttamente sul conflitto, facendo leva sugli interessi ad esso sottostanti, superando la dialettica tipicamente tecnico-giuridica dello scontro tra chi ha torto e chi pretende di avere ragione alla luce dello jus positum e concentrando così l’attenzione sugli interessi sostanziali, veri motori del contendere.

La novità più rilevante dei nostri tempi e venendo all’ordinamento italiano è che siffatti metodi, sempre esistiti, sebbene di ciascuno di essi occorra cogliere specificità e caratteri distintivi – si pensi soltanto alla transazione, che ne è l’espressione più immediata e diffusa nella prassi della professione forense, la quale si realizza attraverso <<reciproche concessioni>> anche rispetto a una lite non ancora attuale, ma <<che può sorgere>> tra due o più parti (cfr. art. 1965 c.c.) – adesso divengono oggetto di un deciso riconoscimento da parte del diritto, quasi espressione di un’opzione preferenziale, che finisce con l’indicare al cittadino un modo di risolvere le controversie diverso dal processo, addirittura, condizionando in via tendenzialmente generalizzata (si pensi alla latitudine delle ipotesi per cui si è contemplata l’obbligatorietà della mediazione in materia civile!) la procedibilità dell’azione stessa al preventivo esperimento del tentativo di media-conciliazione, ideale tappa di un cammino che conduce ad una lite in senso tecnico solo in ipotesi di fallimento della mediazione, ma anche sede – quella pre-processuale e non contenziosa dinanzi al mediatore – in cui si rende necessario un differente approccio prospettico nel modo stesso di concepire la gestione del conflitto e, per l’avvocato, il proprio ruolo.

3. La prassi sperimentata presso il Tribunale di Bari.

È nel contesto segnato dalle più recenti riforme normative sul tema, che il Tribunale di Bari ha posto in essere una sperimentazione dei percorsi conciliativi anche nella sede giudiziale, sia nella sezione distaccata di Altamura sia in quella di Modugno. Si tratta di un protocollo conciliativo, <<a legislazione (processuale) invariata>>, ma che risente, nell’interpretazione delle norme vigenti, dell’influsso della novella costituzionale del 1999 e del principio di ragionevole durata del processo, essendo divenuta la celerità processuale elemento ontologico della giustizia, così anche superando l’impostazione tradizionale per cui si riconosceva pregio soltanto all’esattezza della decisione senza che alcun risalto fosse riconosciuto al momento in cui la si fosse raggiunta (ciò che si esprimeva nel comune riconoscimento dell’inesorabilità della giustizia, anche accettandone la lentezza): la nozione costituzionalizzata di <<giusto processo>> permea di sé l’interpretazione delle norme, ma anche le modalità organizzative interne degli uffici giudiziari (in proposito illuminanti le osservazioni di Chiara Graziosi, La nuova figura del giudice civile tra riforme processuali, moduli organizzativi e protocolli d’udienza, in www.judicium.it). Neppure si trascura di evidenziare come, da ultimo e proprio ad una lettura congiunta degli artt. 2 e 111 Cost., la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di poter espandere l’area di operatività della buona fede anche alla fase giudiziale (si veda, inoltre, l’art. 88 c.p.c.), con pronunciamenti che hanno inteso ribadire che la portata del giusto processo si estende anche a censurare tutte quelle ipotesi di proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti che incidano negativamente sull’organizzazione giudiziaria, producendo un allungamento dei tempi processuali, così sanzionando, ad esempio, la frammentazione del credito in plurime domande (cfr. Cass. civ. 15476/2008), quantunque una siffatta sanzione non possa che ritenersi circoscritta ad ipotesi estreme, postulando un bilanciamento con la solenne proclamazione di cui all’art. 24 Cost.

Più in particolare, passa attraverso la valorizzazione di una serie di indici normativi, letti al lume dell’opzione culturale fatta propria dal legislatore nella direzione della mediazione, che il Tribunale di Bari ha avviato la sperimentazione dei percorsi conciliativi di tipo giudiziale, esprimendo la consapevolezza che <<nell’interpretazione giuridica di un ordinamento in vigore, il giurista non si può arrestare al senso originario della norma, ma deve fare un passo avanti, perché la norma, lungi dall’esaurirsi nella sua primitiva formulazione, ha vigore attuale ed è destinata a passare e a trasfondersi nella vita sociale alla cui disciplina deve servire>> (Emilio Betti, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949). Si tratta, ovviamente, di conciliazione così detta abbreviativa, non di conciliazione filtro come quella prevista dal d.lgs. n. 28/2010 (sulla distinzione v. sempre GRAZIOSI).

È un tentativo di conciliazione che non necessariamente si inserisce agli esordi del processo (si rammenti come l’art. 183 c.p.c., nel disciplinare la prima udienza di trattazione, è stato significativamente novellato proprio mediante la soppressione dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, essendo peraltro generalmente infruttuoso esperirlo in un momento processuale così precoce), ma sperimentabile – giusta l’applicazione dell’art. 185 co. 1 e 2 c.p.c. (articolo modificato ex l. 263/2005) – in ogni fase del giudizio, ove ricorra il consenso ovvero l’adesione delle parti a ciò sollecitate dal giudice (sperimentabile eventualmente anche dinanzi agli organismi di mediazione, ove le parti lo ritengano).

È evidente che detta conciliazione, pure per taluni versi contigua alla conciliazione filtro, mirando entrambe ad evitare – in ipotesi pure solo parzialmente – la soluzione mediante il pronunciamento della sentenza, è molto diversa dalla seconda, in quanto nella prima il giudice cumula in sé una natura promiscua: quella di mediatore dell’accordo conciliativo contenente la regolamentazione della lite e quello di titolare del potere di decidere la controversia in caso di fallimento della conciliazione (così Antonio Scarpa, Ruolo del giudice e poteri delle parti nell’udienza di trattazione, ne Il correre del merito n. 10/2010, pp. 905-906), assolvendo ad un ruolo che non è quello di mero recettore di informazioni, ma è anche il ruolo attivo di formulatore di proposte, sebbene si tratti di un ruolo - quest’ultimo - da esercitare con il discernimento richiesto dalla salvaguardia dell’imparzialità del giudicante.

Il tentativo è reso più efficace allorché sia posto in essere dal giudice che abbia potuto prendere adeguata conoscenza della causa, ad esempio all’esito dello scioglimento di una riserva istruttoria, una volta stilata la programmazione dell’assunzione dei mezzi istruttori mediante il <<calendario del processo>> (cfr. art. 81 disp. att. c.p.c.). Il giudice, nell’esperire il tentativo, potrà richiamare alle parti quei precedenti giurisprudenziali (propri dell’ufficio ovvero delle Corti superiori) che possano fornire le regole applicabili al caso concreto, costituendo criterio di decisione della questione sottoposta al suo esame e fungendo da propellente per la conciliazione proprio la prevedibilità dell’eventuale esito giudiziale della lite. Altro momento propizio per la conciliazione amministrata dal giudice è quello successivo all’avvenuto esperimento della consulenza tecnica, una volta che si sia acquisita una base di accertamento tecnico che lasci intravedere l’esito del giudizio e su cui le parti possono essere stimolate al dialogo.

Ma è anche attraverso la valorizzazione delle norme di cui agli artt. 91 e 92 co. 2 c.p.c. in tema di spese processuali che il protocollo conciliativo barese è stato strutturato. La prima delle due norme richiamate prevede, infatti, nella formula novellata ad opera della l. 69/2009, che il giudice <<se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92>>; si tratta di un’importante deroga al principio della soccombenza che, tuttavia, richiede – per poter trovare concreta attuazione – che in atti risulti lo scambio di proposte transattive tra le parti e rimanga traccia processuale del contegno tenuto dalle stesse (art. 116 c.p.c.), dovendo le proposte, oltre che riscontrabili, essere connotate da un sufficiente grado di specificità, specie per quanto concerne la determinazione del quantum.

Proprio a questo scopo è stato adottato dal Tribunale di Bari uno schema di ordinanza (già pubblicato online sul sito del Centro Studi sull’Arbitrato, www.centrostudiarbitrato.it e riprodotto anche ivi, in fine), ove è formalizzato e temporalmente cadenzato (calibrando i tempi conformemente alle esigenze palesate dalle parti) lo scambio delle proposte tra le parti, con deposito, nei dieci giorni anteriori alla udienza di rinvio, del processo verbale di conciliazione, nel quale si dia atto delle condotte assunte dalle parti, con avviso alle stesse che dell’esito (negativo) del tentativo esperito, e.g. sulla base del rifiuto di taluna delle parti eventualmente immotivato o motivato adducendo ragioni pretestuose, <<potrà tenersi conto, nel merito, al momento della regolamentazione delle spese processuali>> (così, testualmente, lo schema di provvedimento).

Un meccanismo così congegnato potrà funzionare soltanto se gli avvocati sapranno ben consigliare i propri assistiti e se, specie ove l’esito del processo paia segnato dalle acquisite risultanze istruttorie, sapranno suggerire loro una via di uscita dal processo anteriormente alla sentenza con una soluzione comunque satisfattiva, ancorché non coincidente con le loro aspettative di partenza; in altre parole agli avvocati si richiede di rendere meglio edotto il proprio assistito delle conseguenze complessive della lite, atteso che talora l’incidenza delle spese, specie nelle small claims, si rivela più onerosa della posta in gioco; tenendo, altresì, conto anche della norma di cui all’art. 40 co. 1 del codice deontologico degli avvocati, a mente del quale <<L’avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all’atto dell’incarico delle caratteristiche e dell’importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili>> e ricordato che le prescrizioni deontologiche, malgrado talora si tenda a dimenticarlo, sono vere e proprie norme giuridiche in quanto fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato (cfr. Cass. Civ. S.U. n. 26810/2007).

All’avvocato, forte della propria competenza tecnica ed autentico protagonista della macchina processuale, si richiede una accurata valutazione dei rischi e delle opportunità del contenzioso; sarebbe perciò saggio da parte del professionista e nell’interesse dei propri assistiti, far desistere questi ultimi dal perseverare in un’ottica di massimizzazione delle aspettative in tutti i casi in cui l’indulgere in questa prospettiva si palesi ingiustificato e badare a ciò che è realisticamente preferibile ad una valutazione economica complessiva delle reciproche posizioni e dei possibili epiloghi, una volta effettuata una coscienziosa prognosi sull’esito processuale, che solo per il tramite della sapienza tecnica del proprio avvocato la parte è fattivamente in grado di compiere.

L’impressione che se ne ritrae è che plurimi sono gli indici - legislativi come giurisprudenziali - tesi a rammentare agli avvocati che si può pervenire alla soluzione dei problemi legali loro rappresentati anche mediante l’esperimento di vie alternative alla giurisdizione, anche se talora è proprio l’accertamento del fatto compiuto in sede giurisdizionale a dischiudere le porte di un accordo conciliativo altrimenti insperato; tutto ciò mediante una valorizzazione del ruolo dell’avvocato - aduso a trattare tutti i casi di patologia del rapporto - quale consulente, non soltanto quale litigator, poiché il pervenimento ad una soluzione condivisa sovente richiede una partecipe attività di negoziato ed una piena consapevolezza delle questioni giuridiche involte, anche al fine di evitare la semina, magari inconsapevole, di nuovi germi di future controversie.

Insomma, il provvedimento che si è inteso qui segnalare e che più sotto si riproduce, costituisce una prassi lodevole, che si auspica le parti e (soprattutto!) i loro difensori sappiano valorizzare nell’obiettivo di un più corretto funzionamento della macchina giudiziaria.

 

4. Il modello di provvedimento adottato presso il Tribunale di Bari, Sezione distaccata di Modugno.

REPUBBLICA ITALIANA

TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI BARI

SEZIONE DISTACCATA DI MODUGNO

IL GIUDICE

- Condotta nel contraddittorio breve discussione sui punti salienti della controversia;

- Valutata, con l’adesione delle parti, l’opportunità di avviare fra loro un percorso conciliativo;

- Letto l’art. 185, comma 1, cpc (come modif. dalla L. n. 263/2005), in vigore dall’1.3.2006;

- Richiamate le recenti riforme normative in materia di conciliazione e mediazione nel processo civile;

INVITA

“le parti a scambiarsi via fax, entro il ___________ , proposte e/o offerte per la definizione bonaria della controversia, ed entro il____________a scambiarsi via fax eventuali controproposte, assegnando ulteriore termine sino al ___________per tenere fra loro un incontro assistiti dei legali (ed eventualmente presso gli organismi preposti all’attività conciliativa ai sensi della L. n. 69/2009),

finalizzato ad esaminare le ipotesi transattive articolate, avendo cura di documentarne l’esito mercè la redazione di apposito processo verbale da depositarsi sino a 10 gg prima dell’udienza di rinvio e di cui potrà tenersi conto, nel merito, al momento della regolamentazione delle spese processuali”.

RINVIA

il presente procedimento all’udienza del___________, ore________, disponendo per quella data la comparizione delle parti innanzi a sé al fine di poter svolgere, in ossequio al dettato del citato art. 185 cpc ed ove ancora possibile, il tentativo giudiziale di conciliazione.

Modugno,

IL GIUDICE

D.SSA MIRELLA DELIA