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L’illegittimità del termine apposto ad una serie successiva di contratti di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego, tra criteri risarcitori ed equo indennizzo

BREVE ANALISI DELLA DISCIPLINA ALLA LUCE DELLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA ED INTERNA

Le osservazioni che seguono, senza avere la pretesa dell’esaustività, si propongono di analizzare un tema di costante attualità che impegna ormai da anni la giurisprudenza comunitaria ed italiana, e la dottrina.

Infatti, il problema del ricorso abusivo ad una serie di contratti di lavoro a tempo determinato illegittimi da parte della P.A. non è solo un problema di interpretazione delle norme giuridiche, che per la verità sul punto sono piuttosto contraddittorie e di difficile interpretazione, ma rappresenta un grave problema di stabilità per i giovani lavoratori che ambiscono ad un posto di lavoro pubblico.

A ciò si aggiunge che, per specifica disposizione legislativa dettata dall’art. 36, comma 5 del D.Lgs. 165/2001, e per ormai costante giurisprudenza, il contratto a termine nel pubblico impiego non può, in nessun caso, convertirsi in contratto a tempo determinato[1].

E, nonostante che la giurisprudenza comunitaria abbia dettato dei criteri volti a favorire in ogni Stato membro la stabilizzazione, e creato un principio di non discriminazione in base al quale la disciplina della stabilizzazione dovrebbe applicarsi anche ai rapporti di pubblico impiego, il nostro sistema non è riuscito ancora ad applicare le indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia, proseguendo nella penalizzante pratica del ricorso al contratto a termine.

Da ultimo, una parte della giurisprudenza giuslavoristica, da sempre sensibile alle problematiche dei lavoratori, sulla base delle richiamate indicazioni europee, ha avviato un’opportuna linea giurisprudenziale volta ad apprestare una tutela giuridica avanzata nei confronti dei lavoratori precari del settore pubblico, predisponendo, nell’impossibilità di convertire con sentenza il contratto così come avviene per il settore privato, un sistema risarcitorio od indennitario variamente disciplinato, e tendente a scoraggiare le P.A. a far ricorso all’odiosa pratica del contratto a termine.

Ripercorrendo brevemente la storia della legislazione interna e di quella comunitaria sull’annosa questione della coesistenza nel nostro ordinamento del D.lgs. 165/2001 - Ordinamento del Lavoro Pubblico - e del D.lgs. 368/2001 -Disciplina del Contratto di Lavoro a Tempo Determinato - e della interpretazione che delle dette norme ha fornito la giurisprudenza della Corte di Giustizia, va subito precisato che il contratto di lavoro a tempo determinato costituisce un contratto tipico, in quanto espressamente regolamentato dal D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (e s.m.i.) di attuazione della direttiva 1999/70/CE[2] e dell’accordo quadro ad essa allegato.

L’art. 1 del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, rubricato “Apposizione del termine” così dispone al comma 1: «E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo».

L’art. 5 del citato Decreto, consente di sanzionare la reiterata conclusione di rapporti di lavoro a termine, mediante la loro conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

L’ambito di applicazione del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, per la verità mai limitato al solo settore del lavoro privato (nel rispetto della direttiva comunitaria), coinvolge indifferentemente i settori del lavoro privato e pubblico (art. 10, D. Lgs. 368/2001 – Corte di Giustizia sentenza 4 luglio 2006 emessa nella causa C-212/04).

Tuttavia, occorre tener conto della contemporanea vigenza del D. Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (Testo Unico del Lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione).

Interessa, nello specifico, l’art. 36 del D.Lgs. 165/2001, il quale preclude in via definitiva, in caso di successione di contratti a termine nel settore pubblico, la loro conversione in contratti a tempo indeterminato.

Nonostante i numerosi interventi in materia, la dottrina non ha risolto l’evidente contrasto tra le due succitate normative e, ad oggi, risulta comunemente accettata l’opinione relativa all’inapplicabilità, in via di fatto, del D. Lgs. 368/2001 ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, nella parte in cui preclude la conversione di contratti a tempo determinato illeciti in rapporti stabili.

L’articolo 36, comma 5, del D. Lgs. n. 165 del 2001, riconfermando la previsione dell’articolo 36 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come modificato dall’articolo 22, comma 8, del D.Lgs n. 80 del 1998, esclude che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni possa comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime e riconosce, quale unica conseguenza, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno. Aggiunge che le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave, e che i dirigenti stessi incorrono nella responsabilità di cui all’articolo 21 del Decreto.

Il sistema normativo analizzato è stato sottoposto più volte allo scrutinio della Corta Costituzionale, soprattutto dopo l’intervento della Corte di Giustizia che è stata chiamata a pronunciarsi più volte sulla conformità alle norme comunitarie della normativa italiana sul pubblico impiego.

In particolare, la sentenza 27 marzo 2003, n. 89 della Corte Costituzionale, escluse l’illegittimità dell’articolo 36 sul divieto di conversione del rapporto instaurato in violazione della disciplina sul contratto a termine per la necessità di salvaguardare il momento genetico del rapporto di lavoro con la P.A., a tutela dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost., attraverso il meccanismo dell’assunzione per concorso, quale procedura costituzionalmente prevista per garantire l’esigenza di una corretta selezione dei candidati.

Parte della dottrina ha però criticato fermamente la motivazione addotta dalla Corte Costituzionale, incentrata, come visto, sul riferimento al vincolo costituzionale del pubblico concorso quale elemento decisivo e sufficiente a giustificare la specialità del lavoro pubblico.

Si è osservato attentamente, infatti, che anche nelle assunzioni a termine alle dipendenze della P.A. vengono svolte delle procedure selettive volte alla verifica dei requisiti richiesti dai singoli C.C.N.L. di lavoro e delle effettive capacità professionali del candidato.

Dunque, il problema della conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato alle dipendenze della P.A. non si configurerebbe nel momento genetico - essendo pacificamente praticata una prima assunzione per effetto di nomina o per chiamata dopo l’inserimento in apposite graduatorie previste dalla legge - ma in tutte quelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro si è instaurato a seguito di una procedura predeterminata intesa alla valutazione delle concrete capacità professionali del soggetto, e successivamente sia stato illegittimamente prorogato con assunzioni a tempo.

In tali ipotesi, infatti, il vizio non atterrebbe più alla fase di costituzione del rapporto bensì a quella relativa al suo svolgimento, come tale non caratterizzata da specialità rispetto alla medesima situazione in cui verrebbe a trovarsi il lavoratore privato[3].

Più recentemente, la sentenza 89/2003 della Corte Costituzionale è stata oggetto di una nuova ed interessante interpretazione da parte della Corte di Cassazione, (C. Cass., Sez. Lav., sent. 2 aprile 2010, n. 9555), secondo cui i suoi effetti vanno interpretati nel senso che il divieto di conversione va limitato ai casi in cui è in discussione la violazione della regola del pubblico concorso, mentre, quando viene in rilievo una modalità di costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. diversa dal concorso non vige il limite enunciato dalla Consulta.

Ed ancora, il Tribunale di Siena (Sent. 27.09.2010), chiamato a pronunciarsi in merito ad una fattispecie relativa al personale docente del comparto scuola, ha equiparato le procedure di selezione del personale mediante inserimento in graduatoria e valutazione dei titoli, alle assunzioni avvenute per concorso pubblico, sul rilievo che in tal modo fosse stata rispettata la regola della concorsualità.

Da tanto si evince che la patologia del rapporto di lavoro pubblico a tempo non vada individuata tanto nel momento della sua costituzione, ma nella sua genesi successiva, ossia nel momento in cui la P.A. riassume il lavoratore, ricorrendo così a plurimi e successivi contratti a termine, anche quando si presentino effettive esigenze di organico o siano state programmate delle assunzioni a tempo indeterminato.

In pratica, non dovrebbe accettarsi l’assunto secondo cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato presso le P.A., in alcuni settori, dovrebbe costituirsi solo ed esclusivamente mediante pubblico concorso, essendosi ormai diversificati i metodi di reclutamento del personale delle P.A., proprio per sopperire alle diverse esigenze delle singole strutture pubbliche. E se il rapporto si costituisce, ad esempio, attraverso procedure selettive successive all’inserimento in una graduatoria prevista dalla legge, non è più accettabile che il rapporto prosegua in violazione delle norme poste a presidio del divieto di costituire rapporti di lavoro a termine.

Proprio al fine di risolvere il conflitto tra la normativa italiana di cui all’art. 36 D. Lgs. 165/2001 e l’orientamento comunitario, la Corte Europea si è pronunciata più volte sul punto.

Con la sentenza 4 luglio 2006 – Causa C-212, emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta da un Giudice greco e vertente sull’interpretazione dell’accordo quadro allegato proprio alla direttiva comunitaria 1999/70/C, il Giudice europeo ha sentenziato che «il detto accordo quadro osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieti in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli del datore di lavoro e devono essere considerati abusivi».

Nella successiva sentenza 7 settembre 2006 emessa nella causa C-53/04 e che riguardava in tal caso l’Italia, la Corte di Giustizia ha affrontato espressamente il problema, statuendo chiaramente che «affinché una normativa nazionale che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione».(Corte di Giustizia, 7 settembre 2006 - Causa C-53/04).

A differenza del caso della Grecia, tuttavia, nella sentenza che ha riguardato una Pubblica Amministrazione italiana, la Corte non ha disposto la conversione del rapporto, e ciò proprio per effetto della vigenza nel nostro ordinamento del disposto di cui all’art. 36 D. Lgs. 165/2001, il quale prevede il risarcimento del danno derivante dall’illegittima apposizione del termine, non già la stabilizzazione del rapporto.

La Corte di Strasburgo, per converso, ha chiarito in modo deciso che la successione di rapporti contrattuali di lavoro con la Pubbliche Amministrazioni non va considerata abusiva solo ed esclusivamente se mira a soddisfare esigenze solo transitorie sul piano lavoristico.

In tutti i casi in cui l’amministrazione-datrice di lavoro faccia invece un ricorso sistematico al contratto a tempo determinato, tale contegno deve ritenersi illegittimo se i contratti sono stipulati per soddisfare esigenze non meramente temporanee e di lungo periodo.

Apprezzata in breve la situazione normativa esistente in Italia in merito ai rapporti di lavoro nel settore pubblico e in quello privato, si è riflettuto chiaramente sulla necessità di adottare una misura sanzionatoria “alternativa” alla conversione del contratto, che sia, al contempo, rispettosa dei parametri determinati dal Giudice europeo, e che consenta al lavoratore di ottenere un giusto ristoro per l’ingiustizia subita.

Deve, indiscutibilmente, trattarsi di una misura volta alla disincentivazione di un fenomeno tanto noto quanto irrisolto: quello del reiterato abuso dello strumento del contratto di lavoro a termine.

Il giudice del lavoro del Tribunale di Genova ha ad esempio rilevato che, per quanto si presentino come negozi autonomi che dispongono una “proroga” del servizio da prestare, i contratti a termine conclusi in successione tra loro sono in aperto conflitto anche con il disposto di cui all’art. 4, primo comma, D. Lgs. 368/2001, il quale ammette la proroga del contratto di lavoro a tempo determinato una sola volta; in sostanza tale articolo dispone che «il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni».

Comunque, rileva principalmente il fatto che l’Autorità giudiziaria del Tribunale genovese abbia ritenuto che, allo stato dell’ordinamento giuridico nazionale, l’unica misura attualmente idonea a tutelare i diritti del lavoratore a tempo del settore pubblico sia il risarcimento per equivalente, per cui «il criterio dell’adeguatezza e dell’effettività è data non soltanto dall’idoneità dello strumento a riparare il danno sofferto, ma anche dalla forza dissuasiva che è propria dei meccanismi sanzionatori».

In questa prospettiva, il Giudice ligure ha ritenuto che il meccanismo più appropriato è quello riprodotto nei commi quarto e quinto dell’art. 18, Legge 300/1970. In considerazione del fatto che «si tratta dell’unico istituto attraverso il quale il legislatore ha inteso monetizzare il valore del posto di lavoro».

Detto ragionamento ha permesso di pervenire, nel caso di Genova relativo ad un rapporto di pubblico impiego, alla condanna della parte convenuta per un importo pari a venti (20) mensilità della retribuzione globale di fatto maturata alla data di cessazione del rapporto.

Questa sentenza ha tentato di dare piena attuazione all’accordo quadro stipulato in sede europea (Clausola 1 dell’accordo-quadro), il cui obiettivo è quello di «a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il principio di non discriminazione, e b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato».

Per prevenire gli abusi (Clausola 5 dell’accordo-quadro) derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri dovrebbero introdurre – in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi in modo da tener conto delle esigenze di settori eo categorie specifici di lavoratori – una o più misure relative alla valutazione ed al monitoraggio delle seguanti caratteristiche del contratto, relative:

a) a ragioni obbiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;

b) alla durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;

c) al numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.

Sebbene l’accordo-quadro demandi agli Stati membri e alle parti sociali la formulazione di disposizioni volte all’applicazione dei principi generali, dei requisiti minimi e delle norme in esso stesso contenuti, al fine di tener conto della situazione di ciascuno Stato membro e delle circostanze relative a particolari settori e occupazioni, comprese le attività di tipo stagionale (§10 delle considerazioni generali dell’accordo-quadro), nondimeno la suddetta deroga deve pur sempre essere esercitata nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario sulla parità di trattamento tra situazioni paragonabili, e senza pregiudizio dell’oggetto e dello scopo della direttiva.

In altri termini, una differenziazione di trattamento basata unicamente sulla diversa tipologia di datore di lavoro potrebbe essere ammissibile unicamente sulla base di giustificazioni oggettive.

Invero, la stessa Corte di Giustizia, nella sentenza del 4 luglio 2006 relativa al procedimento C-212/04 Adeneler e altri cEllinikos Organismos Galaktos – ELOG, al §-54 ha precisato «che la direttiva 1999/70 e l’accordo-quadro sono applicabili ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e altri enti del settore pubblico».

Infatti – prosegue la Corte al §-55 – «le disposizioni dell’accordo non contengono alcuna indicazione dalla quale possa dedursi che il loro campo di applicazione si limiti ai contratti a tempo determinato conclusi dai lavoratori con datori di lavoro del solo settore privato» (in senso conforme cfr. le sentenze 7 settembre 2006 nei procedimenti C-53/04 Marrosu e Sardino nonché C-180/04 Vassallo, entrambi contro Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate).

Al contrario, da un lato, come risulta dalla stessa formulazione della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro, «il campo di applicazione di quest’ultimo è concepito in senso lato, riguardando in maniera generale i lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro».

Inoltre, «la nozione di lavoratori a tempo determinato ai sensi dell’accordo quadro, figurante nella clausola 3, punto 1, di quest’ultimo, include tutti i lavoratori, senza operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro» (§-56).

D’altro lato – osserva sempre la Corte al §-57 – «la clausola 2, punto 2, dello stesso accordo quadro, lungi dal prevedere l’esclusione dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con un datore di lavoro del settore pubblico, si limita a offrire agli Stati membri eo alle parti sociali la facoltà di sottrarre al campo di applicazione di tale accordo i rapporti di formazione professionale iniziale e di apprendistato», nonché i contratti e i rapporti di lavoro «definiti nel quadro di un programma specifico di formazione, inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi pubblici».

Ricorda inoltre la Corte come l’accordo-quadro consideri i contratti di lavoro a tempo indeterminato come la forma comune dei rapporti di lavoro, prevedendo disposizioni contro la precarizzazione dei lavoratori dipendenti.

Conseguentemente il beneficio della stabilità costituisce elemento portante della tutela dei lavoratori; pertanto, è legittimo ricorrere all’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato unicamente in presenza di determinate circostanze oggettive e per rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro che dei lavoratori.

In generale, si tende ad accettare la prassi secondo cui, se la durata dei successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato supera un certa soglia temporale (oppure supera complessivamente anni 3), si presume che con essi si è intenso far fronte ad un fabbisogno permanente e durevole dell’attività, con la conseguenza che essi debbono essere convertiti in contratti o rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Il ricorso abusivo da parte della Pubblica Amministrazione a successive reiterazioni di contratti di lavoro a tempo determinato comporta necessariamente che debba essere adottata una contromisura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori, raggiungibili solo con la conversione del rapporto a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato in applicazione dell’art. 5 del D. Lgs. 3682001, decreto legislativo attuativo della citata direttiva[4].

In particolare, osserva la Corte (§ 94) che «quando il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche neppure nel caso in cui sono stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro».

In mancanza di efficacia diretta, i giudici nazionali devono interpretare il diritto interno alla luce del testo e della finalità della direttiva per raggiungere i risultati perseguiti da quest’ultima, privilegiando l’interpretazione delle disposizioni nazionali maggiormente conformi a tale finalità, per giungere ad una soluzione compatibile con le disposizioni della direttiva.

In armonia con il criterio dell’effettività dei principi giuridici, proprio del diritto comunitario, la Corte di Giustizia impone di verificare non già che nel diritto nazionale sia presente una qualsivoglia misura di contrasto dell’abuso, bensì di verificare che la misura individuata sia applicabile e, se applicabile, sia anche efficace.

In particolare, la Corte ha inteso predisporre una serie di criteri ermeneutici finalizzati a prevenire il ricorso abusivo da parte delle P.A. ad una serie di successivi contratti di lavoro a termine, chiarendo che «spetta al Giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 36, comma 2, prima fase del D. Lgs. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato»[5].

Nelle sentenze 7 settembre 2006 (procedimenti C-534 e C-1804) la Corte osserva che, per considerare il divieto di trasformazione conforme all’accordo quadro, è necessario che l’ordinamento giuridico interno preveda, in tale settore, un’altra misura effettiva per sanzionare l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione.

La giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea, tende a scoraggiare gli Stati membri dal fare ricorso all’uso di contratti a termine, e ribadisce che «nel nostro assetto ordina mentale, rectius-italiano, con l’art. 36 del D.Lgs. 5 settembre 2001, n. 165, si rinviene un sistema sanzionatorio capace – in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni subiti in concreto dal lavoratore – di prevenire, dapprima, e sanzionare, poi, in forma adeguata l’utilizzo abusivo da parte della P.A. dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione»[6].

In questo senso la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure elencate in tale disposizione e dirette a prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, qualora il diritto nazionale non preveda già misure equivalenti.

Le misure alternative devono rivestire non soltanto un carattere proporzionato ma altresì – e soprattutto – sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro.

Invero, l’art. 36, comma 5, D. Lgs n. 1652001, ribadisce, come detto, che «in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni», stabilisce che «il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative» e che «le amministrazioni hanno l’obbligo i recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave».

Tale norma, è stato osservato, non solo non rappresenta uno strumento adeguato per prevenire l’utilizzo abusivo da parte della Pubblica Amministrazione ma neppure sanziona adeguatamente l’eventuale abusivo utilizzo, così come imporrebbe le giurisprudenza comunitaria.

La circostanza che il ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione ai contratti di lavoro a tempo determinato in violazione delle disposizioni imperative faccia sorgere in capo al lavoratore il diritto al risarcimento del danno non costituisce né uno strumento di prevenzione né una sanzione.

Tale norma si limita, infatti, a prevedere l’obbligo di eliminare (risarcire) le conseguenze dannose che sono derivate dalla condotta illecita, ma nulla prevede per prevenire e dissuadere la Pubblica Amministrazione dall’utilizzare o ricorrere abusivamente a contratti di lavoro a tempo determinato né prevede una sanzione adeguata in caso di violazione.

Alla luce delle evoluzioni giurisprudenziali, si dovrebbe dichiarare nulla la clausola di apposizione del termine inserita nel 1^ contratto stipulato dal lavoratore, nonché illegittima la successione dei contratti stipulati a tempo determinato, e per l’effetto riconoscere il diritto al risarcimento del danno patito, ai sensi dell’art. 18, della legge n. 300/70, ovvero in applicazione del combinato disposto dell’art. 36 D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e della legge 183/2010, ovvero in forza delle disposizioni del diritto comunitario, per la mancata attuazione della direttiva.

Infatti, «nel caso in cui il risultato prescritto da una direttiva non possa essere conseguito mediante interpretazione, occorre ricordare che, secondo la sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovic e a., (Racc. pag. I-5357, punto 39), il diritto comunitario impone agli Stati membri di risarcire i danni da essi causati ai singoli a causa della mancata attuazione di tale direttiva, purché siano soddisfatte tre condizioni. Anzitutto la direttiva deve avere lo scopo di attribuire diritti a favore dei singoli. Deve essere poi possibile individuare il contenuto di tali diritti sulla base delle disposizioni della detta direttiva. Infine deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato membro e il danno subito» (sentenza 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler + altri, § 112).

Alla luce delle suesposte considerazioni, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, quando non sia imposta da esigenze particolari, si risolve in un mero escamotage adottato dall’Amministrazione per evitare la stabilizzazione del rapporto di lavoro del personale posto alle sue dipendenze.

Così, il contratto a tempo determinato, stipulato ab origine dal malcapitato, nella sostanza, costituirà, se reiterato illegittimamente, il primo di una lunga serie di contratti a tempo, che si concluderanno con il licenziamento del lavoratore in occasione della scadenza pattuita, e ciò in spregio alla rigorosa normativa vigente in materia, che prevede – esclusivamente in presenza di ipotesi tassative ed eccezionali e nel rispetto dei requisiti formali richiesti ad substantiam – la possibilità di lavoro subordinato a termine per i dipendenti della P.A.

Dalla scansione della casistica, invero, emerge molto spesso che i contratti a tempo vengono stipulati in successione tra loro, o comunque entro un lasso di tempo certamente ristretto, tale da confermare l’assunto secondo cui, nella sostanza, il rapporto di lavoro si protrae in maniera ininterrotta, e non certamente per soddisfare esigenze provvisorie.

I contratti in oggetto, infatti, vengono conclusi, nella maggior parte dei casi, per sopperire ad esigenze lavorative assolutamente non transitorie nonché ad un fabbisogno durevole ed al fine di sopperire alle carenze strutturali e permanenti degli uffici pubblici[7] - (paradigmatico e diffusissimo è il caso dei precari del Comparto Scuola).

Peraltro, in violazione del D. Lgs. 368/2001, nei contratti non vengono quasi mai indicate le esigenze e le ragioni che avrebbero giustificato l’apposizione del termine. Per la verità, con riferimento ad uno degli aspetti più rilevanti della disciplina quale quello della individuazione delle causali giustificative della apposizione del termine al contratto di lavoro, si è rilevato che non si potranno individuare fattispecie legittimanti il contratto a termine non caratterizzate da entrambi i requisiti della temporaneità e della eccezionalità, pena la illegittimità della clausola per contrasto con norma imperativa di legge.

Orbene, il rinnovo illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato è consentito se giustificato da una ragione obiettiva. Siffatta ragione sussiste, in particolare, se il rinnovo è giustificato dalla forma, dal tipo o dall’attività del datore di lavoro o da motivi o esigenze particolari, qualora tali circostanze risultino direttamente o indirettamente dal contratto interessato, come ad esempio in caso di sostituzione provvisoria del lavoratore, di esecuzione di lavori provvisori, di temporaneo sovraccarico di lavoro, oppure nel caso in cui la durata limitata è legata all’istruzione o alla formazione, qualora il rinnovo del contratto avvenga con lo scopo di facilitare il passaggio del lavoratore ad un’occupazione analoga, o di realizzare un’opera o un programma concreti o è relativo al raggiungimento di un risultato concreto.

A ben vedere, quindi, nel comparto pubblico il ricorso al contratto a termine viene scoraggiato in ogni maniera, e viene tollerato solo in casi particolari.

Diversamente, esso è considerato censurabile per violazione di norme imperative di legge, va disincentivato anche per le conseguenze che può determinare in termini di garanzia di efficienza della pubblica amministrazione e di tutela dei lavoratori, e deve essere risarcito al lavoratore il relativo danno subito[8].

Così, visto che non è, in pratica, possibile per il Giudice investito della relativa questione convertire il contratto con un sentenza, è necessario che i Giudici operanti all’interno dei singoli Stati applichino le norme relative al risarcimento del danno in modo adeguato ed effettivamente commisurato alle aspettative risarcitorie del lavoratore, atteso che il risarcimento e/o l’indennizzo sono gli unici strumenti – in attesa di una riforma complessiva o di una pronuncia della Corte Costituzionale – in grado di rendere giustizia al lavoratore assunto a seguito di una serie di contratti di lavoro il cui termine è illegittimo.

CENNI SUL SISTEMA RISARCITORIO

Quindi, nell’impossibilità di poter stabilizzare il contratto di lavoro proprio perché la nostra disciplina interna lo vieta espressamente per il comparto del pubblico impiego, l’unica alternativa percorribile è quella di prevedere un equo risarcimento per il lavoratore coinvolto nell’assunzione a termine illegittima.

Questa è, brevemente l’indicazione che ci viene fornita ormai da anni dalla Corte di Giustizia.

Il danno subito dai lavoratori sottoposti a continue assunzioni a termine può essere anche diretta conseguenza dei licenziamenti subiti alla scadenza dei singoli contratti.

Pertanto, anche ai sensi della stessa legge 300/70, il danno da licenziamento comporta in alternativa alla conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato il risarcimento del danno pari a 15 mensilità di retribuzione.

Sulla questione del risarcimento del danno subito dal lavoratore ex art. 36, D.Lgs. 165/2001, si registra un acceso dibattito incentrato sui parametri per la liquidazione del danno, onde valutare in concreto la compatibilità dell’ordinamento italiano rispetto ai principi comunitari in tema di abusi derivanti da successione di contratti o rapporti a termine. La giurisprudenza di merito ha assunto che il risarcimento ex art. 36, D.Lgs. 165/2001 costituisca una voce aggiuntiva rispetto alla corresponsione delle retribuzioni, assicurate già da quanto disposto dall’art. 2126 c.c.

Tuttavia, pur partendo dalla identica premessa costituita dalla necessità di tenere conto delle indicazioni dettate dalla Corte europea, i giudici chiamati a pronunciarsi sul punto sono giunti a diverse soluzioni, prospettando l’utilizzo di differenti parametri di riferimento per la liquidazione del danno.

Tra le pronunce intervenute, si segnalano la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 14.03.2006, secondo cui il risarcimento del danno da illegittima reiterazione dei contratti a termine nel pubblico impiego è riconoscibile in re ipsa, anche in assenza di specifiche allegazioni, e deve essere liquidato equitativamente.

All’opposto, l’iniziale impostazione del giudice foggiano, secondo cui il risarcimento sarebbe da inquadrare nell’ambito della responsabilità ex art. 2043 c.c. e da liquidare secondo le categorie ed i criteri propri di tale fattispecie (danno emergente e lucro cessante).

A questo proposito è assai nota la soluzione offerta dalla giurisprudenza genovese già richiamata, (Trib. Genova, 14.12.2006), secondo cui, una lettura coerente con i principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, impone di considerare il danno subito dalla ricorrente in re ipsa, e risarcibile per equivalente secondo i criteri di quantificazione stabiliti per esso dal disposto dell’art. 18, commi 4 e 5, legge 300/1970, quale «unico istituto attraverso il quale il legislatore ha monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla c.d. stabilità reale»[9]. E si è già avuto il caso che, il Giudice, condannando l’amministrazione al risarcimento del danno in favore del lavoratore, abbia correttamente ordinato la trasmissione della decisione alla Corte dei Conti regionale al fine di valutare l’eventuale responsabilità del dirigente dell’ufficio interessato.

In particolare, non sarebbe necessario che il dipendente apporti ulteriori elementi oggettivi del danno subito in quanto il consolidato orientamento della giurisprudenza permette al Giudice di procedere anche ad una liquidazione in via equitativa basandosi sugli atti già acquisiti in giudizio tra cui il primario elemento considerato è certamente la retribuzione del lavoratore (Cass. Civ., Sez. Lav., 1 giugno 2002, n. 7967).

Quanto all’analisi delle più interessanti sentenze di merito sui punti nodali della disciplina in analisi, il Tribunale di Treviso, con sentenza del 21.09.09, è pervenuto alla conclusione per cui «appare arduo sostenere l’applicabilità dell’indennizzo in luogo del risarcimento del danno quale sanzione adeguata secondo canoni comunitari. In effetti lo stesso concetto di indennizzo, che consente di fare riferimento ad un tipo di ristoro non completamente satisfattivo del pregiudizio subito, desta qualche dubbio quanto alla corrispondenza ai principi dell’effettività e dell’adeguatezza riferiti dal diritto comunitario alla necessità di garantire che il rapporto a tempo determinato non venga strumentalizzato e utilizzato per mascherare rapporti sostanziali indeterminati nel tempo e dell’adeguatezza della sanzione che deve essere tale da esercitare un effetto sufficientemente deterrente sul datore di lavoro in modo da rendere non conveniente l’abuso del rapporto a termine. È infatti evidente che l’applicazione di un indennizzo commisurato ad un numero contenuto di mensilità potrebbe non avere effetto dissuasivo e quindi essere privo di requisito dell’adeguatezza previsti dal diritto comunitario.

Ciò soprattutto se si considera che nella realtà la denuncia di reiterazione illegittima del contratto a termine è immaginabile solo in occasione di un mancato rinnovo dopo una sequenza, potenzialmente lunga di rapporti a tempo determinato, rispetto alla quale il pagamento di alcune mensilità potrebbe essere molto più conveniente per il datore i lavoro e difficilmente satisfattivo per il prestatore di lavoro rispetto al risarcimento del danno calcolato sulle differenze di retribuzione.

Al fine di apprestare una effettiva tutela che sia anche monetizzabile, il danno risarcibile dovrà essere individuato con riferimento ai periodi lavorati da considerarsi soggetti non al regime (illegittimo) del contratto a tempo determinato di fatto applicato, ma a quello (legittimo) del contratto a tempo indeterminato. Tale danno quindi andrà individuato calcolando la differenza tra quanto effettivamente percepito dal lavoratore e quanto lo stesso avrebbe percepito qualora fosse stato da subito inquadrato quale lavoratore a tempo indeterminato ossia con l’assunzione in ruolo.

Il calcolo dovrà essere fatto con riferimento a tutti gli istituti influenti sulla retribuzione, calcolando quindi anche l’effetto dell’incremento retributivo determinato dall’anzianità di servizio».

Ed ancora, quanto al risarcimento del danno, altra giurisprudenza di merito ha evidenziato che «il risarcimento del danno subito dal lavoratore alle dipendenze della Pubblica Amministrazione per illegittima stipulazione del contratto a termine può essere quantificato nella misura pari al numero di mensilità dalla data del licenziamento a quella della emanazione della sentenza, decurtata dell’aliunde perceptum»[10].

In ogni caso, il punto fermo ed essenziale cui riferirsi, riaffermato anche recentissimamente dalla Suprema Corte di Cassazione[11], è che l’ordinamento nazionale rispetti il principio dell’equivalenza, cioè preveda misure adeguate per prevenire e sanzionare gli abusi, compresa quella del risarcimento del danno, purché dette misure siano dotate di effettività, cioè idonee, senza presentare eccessive difficoltà di attuazione, a riparare in maniera adeguata il pregiudizio subito e ad assumere un’efficacia deterrente, così da non risultare meno favorevoli delle sanzioni che disciplinano analoghe situazioni di natura interna, secondo un accertamento demandato al Giudice nazionale (Corte di giustizia 7 settembre 2006, in causaC-180/04, Corte di giustizia 23 aprile 2009, in causa C 378/07; Corte di giustizia 1° ottobre 2010, in causa C-3/10).

La soluzione interpretativa offerta è coerente, da un lato, con il rilievo, parimenti emergente dalle richiamate decisioni, che la direttiva non prevede, per l’ipotesi di reiterate assunzioni a termine, soluzioni specifiche per il caso in cui siano accertati abusi, ma solo tre tipi di misure che lo Stato dovrà adottare, sempre che il diritto interno già non preveda altra misura equivalente.

Dall’altro, la giurisprudenza pregressa che pone sullo stesso la violazione delle disposizioni di una direttiva con le sanzioni reali, che prevedono forme di riparazione in natura, e le sanzioni risarcitorie, attraverso la riparazione per equivalente economico (Corte di giustizia 10 aprile 1984, in causa C-14/83, secondo cui ai fini della repressione di una discriminazione nell’assunzione il legislatore nazionale può scegliere tra il prescrivere al datore di lavoro l’assunzione del candidato o il contemplare un adeguato risarcimento pecuniario; Corte di giustizia 2 agosto 1993, in causa C-171/91, che la stessa alternativa ha previsto in presenza di un licenziamento discriminatorio).

IL SISTEMA RISARCITORIO ALLA LUCE DEL COLLEGATO LAVORO

L’art. 32 del Collegato Lavoro introduce le seguenti novità in tema di risarcimento del danno al lavoratore che abbia subito la stipula di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, in violazione delle norme vigenti.

In particolare, ai commi 5 e ss., rectius il comma 5 dispone che «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al solo risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».

Il comma 6 contempla le ipotesi di riduzione dell’indennità, a tal fine disponendo che «in presenza di contratti o accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto della metà».

Infine il comma 7 dispone che «quanto statuito nei due commi precedenti trova applicazione rispetto a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge” con la specificazione per cui, in riferimento a questi ultimi, rectius i giudizi pendenti, e “ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 del codice di procedura civile».

Recentemente, alcuni giudici di merito si sono pronunciati sull’applicazione - ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore e cioè alla data del 24 novembre 2010 - della disposizione di cui all’art. 32, comma 5 e ss. della Legge, nella parte in cui prevede che «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».

La previsione dell’art. 32, comma 5 e ss. della L. n. 183/2010 – cd. Collegato Lavoro – ha di fatto posto altri problemi interpretativi.

In particolare, anche da quanto è emerso da parte dei primi commenti, è dubbio se il legislatore abbia voluto considerare l’indennità risarcitoria:

- sostitutiva della conversione del rapporto di lavoro e di ogni indennità risarcitoria ad essa connessa: interpretazione che non pare supportata né dalla lettera della norma che parla espressamente di «casi di conversione del contratto a tempo determinato» aggiungendo poi l’indennità risarcitoria, né dal confronto con la simile previsione di cui all’art. 50 della Legge per i contratti di collaborazione a progetto;

- alternativa rispetto alle retribuzioni perse nel periodo intercorrente tra la data di cessazione del rapporto – o di messa in mora del datore di lavoro - e la data della riammissione in servizio, ferma restando la conversione del rapporto a tempo indeterminato;

- aggiuntiva rispetto sia alla conversione del rapporto di lavoro, sia alle retribuzioni perse.

Una prima interpretazione del detto impianto normativo è offerta dal Tribunale di Busto Arsizio, che con la sentenza del 29 novembre 2010 n. 528, sostiene un’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme al diritto comunitario dell’art. 32, co. 5, L. 183/2010, la quale imporrebbe di ritenere l’indennità prevista una forma di tutela "aggiuntiva" e non "alternativa" a quella ordinaria risarcitoria.

Ne discende che alla mancata indicazione, in forma scritta, delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che giustificano il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato dovrebbero conseguire: 1) la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con riammissione in servizio del lavoratore vittorioso; 2) il pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni non percepite dalla messa in mora sino alla effettiva riammissione in servizio; 3) la corresponsione della nuova indennità introdotta dalla L. 183/2010.

Viceversa il Tribunale Milano, Sez. Lavoro, 29 novembre 2010 - sentenze nn. 4966 e 4971, in considerazione di un’interpretazione letterale della norma, che qualifica l’indennità risarcitoria come onnicomprensiva, ritiene che la stessa dovrebbe intendersi inclusiva di ogni risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.

A questo va aggiunto poi che i dubbi di legittimità costituzionale che hanno coinvolto la disposizione di cui all’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368/2001, sono stati appena riproposti anche con riferimento alla disposizione di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7 della L. n. 183/2010.

Da ultimo, il Giudice del Tribunale di Trani ha sollevato la questione di legittimità delle disposizioni appena indicate con riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost. principalmente per la disparità di trattamento che verrebbe a determinarsi per effetto della previsione di un’indennità omnicomprensiva diretta a “contenere le lungaggini del processo” per non parlare della perdita del diritto alla ricostruzione previdenziale del rapporto di lavoro.

Altra pronuncia[12] ha ravvisato un utile parametro di quantificazione nell’articolo 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, evidenziando che la norma, ancorché non direttamente applicabile al lavoro pubblico per il quale la conversione è esclusa, ha il pregio:

a) di evitare l’incertezza del diritto derivante dall’applicazione di regimi di tutela differenziati sul territorio nazionale, a seconda delle opzioni esegetiche privilegiate dal singolo interprete (20 mensilità, regime di tutela obbligatoria, criterio delle ricostruzione della carriera);

b) di assicurare il tendenziale rispetto del principio di equivalenza, garantendo al lavoratore pubblico una forma di tutela non meno favorevole, sub specie danni, rispetto ad altre forme di tutela che lo stesso legislatore nazionale ha adottato per il lavoro privato;

c) di consentire al giudice di personalizzare e graduare la sanzione risarcitoria tenendo conto delle peculiari circostanze del caso concreto sottoposto al suo vaglio[13].

IL SISTEMA INDENNITARIO. BREVI NOTE SULLA SENTENZA 8 NOVEMBRE 2011, N. 17966 DEL TRIBUNALE DI ROMA, SEZIONE LAVORO

Infine, il Tribunale del Lavoro capitolino ha consolidato quella prospettazione interpretativa che individua nel sistema dell’indennizzo il rimedio più adatto a sanzionare il ricorso illecito ad una serie di contratti di lavoro a termine da parte della P.A.

Il Giudice del Tribunale di Roma, premettendo che nel pubblico impiego il lavoratore assunto con contratto a termine illegittimo non possa aspirare alla trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, questi in ogni caso abbia diritto al risarcimento del danno.

Si osservi preliminarmente che nell’impiego privato la stipula di un contratto individuale a tempo determinato che risulti essere illegittimo cagiona al lavoratore un danno immediato, consistente nel fatto che il contratto a termine si è posto come alternativa al contratto a tempo indeterminato, per cui se il datore di lavoro non avesse apposto la clausola, poi rivelatasi illegittima, il lavoratore sarebbe stato assunto con contratto a tempo indeterminato.

In questo caso, l’ammontare del danno risarcibile è immediatamente individuabile, in quanto è rappresentato dalle retribuzioni non godute dal lavoratore dalla illegittima cessazione del rapporto di lavoro al ripristino dello stesso.

Se ciò è assumibile per il rapporto di lavoro privato, per quanto riguarda il lavoro pubblico la regola base secondo cui le assunzioni devono avvenire all’esito del superamento di un concorso, esclude la sussistenza del citato danno, poiché se il lavoratore non fosse stato assunto con l’illegittimo contratto a tempo, egli non avrebbe verosimilmente potuto stipulare un contratto a tempo indeterminato, dovendo prima superare una prova concorsuale.

Queste osservazioni hanno indotto parte della giurisprudenza a negare al lavoratore pubblico assunto con contratto a termine rivelatosi illegittimo ogni forma di risarcimento, sulla motivazione, per la verità suscettibile di molte critiche, dell’insussistenza di un danno subito.

La gran parte della giurisprudenza, più accorta e sensibile al problema, ha osservato che la conclusione dinanzi nominata, seppure coerente con i principi in materia di risarcibilità del danno, contrasta profondamente con l’impostazione rappresentata dalla Corte di Giustizia Europea, la quale sostanzialmente configura il risarcimento del danno più come una sanzione per l’amministrazione, avente un valore deterrente, che come un diretto ristoro per il lavoratore.

Così, il Giudice romano, più che andare alla ricerca di elementi che consentono di quantificare il danno, ha considerato più opportuno «individuare un sistema indennitario che da un lato si ponga come deterrente per l’amministrazione dallo stipulare contratti a termie illegittimi, dall’altro possa costituire un ristoro per il lavoratore senza fare gravare su di lui l’onere di provare il danno subito»[14].

Secondo questa prospettazione interpretativa, che appare conforme agli obiettivi prefissati dalla Corte di Strasburgo, il danno lamentato è in re ipsa, e non avrebbe bisogno di essere provato in giudizio, con ciò non volendosi aggravare l’onere di allegazione da parte del ricorrente.

In tal caso, con una decisione lineare ed equilibrata il Giudice, pur escludendo la stabilizzazione, ha inteso apprestare una tutela realmente avanzata all’illecito subito dal lavoratore, rappresentato dall’aver subito la stipulazione di un contratto di cui è stata dichiarata l’illegittimità per contrarietà a norme imperative.

Quanto al parametro di riferimento per la quantificazione del danno da abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine, la sentenza romana afferma che un utile parametri di riferimento possa rinvenirsi nell’art. 32, comma 5, della legge 183/2010.

L’affermazione più avvincente della decisione in analisi, è rappresentata dal fatto che il Giudice, pur rilevando che la norma non sia direttamente applicabile al lavoro pubblico, per il quale, come visto, la conversione è esclusa, la stessa introduce una forfetizzazione del danno subito dal lavoratore in ipotesi di illegittima apposizione del termine, che prescinde dalla prova della effettiva sussistenza di un danno – tanto che la norma prevede che in luogo del risarcimento venga stabilita una indennità – essa costituisce un valido parametro per la liquidazione del danno in esame.

Invero, nel momento in cui il legislatore ha determinato le conseguenze economiche derivanti dall’illegittima apposizione del termine nel campo privato, tali conseguenze possono essere mutuate anche per il settore del pubblico impiego, con un’operazione di analogia che appare non censurabile ed opportuna in considerazione del caso affrontato.

Infatti, l’applicazione del detto sistema indennitario consente di assicurare il tendenziale rispetto del principio di equivalenza, più volte affermato dalla Corte di Giustizia, in quanto garantisce al lavoratore pubblico una forma di tutela patrimoniale non meno favorevole rispetto ad altre forme di tutela che lo stesso legislatore nazionale ha adottato in situazioni analoghe nel lavoro privato.

A parere si chi scrive, il sistema da ultimo menzionato appare, tra i tanti cui si è fatto riferimento, uno dei più duttili e capaci di rendere giustizia ai lavoratori precari del settore pubblico. Si potrebbe altresì osservare che si tratta di una prospettiva nuova di concepire la misura del risarcimento danni nel nostro sistema: il concetto del punitive damage non è consueto nell’ordinamento italiano (seppur parte della dottrina sostiene il contrario), tuttavia, il riferimento a questo modo di intendere il risarcimento è inevitabile, nelle problematiche in evidenza.

Solo in questo modo, il risarcimento del danno diventa una misura alternativa alla stabilizzazione, proporzionata, effettiva ma, soprattutto, dissuasiva nei confronti delle pratiche tendenti alla contrattualizzazione a tempo, così come imposto anche dal Giudice comunitario.

D’altro canto, solamente la previsione del risarcimento del danno da ingresso nel sistema ad una concreta alternativa alla stabilizzazione del rapporto di lavoro.

In conclusione, l’utilizzo dell’impianto previsto dall’articolo 32, comma 5, della legge 183/2010 consente al Giudice di graduare la sanzione risarcitori tenendo conto delle peculiari circostanze del caso concreto.

In particolare, anche tenendo conto dei criteri più volte predicati anche dalla Corte di Giustizia per sottoporre ad analisi un rapporto di lavoro a termine e valutarne l’eventuale illegittimità, il risarcimento andrebbe calcolato tenendo conto della durata complessiva dei rapporti a termine, del numero dei contratti a termine illegittimi nonché della tipologia dei contratti.

È auspicabile che, in considerazione degli approdi più recenti della dottrina e della giurisprudenza, il divieto di stipulare una serie di contratti a termine divenga una regola, e che il sistema sanzionatorio rinvenibile dalla lettura delle disposizioni presenti nel D.Lgs. 165/2001 e nel D.Lgs. 368/2001 che riconosce il risarcimento dei danni subiti dal lavoratore[15], sia in grado di responsabilizzare maggiormente i dirigenti pubblici affinché sia garantita una efficace azione di prevenzione avverso l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato.



[1] Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 13 gennaio 2012, n. 382, che, nell’ambito dell’annoso dibattito sulla materia analizzata in questa sede, ha ribadito alcuni principi fondamentali, chiarendo che «l’art. 36 del D.Lgs 30 marzo2001, n. 165, nel riconoscere il ricorso al contratto a termine e ad altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico, ha valorizzato il ruolo della contrattazione collettiva con l’attribuire alla stessa una più accentuata rilevanza rispetto al passato, ma nello stesso tempo ha rimarcato l’innegabile differenza esistente tra forme contrattuali nell’area del pubblico impiego seppure privatizzato e quella del lavoro privato. Ne consegue che la suddetta norma si configura come speciale in ragione di un proprio e specifico regime sanzionatorio, che – per escludere la conversione in un contratto a tempo determinato e con il risultare funzionalizzato a responsabilizzare la dirigenza pubblica nel rispetto delle norme imperative in materia nonché a risarcire i danni che il lavoratore dimostri di aver subito per la violazione delle suddette norme – risulta alternativo a quello disciplinato dall’art. 5 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, escludendone in ogni caso l’applicazione». Ed ancora, secondo i Supremi Giudici, «la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia europea porta ad escludere nell’area del pubblico impiego seppure privatizzato, l’applicazione dell’art. 5, D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 368, dal momento che nel nostro assetto ordinamentale si rinviene, con le disposizioni di cui all’art. 36 del D.Lgs. 5 settembre 2001, n. 165, un sistema sanzionatorio capace – in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni in concreto subiti dal lavoratore – di prevenire, dapprima, e sanzionare, poi, in forma adeguata l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato».

[2] La direttiva comunitaria, 1999/70/CE, recependo l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso dalle organizzazioni europee delle parti sociali Ceep, Ces ed Unice, si propone di realizzare due obiettivi coniugandoli in un principio di fondo. Infatti, si impone allo Stato membro di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il principio di non discriminazione, e di creare un quadro normativo per la prevenzione di abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, ma ciò senza ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori a termine nell’ambito coperto dall’accordo stesso (c.d. clausola di non regresso).

[3] Cfr. De Michele V., Contratto a termine e precariato, Ipsoa, Milano, 2009.

[4] Cfr. art. 5 del D. Lgs. 3682001, comma 4-bis, «ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2».

[5] Cfr. Corte di Giustizia, sent. 7 settembre 2006, C-53/04, cit.

[6] Cfr. Corte di Giustizia, sent. 1 ottobre 2010, C-3/10, Affatato, n. 49, ripresa recentissimamente anche da C. Cass., Sez. Lav., 13 gennaio 2012, n. 392.

[7] Cfr. Di Paola L. e Fedele I., Il contratto di lavoro a tempo determinato, Giuffré, 2011, secondo i quali, la formula contenuta nell’art. 1, D.lgs. n.368/2001, secondo cui nel lavoro pubblico il ricorso al contratto a termine è giustificato solo da esigenze «temporanee ed eccezionali», dimostra chiaramente la volontà del legislatore di voler disincentivare il ricorso alla flessibilità in entrata nel settore pubblico.

[8] Cfr. Garilli A., Il contratto a termine nel lavoro pubblico, Giappichelli, 2009.

[9] Cfr. Ex multis, Tribunale di Foggia, 5 novembre 2009; Tribunale d Napoli 25 febbraio 2008; C. App. Genova, 19.11.2008; Tribunale Genova, 14 maggio 2007.

[10] Cfr. Tribunale di Milano, sez. lavoro, sent 25 maggio 2010.

[11] Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 13 gennaio 2012, n. 382, cit.

[13] Cfr. Tribunale di Treviso, Sez. Lavoro, 28 gennaio 2010.

[14] Cfr. Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, sentenza 8 novembre 2011, n. 17966. Detto orientamento era stato già accolto in precedenza e, segnatamente, dalla sentenza n. 385/2009, emessa dal Tribunale di Viterbo, in funzione di Giudice del Lavoro, con il giudicante ha riconosciuto «al risarcimento previsto dall’art. 36 natura indennitaria, fondata sulla presunzione legale del danno conseguente alla impossibilità di prosecuzione del rapporto dovuta al divieto di conversione del rapporto. Ad esso va, inoltre, riconosciuto carattere automatico essendo previsto in ogni caso, per il solo fatto della violazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori. Dunque, ogni qualvolta la prestazione lavorativa sia resa in violazioni di dette disposizioni la situazione concreta appare più facilmente assimilabile a quella disciplinata dall’art. 8 della L. 604/1966 in cui, a fronte, della accertata illegittimità della risoluzione, l’unica tutela accordata è quella obbligatoria che garantisce il diritto all’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento ed alle condizioni delle parti».

[15] Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 13 gennaio 2012, n. 382, cit.

BREVE ANALISI DELLA DISCIPLINA ALLA LUCE DELLA GIURISPRUDENZA COMUNITARIA ED INTERNA

Le osservazioni che seguono, senza avere la pretesa dell’esaustività, si propongono di analizzare un tema di costante attualità che impegna ormai da anni la giurisprudenza comunitaria ed italiana, e la dottrina.

Infatti, il problema del ricorso abusivo ad una serie di contratti di lavoro a tempo determinato illegittimi da parte della P.A. non è solo un problema di interpretazione delle norme giuridiche, che per la verità sul punto sono piuttosto contraddittorie e di difficile interpretazione, ma rappresenta un grave problema di stabilità per i giovani lavoratori che ambiscono ad un posto di lavoro pubblico.

A ciò si aggiunge che, per specifica disposizione legislativa dettata dall’art. 36, comma 5 del D.Lgs. 165/2001, e per ormai costante giurisprudenza, il contratto a termine nel pubblico impiego non può, in nessun caso, convertirsi in contratto a tempo determinato[1].

E, nonostante che la giurisprudenza comunitaria abbia dettato dei criteri volti a favorire in ogni Stato membro la stabilizzazione, e creato un principio di non discriminazione in base al quale la disciplina della stabilizzazione dovrebbe applicarsi anche ai rapporti di pubblico impiego, il nostro sistema non è riuscito ancora ad applicare le indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia, proseguendo nella penalizzante pratica del ricorso al contratto a termine.

Da ultimo, una parte della giurisprudenza giuslavoristica, da sempre sensibile alle problematiche dei lavoratori, sulla base delle richiamate indicazioni europee, ha avviato un’opportuna linea giurisprudenziale volta ad apprestare una tutela giuridica avanzata nei confronti dei lavoratori precari del settore pubblico, predisponendo, nell’impossibilità di convertire con sentenza il contratto così come avviene per il settore privato, un sistema risarcitorio od indennitario variamente disciplinato, e tendente a scoraggiare le P.A. a far ricorso all’odiosa pratica del contratto a termine.

Ripercorrendo brevemente la storia della legislazione interna e di quella comunitaria sull’annosa questione della coesistenza nel nostro ordinamento del D.lgs. 165/2001 - Ordinamento del Lavoro Pubblico - e del D.lgs. 368/2001 -Disciplina del Contratto di Lavoro a Tempo Determinato - e della interpretazione che delle dette norme ha fornito la giurisprudenza della Corte di Giustizia, va subito precisato che il contratto di lavoro a tempo determinato costituisce un contratto tipico, in quanto espressamente regolamentato dal D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 (e s.m.i.) di attuazione della direttiva 1999/70/CE[2] e dell’accordo quadro ad essa allegato.

L’art. 1 del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, rubricato “Apposizione del termine” così dispone al comma 1: «E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo».

L’art. 5 del citato Decreto, consente di sanzionare la reiterata conclusione di rapporti di lavoro a termine, mediante la loro conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

L’ambito di applicazione del D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, per la verità mai limitato al solo settore del lavoro privato (nel rispetto della direttiva comunitaria), coinvolge indifferentemente i settori del lavoro privato e pubblico (art. 10, D. Lgs. 368/2001 – Corte di Giustizia sentenza 4 luglio 2006 emessa nella causa C-212/04).

Tuttavia, occorre tener conto della contemporanea vigenza del D. Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (Testo Unico del Lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione).

Interessa, nello specifico, l’art. 36 del D.Lgs. 165/2001, il quale preclude in via definitiva, in caso di successione di contratti a termine nel settore pubblico, la loro conversione in contratti a tempo indeterminato.

Nonostante i numerosi interventi in materia, la dottrina non ha risolto l’evidente contrasto tra le due succitate normative e, ad oggi, risulta comunemente accettata l’opinione relativa all’inapplicabilità, in via di fatto, del D. Lgs. 368/2001 ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, nella parte in cui preclude la conversione di contratti a tempo determinato illeciti in rapporti stabili.

L’articolo 36, comma 5, del D. Lgs. n. 165 del 2001, riconfermando la previsione dell’articolo 36 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come modificato dall’articolo 22, comma 8, del D.Lgs n. 80 del 1998, esclude che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni possa comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime e riconosce, quale unica conseguenza, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno. Aggiunge che le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave, e che i dirigenti stessi incorrono nella responsabilità di cui all’articolo 21 del Decreto.

Il sistema normativo analizzato è stato sottoposto più volte allo scrutinio della Corta Costituzionale, soprattutto dopo l’intervento della Corte di Giustizia che è stata chiamata a pronunciarsi più volte sulla conformità alle norme comunitarie della normativa italiana sul pubblico impiego.

In particolare, la sentenza 27 marzo 2003, n. 89 della Corte Costituzionale, escluse l’illegittimità dell’articolo 36 sul divieto di conversione del rapporto instaurato in violazione della disciplina sul contratto a termine per la necessità di salvaguardare il momento genetico del rapporto di lavoro con la P.A., a tutela dei principi di imparzialità e buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost., attraverso il meccanismo dell’assunzione per concorso, quale procedura costituzionalmente prevista per garantire l’esigenza di una corretta selezione dei candidati.

Parte della dottrina ha però criticato fermamente la motivazione addotta dalla Corte Costituzionale, incentrata, come visto, sul riferimento al vincolo costituzionale del pubblico concorso quale elemento decisivo e sufficiente a giustificare la specialità del lavoro pubblico.

Si è osservato attentamente, infatti, che anche nelle assunzioni a termine alle dipendenze della P.A. vengono svolte delle procedure selettive volte alla verifica dei requisiti richiesti dai singoli C.C.N.L. di lavoro e delle effettive capacità professionali del candidato.

Dunque, il problema della conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato alle dipendenze della P.A. non si configurerebbe nel momento genetico - essendo pacificamente praticata una prima assunzione per effetto di nomina o per chiamata dopo l’inserimento in apposite graduatorie previste dalla legge - ma in tutte quelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro si è instaurato a seguito di una procedura predeterminata intesa alla valutazione delle concrete capacità professionali del soggetto, e successivamente sia stato illegittimamente prorogato con assunzioni a tempo.

In tali ipotesi, infatti, il vizio non atterrebbe più alla fase di costituzione del rapporto bensì a quella relativa al suo svolgimento, come tale non caratterizzata da specialità rispetto alla medesima situazione in cui verrebbe a trovarsi il lavoratore privato[3].

Più recentemente, la sentenza 89/2003 della Corte Costituzionale è stata oggetto di una nuova ed interessante interpretazione da parte della Corte di Cassazione, (C. Cass., Sez. Lav., sent. 2 aprile 2010, n. 9555), secondo cui i suoi effetti vanno interpretati nel senso che il divieto di conversione va limitato ai casi in cui è in discussione la violazione della regola del pubblico concorso, mentre, quando viene in rilievo una modalità di costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. diversa dal concorso non vige il limite enunciato dalla Consulta.

Ed ancora, il Tribunale di Siena (Sent. 27.09.2010), chiamato a pronunciarsi in merito ad una fattispecie relativa al personale docente del comparto scuola, ha equiparato le procedure di selezione del personale mediante inserimento in graduatoria e valutazione dei titoli, alle assunzioni avvenute per concorso pubblico, sul rilievo che in tal modo fosse stata rispettata la regola della concorsualità.

Da tanto si evince che la patologia del rapporto di lavoro pubblico a tempo non vada individuata tanto nel momento della sua costituzione, ma nella sua genesi successiva, ossia nel momento in cui la P.A. riassume il lavoratore, ricorrendo così a plurimi e successivi contratti a termine, anche quando si presentino effettive esigenze di organico o siano state programmate delle assunzioni a tempo indeterminato.

In pratica, non dovrebbe accettarsi l’assunto secondo cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato presso le P.A., in alcuni settori, dovrebbe costituirsi solo ed esclusivamente mediante pubblico concorso, essendosi ormai diversificati i metodi di reclutamento del personale delle P.A., proprio per sopperire alle diverse esigenze delle singole strutture pubbliche. E se il rapporto si costituisce, ad esempio, attraverso procedure selettive successive all’inserimento in una graduatoria prevista dalla legge, non è più accettabile che il rapporto prosegua in violazione delle norme poste a presidio del divieto di costituire rapporti di lavoro a termine.

Proprio al fine di risolvere il conflitto tra la normativa italiana di cui all’art. 36 D. Lgs. 165/2001 e l’orientamento comunitario, la Corte Europea si è pronunciata più volte sul punto.

Con la sentenza 4 luglio 2006 – Causa C-212, emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta da un Giudice greco e vertente sull’interpretazione dell’accordo quadro allegato proprio alla direttiva comunitaria 1999/70/C, il Giudice europeo ha sentenziato che «il detto accordo quadro osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieti in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli del datore di lavoro e devono essere considerati abusivi».

Nella successiva sentenza 7 settembre 2006 emessa nella causa C-53/04 e che riguardava in tal caso l’Italia, la Corte di Giustizia ha affrontato espressamente il problema, statuendo chiaramente che «affinché una normativa nazionale che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione».(Corte di Giustizia, 7 settembre 2006 - Causa C-53/04).

A differenza del caso della Grecia, tuttavia, nella sentenza che ha riguardato una Pubblica Amministrazione italiana, la Corte non ha disposto la conversione del rapporto, e ciò proprio per effetto della vigenza nel nostro ordinamento del disposto di cui all’art. 36 D. Lgs. 165/2001, il quale prevede il risarcimento del danno derivante dall’illegittima apposizione del termine, non già la stabilizzazione del rapporto.

La Corte di Strasburgo, per converso, ha chiarito in modo deciso che la successione di rapporti contrattuali di lavoro con la Pubbliche Amministrazioni non va considerata abusiva solo ed esclusivamente se mira a soddisfare esigenze solo transitorie sul piano lavoristico.

In tutti i casi in cui l’amministrazione-datrice di lavoro faccia invece un ricorso sistematico al contratto a tempo determinato, tale contegno deve ritenersi illegittimo se i contratti sono stipulati per soddisfare esigenze non meramente temporanee e di lungo periodo.

Apprezzata in breve la situazione normativa esistente in Italia in merito ai rapporti di lavoro nel settore pubblico e in quello privato, si è riflettuto chiaramente sulla necessità di adottare una misura sanzionatoria “alternativa” alla conversione del contratto, che sia, al contempo, rispettosa dei parametri determinati dal Giudice europeo, e che consenta al lavoratore di ottenere un giusto ristoro per l’ingiustizia subita.

Deve, indiscutibilmente, trattarsi di una misura volta alla disincentivazione di un fenomeno tanto noto quanto irrisolto: quello del reiterato abuso dello strumento del contratto di lavoro a termine.

Il giudice del lavoro del Tribunale di Genova ha ad esempio rilevato che, per quanto si presentino come negozi autonomi che dispongono una “proroga” del servizio da prestare, i contratti a termine conclusi in successione tra loro sono in aperto conflitto anche con il disposto di cui all’art. 4, primo comma, D. Lgs. 368/2001, il quale ammette la proroga del contratto di lavoro a tempo determinato una sola volta; in sostanza tale articolo dispone che «il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni».

Comunque, rileva principalmente il fatto che l’Autorità giudiziaria del Tribunale genovese abbia ritenuto che, allo stato dell’ordinamento giuridico nazionale, l’unica misura attualmente idonea a tutelare i diritti del lavoratore a tempo del settore pubblico sia il risarcimento per equivalente, per cui «il criterio dell’adeguatezza e dell’effettività è data non soltanto dall’idoneità dello strumento a riparare il danno sofferto, ma anche dalla forza dissuasiva che è propria dei meccanismi sanzionatori».

In questa prospettiva, il Giudice ligure ha ritenuto che il meccanismo più appropriato è quello riprodotto nei commi quarto e quinto dell’art. 18, Legge 300/1970. In considerazione del fatto che «si tratta dell’unico istituto attraverso il quale il legislatore ha inteso monetizzare il valore del posto di lavoro».

Detto ragionamento ha permesso di pervenire, nel caso di Genova relativo ad un rapporto di pubblico impiego, alla condanna della parte convenuta per un importo pari a venti (20) mensilità della retribuzione globale di fatto maturata alla data di cessazione del rapporto.

Questa sentenza ha tentato di dare piena attuazione all’accordo quadro stipulato in sede europea (Clausola 1 dell’accordo-quadro), il cui obiettivo è quello di «a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il principio di non discriminazione, e b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato».

Per prevenire gli abusi (Clausola 5 dell’accordo-quadro) derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri dovrebbero introdurre – in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi in modo da tener conto delle esigenze di settori eo categorie specifici di lavoratori – una o più misure relative alla valutazione ed al monitoraggio delle seguanti caratteristiche del contratto, relative:

a) a ragioni obbiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;

b) alla durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;

c) al numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.

Sebbene l’accordo-quadro demandi agli Stati membri e alle parti sociali la formulazione di disposizioni volte all’applicazione dei principi generali, dei requisiti minimi e delle norme in esso stesso contenuti, al fine di tener conto della situazione di ciascuno Stato membro e delle circostanze relative a particolari settori e occupazioni, comprese le attività di tipo stagionale (§10 delle considerazioni generali dell’accordo-quadro), nondimeno la suddetta deroga deve pur sempre essere esercitata nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario sulla parità di trattamento tra situazioni paragonabili, e senza pregiudizio dell’oggetto e dello scopo della direttiva.

In altri termini, una differenziazione di trattamento basata unicamente sulla diversa tipologia di datore di lavoro potrebbe essere ammissibile unicamente sulla base di giustificazioni oggettive.

Invero, la stessa Corte di Giustizia, nella sentenza del 4 luglio 2006 relativa al procedimento C-212/04 Adeneler e altri cEllinikos Organismos Galaktos – ELOG, al §-54 ha precisato «che la direttiva 1999/70 e l’accordo-quadro sono applicabili ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e altri enti del settore pubblico».

Infatti – prosegue la Corte al §-55 – «le disposizioni dell’accordo non contengono alcuna indicazione dalla quale possa dedursi che il loro campo di applicazione si limiti ai contratti a tempo determinato conclusi dai lavoratori con datori di lavoro del solo settore privato» (in senso conforme cfr. le sentenze 7 settembre 2006 nei procedimenti C-53/04 Marrosu e Sardino nonché C-180/04 Vassallo, entrambi contro Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate).

Al contrario, da un lato, come risulta dalla stessa formulazione della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro, «il campo di applicazione di quest’ultimo è concepito in senso lato, riguardando in maniera generale i lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro».

Inoltre, «la nozione di lavoratori a tempo determinato ai sensi dell’accordo quadro, figurante nella clausola 3, punto 1, di quest’ultimo, include tutti i lavoratori, senza operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro» (§-56).

D’altro lato – osserva sempre la Corte al §-57 – «la clausola 2, punto 2, dello stesso accordo quadro, lungi dal prevedere l’esclusione dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con un datore di lavoro del settore pubblico, si limita a offrire agli Stati membri eo alle parti sociali la facoltà di sottrarre al campo di applicazione di tale accordo i rapporti di formazione professionale iniziale e di apprendistato», nonché i contratti e i rapporti di lavoro «definiti nel quadro di un programma specifico di formazione, inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi pubblici».

Ricorda inoltre la Corte come l’accordo-quadro consideri i contratti di lavoro a tempo indeterminato come la forma comune dei rapporti di lavoro, prevedendo disposizioni contro la precarizzazione dei lavoratori dipendenti.

Conseguentemente il beneficio della stabilità costituisce elemento portante della tutela dei lavoratori; pertanto, è legittimo ricorrere all’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato unicamente in presenza di determinate circostanze oggettive e per rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro che dei lavoratori.

In generale, si tende ad accettare la prassi secondo cui, se la durata dei successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato supera un certa soglia temporale (oppure supera complessivamente anni 3), si presume che con essi si è intenso far fronte ad un fabbisogno permanente e durevole dell’attività, con la conseguenza che essi debbono essere convertiti in contratti o rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Il ricorso abusivo da parte della Pubblica Amministrazione a successive reiterazioni di contratti di lavoro a tempo determinato comporta necessariamente che debba essere adottata una contromisura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori, raggiungibili solo con la conversione del rapporto a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato in applicazione dell’art. 5 del D. Lgs. 3682001, decreto legislativo attuativo della citata direttiva[4].

In particolare, osserva la Corte (§ 94) che «quando il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche neppure nel caso in cui sono stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro».

In mancanza di efficacia diretta, i giudici nazionali devono interpretare il diritto interno alla luce del testo e della finalità della direttiva per raggiungere i risultati perseguiti da quest’ultima, privilegiando l’interpretazione delle disposizioni nazionali maggiormente conformi a tale finalità, per giungere ad una soluzione compatibile con le disposizioni della direttiva.

In armonia con il criterio dell’effettività dei principi giuridici, proprio del diritto comunitario, la Corte di Giustizia impone di verificare non già che nel diritto nazionale sia presente una qualsivoglia misura di contrasto dell’abuso, bensì di verificare che la misura individuata sia applicabile e, se applicabile, sia anche efficace.

In particolare, la Corte ha inteso predisporre una serie di criteri ermeneutici finalizzati a prevenire il ricorso abusivo da parte delle P.A. ad una serie di successivi contratti di lavoro a termine, chiarendo che «spetta al Giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 36, comma 2, prima fase del D. Lgs. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato»[5].

Nelle sentenze 7 settembre 2006 (procedimenti C-534 e C-1804) la Corte osserva che, per considerare il divieto di trasformazione conforme all’accordo quadro, è necessario che l’ordinamento giuridico interno preveda, in tale settore, un’altra misura effettiva per sanzionare l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione.

La giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea, tende a scoraggiare gli Stati membri dal fare ricorso all’uso di contratti a termine, e ribadisce che «nel nostro assetto ordina mentale, rectius-italiano, con l’art. 36 del D.Lgs. 5 settembre 2001, n. 165, si rinviene un sistema sanzionatorio capace – in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni subiti in concreto dal lavoratore – di prevenire, dapprima, e sanzionare, poi, in forma adeguata l’utilizzo abusivo da parte della P.A. dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione»[6].

In questo senso la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure elencate in tale disposizione e dirette a prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, qualora il diritto nazionale non preveda già misure equivalenti.

Le misure alternative devono rivestire non soltanto un carattere proporzionato ma altresì – e soprattutto – sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro.

Invero, l’art. 36, comma 5, D. Lgs n. 1652001, ribadisce, come detto, che «in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni», stabilisce che «il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative» e che «le amministrazioni hanno l’obbligo i recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave».

Tale norma, è stato osservato, non solo non rappresenta uno strumento adeguato per prevenire l’utilizzo abusivo da parte della Pubblica Amministrazione ma neppure sanziona adeguatamente l’eventuale abusivo utilizzo, così come imporrebbe le giurisprudenza comunitaria.

La circostanza che il ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione ai contratti di lavoro a tempo determinato in violazione delle disposizioni imperative faccia sorgere in capo al lavoratore il diritto al risarcimento del danno non costituisce né uno strumento di prevenzione né una sanzione.

Tale norma si limita, infatti, a prevedere l’obbligo di eliminare (risarcire) le conseguenze dannose che sono derivate dalla condotta illecita, ma nulla prevede per prevenire e dissuadere la Pubblica Amministrazione dall’utilizzare o ricorrere abusivamente a contratti di lavoro a tempo determinato né prevede una sanzione adeguata in caso di violazione.

Alla luce delle evoluzioni giurisprudenziali, si dovrebbe dichiarare nulla la clausola di apposizione del termine inserita nel 1^ contratto stipulato dal lavoratore, nonché illegittima la successione dei contratti stipulati a tempo determinato, e per l’effetto riconoscere il diritto al risarcimento del danno patito, ai sensi dell’art. 18, della legge n. 300/70, ovvero in applicazione del combinato disposto dell’art. 36 D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e della legge 183/2010, ovvero in forza delle disposizioni del diritto comunitario, per la mancata attuazione della direttiva.

Infatti, «nel caso in cui il risultato prescritto da una direttiva non possa essere conseguito mediante interpretazione, occorre ricordare che, secondo la sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovic e a., (Racc. pag. I-5357, punto 39), il diritto comunitario impone agli Stati membri di risarcire i danni da essi causati ai singoli a causa della mancata attuazione di tale direttiva, purché siano soddisfatte tre condizioni. Anzitutto la direttiva deve avere lo scopo di attribuire diritti a favore dei singoli. Deve essere poi possibile individuare il contenuto di tali diritti sulla base delle disposizioni della detta direttiva. Infine deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato membro e il danno subito» (sentenza 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adeneler + altri, § 112).

Alla luce delle suesposte considerazioni, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, quando non sia imposta da esigenze particolari, si risolve in un mero escamotage adottato dall’Amministrazione per evitare la stabilizzazione del rapporto di lavoro del personale posto alle sue dipendenze.

Così, il contratto a tempo determinato, stipulato ab origine dal malcapitato, nella sostanza, costituirà, se reiterato illegittimamente, il primo di una lunga serie di contratti a tempo, che si concluderanno con il licenziamento del lavoratore in occasione della scadenza pattuita, e ciò in spregio alla rigorosa normativa vigente in materia, che prevede – esclusivamente in presenza di ipotesi tassative ed eccezionali e nel rispetto dei requisiti formali richiesti ad substantiam – la possibilità di lavoro subordinato a termine per i dipendenti della P.A.

Dalla scansione della casistica, invero, emerge molto spesso che i contratti a tempo vengono stipulati in successione tra loro, o comunque entro un lasso di tempo certamente ristretto, tale da confermare l’assunto secondo cui, nella sostanza, il rapporto di lavoro si protrae in maniera ininterrotta, e non certamente per soddisfare esigenze provvisorie.

I contratti in oggetto, infatti, vengono conclusi, nella maggior parte dei casi, per sopperire ad esigenze lavorative assolutamente non transitorie nonché ad un fabbisogno durevole ed al fine di sopperire alle carenze strutturali e permanenti degli uffici pubblici[7] - (paradigmatico e diffusissimo è il caso dei precari del Comparto Scuola).

Peraltro, in violazione del D. Lgs. 368/2001, nei contratti non vengono quasi mai indicate le esigenze e le ragioni che avrebbero giustificato l’apposizione del termine. Per la verità, con riferimento ad uno degli aspetti più rilevanti della disciplina quale quello della individuazione delle causali giustificative della apposizione del termine al contratto di lavoro, si è rilevato che non si potranno individuare fattispecie legittimanti il contratto a termine non caratterizzate da entrambi i requisiti della temporaneità e della eccezionalità, pena la illegittimità della clausola per contrasto con norma imperativa di legge.

Orbene, il rinnovo illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato è consentito se giustificato da una ragione obiettiva. Siffatta ragione sussiste, in particolare, se il rinnovo è giustificato dalla forma, dal tipo o dall’attività del datore di lavoro o da motivi o esigenze particolari, qualora tali circostanze risultino direttamente o indirettamente dal contratto interessato, come ad esempio in caso di sostituzione provvisoria del lavoratore, di esecuzione di lavori provvisori, di temporaneo sovraccarico di lavoro, oppure nel caso in cui la durata limitata è legata all’istruzione o alla formazione, qualora il rinnovo del contratto avvenga con lo scopo di facilitare il passaggio del lavoratore ad un’occupazione analoga, o di realizzare un’opera o un programma concreti o è relativo al raggiungimento di un risultato concreto.

A ben vedere, quindi, nel comparto pubblico il ricorso al contratto a termine viene scoraggiato in ogni maniera, e viene tollerato solo in casi particolari.

Diversamente, esso è considerato censurabile per violazione di norme imperative di legge, va disincentivato anche per le conseguenze che può determinare in termini di garanzia di efficienza della pubblica amministrazione e di tutela dei lavoratori, e deve essere risarcito al lavoratore il relativo danno subito[8].

Così, visto che non è, in pratica, possibile per il Giudice investito della relativa questione convertire il contratto con un sentenza, è necessario che i Giudici operanti all’interno dei singoli Stati applichino le norme relative al risarcimento del danno in modo adeguato ed effettivamente commisurato alle aspettative risarcitorie del lavoratore, atteso che il risarcimento e/o l’indennizzo sono gli unici strumenti – in attesa di una riforma complessiva o di una pronuncia della Corte Costituzionale – in grado di rendere giustizia al lavoratore assunto a seguito di una serie di contratti di lavoro il cui termine è illegittimo.

CENNI SUL SISTEMA RISARCITORIO

Quindi, nell’impossibilità di poter stabilizzare il contratto di lavoro proprio perché la nostra disciplina interna lo vieta espressamente per il comparto del pubblico impiego, l’unica alternativa percorribile è quella di prevedere un equo risarcimento per il lavoratore coinvolto nell’assunzione a termine illegittima.

Questa è, brevemente l’indicazione che ci viene fornita ormai da anni dalla Corte di Giustizia.

Il danno subito dai lavoratori sottoposti a continue assunzioni a termine può essere anche diretta conseguenza dei licenziamenti subiti alla scadenza dei singoli contratti.

Pertanto, anche ai sensi della stessa legge 300/70, il danno da licenziamento comporta in alternativa alla conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato il risarcimento del danno pari a 15 mensilità di retribuzione.

Sulla questione del risarcimento del danno subito dal lavoratore ex art. 36, D.Lgs. 165/2001, si registra un acceso dibattito incentrato sui parametri per la liquidazione del danno, onde valutare in concreto la compatibilità dell’ordinamento italiano rispetto ai principi comunitari in tema di abusi derivanti da successione di contratti o rapporti a termine. La giurisprudenza di merito ha assunto che il risarcimento ex art. 36, D.Lgs. 165/2001 costituisca una voce aggiuntiva rispetto alla corresponsione delle retribuzioni, assicurate già da quanto disposto dall’art. 2126 c.c.

Tuttavia, pur partendo dalla identica premessa costituita dalla necessità di tenere conto delle indicazioni dettate dalla Corte europea, i giudici chiamati a pronunciarsi sul punto sono giunti a diverse soluzioni, prospettando l’utilizzo di differenti parametri di riferimento per la liquidazione del danno.

Tra le pronunce intervenute, si segnalano la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 14.03.2006, secondo cui il risarcimento del danno da illegittima reiterazione dei contratti a termine nel pubblico impiego è riconoscibile in re ipsa, anche in assenza di specifiche allegazioni, e deve essere liquidato equitativamente.

All’opposto, l’iniziale impostazione del giudice foggiano, secondo cui il risarcimento sarebbe da inquadrare nell’ambito della responsabilità ex art. 2043 c.c. e da liquidare secondo le categorie ed i criteri propri di tale fattispecie (danno emergente e lucro cessante).

A questo proposito è assai nota la soluzione offerta dalla giurisprudenza genovese già richiamata, (Trib. Genova, 14.12.2006), secondo cui, una lettura coerente con i principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, impone di considerare il danno subito dalla ricorrente in re ipsa, e risarcibile per equivalente secondo i criteri di quantificazione stabiliti per esso dal disposto dell’art. 18, commi 4 e 5, legge 300/1970, quale «unico istituto attraverso il quale il legislatore ha monetizzato il valore del posto di lavoro assistito dalla c.d. stabilità reale»[9]. E si è già avuto il caso che, il Giudice, condannando l’amministrazione al risarcimento del danno in favore del lavoratore, abbia correttamente ordinato la trasmissione della decisione alla Corte dei Conti regionale al fine di valutare l’eventuale responsabilità del dirigente dell’ufficio interessato.

In particolare, non sarebbe necessario che il dipendente apporti ulteriori elementi oggettivi del danno subito in quanto il consolidato orientamento della giurisprudenza permette al Giudice di procedere anche ad una liquidazione in via equitativa basandosi sugli atti già acquisiti in giudizio tra cui il primario elemento considerato è certamente la retribuzione del lavoratore (Cass. Civ., Sez. Lav., 1 giugno 2002, n. 7967).

Quanto all’analisi delle più interessanti sentenze di merito sui punti nodali della disciplina in analisi, il Tribunale di Treviso, con sentenza del 21.09.09, è pervenuto alla conclusione per cui «appare arduo sostenere l’applicabilità dell’indennizzo in luogo del risarcimento del danno quale sanzione adeguata secondo canoni comunitari. In effetti lo stesso concetto di indennizzo, che consente di fare riferimento ad un tipo di ristoro non completamente satisfattivo del pregiudizio subito, desta qualche dubbio quanto alla corrispondenza ai principi dell’effettività e dell’adeguatezza riferiti dal diritto comunitario alla necessità di garantire che il rapporto a tempo determinato non venga strumentalizzato e utilizzato per mascherare rapporti sostanziali indeterminati nel tempo e dell’adeguatezza della sanzione che deve essere tale da esercitare un effetto sufficientemente deterrente sul datore di lavoro in modo da rendere non conveniente l’abuso del rapporto a termine. È infatti evidente che l’applicazione di un indennizzo commisurato ad un numero contenuto di mensilità potrebbe non avere effetto dissuasivo e quindi essere privo di requisito dell’adeguatezza previsti dal diritto comunitario.

Ciò soprattutto se si considera che nella realtà la denuncia di reiterazione illegittima del contratto a termine è immaginabile solo in occasione di un mancato rinnovo dopo una sequenza, potenzialmente lunga di rapporti a tempo determinato, rispetto alla quale il pagamento di alcune mensilità potrebbe essere molto più conveniente per il datore i lavoro e difficilmente satisfattivo per il prestatore di lavoro rispetto al risarcimento del danno calcolato sulle differenze di retribuzione.

Al fine di apprestare una effettiva tutela che sia anche monetizzabile, il danno risarcibile dovrà essere individuato con riferimento ai periodi lavorati da considerarsi soggetti non al regime (illegittimo) del contratto a tempo determinato di fatto applicato, ma a quello (legittimo) del contratto a tempo indeterminato. Tale danno quindi andrà individuato calcolando la differenza tra quanto effettivamente percepito dal lavoratore e quanto lo stesso avrebbe percepito qualora fosse stato da subito inquadrato quale lavoratore a tempo indeterminato ossia con l’assunzione in ruolo.

Il calcolo dovrà essere fatto con riferimento a tutti gli istituti influenti sulla retribuzione, calcolando quindi anche l’effetto dell’incremento retributivo determinato dall’anzianità di servizio».

Ed ancora, quanto al risarcimento del danno, altra giurisprudenza di merito ha evidenziato che «il risarcimento del danno subito dal lavoratore alle dipendenze della Pubblica Amministrazione per illegittima stipulazione del contratto a termine può essere quantificato nella misura pari al numero di mensilità dalla data del licenziamento a quella della emanazione della sentenza, decurtata dell’aliunde perceptum»[10].

In ogni caso, il punto fermo ed essenziale cui riferirsi, riaffermato anche recentissimamente dalla Suprema Corte di Cassazione[11], è che l’ordinamento nazionale rispetti il principio dell’equivalenza, cioè preveda misure adeguate per prevenire e sanzionare gli abusi, compresa quella del risarcimento del danno, purché dette misure siano dotate di effettività, cioè idonee, senza presentare eccessive difficoltà di attuazione, a riparare in maniera adeguata il pregiudizio subito e ad assumere un’efficacia deterrente, così da non risultare meno favorevoli delle sanzioni che disciplinano analoghe situazioni di natura interna, secondo un accertamento demandato al Giudice nazionale (Corte di giustizia 7 settembre 2006, in causaC-180/04, Corte di giustizia 23 aprile 2009, in causa C 378/07; Corte di giustizia 1° ottobre 2010, in causa C-3/10).

La soluzione interpretativa offerta è coerente, da un lato, con il rilievo, parimenti emergente dalle richiamate decisioni, che la direttiva non prevede, per l’ipotesi di reiterate assunzioni a termine, soluzioni specifiche per il caso in cui siano accertati abusi, ma solo tre tipi di misure che lo Stato dovrà adottare, sempre che il diritto interno già non preveda altra misura equivalente.

Dall’altro, la giurisprudenza pregressa che pone sullo stesso la violazione delle disposizioni di una direttiva con le sanzioni reali, che prevedono forme di riparazione in natura, e le sanzioni risarcitorie, attraverso la riparazione per equivalente economico (Corte di giustizia 10 aprile 1984, in causa C-14/83, secondo cui ai fini della repressione di una discriminazione nell’assunzione il legislatore nazionale può scegliere tra il prescrivere al datore di lavoro l’assunzione del candidato o il contemplare un adeguato risarcimento pecuniario; Corte di giustizia 2 agosto 1993, in causa C-171/91, che la stessa alternativa ha previsto in presenza di un licenziamento discriminatorio).

IL SISTEMA RISARCITORIO ALLA LUCE DEL COLLEGATO LAVORO

L’art. 32 del Collegato Lavoro introduce le seguenti novità in tema di risarcimento del danno al lavoratore che abbia subito la stipula di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, in violazione delle norme vigenti.

In particolare, ai commi 5 e ss., rectius il comma 5 dispone che «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al solo risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».

Il comma 6 contempla le ipotesi di riduzione dell’indennità, a tal fine disponendo che «in presenza di contratti o accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto della metà».

Infine il comma 7 dispone che «quanto statuito nei due commi precedenti trova applicazione rispetto a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge” con la specificazione per cui, in riferimento a questi ultimi, rectius i giudizi pendenti, e “ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 del codice di procedura civile».

Recentemente, alcuni giudici di merito si sono pronunciati sull’applicazione - ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore e cioè alla data del 24 novembre 2010 - della disposizione di cui all’art. 32, comma 5 e ss. della Legge, nella parte in cui prevede che «nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604».

La previsione dell’art. 32, comma 5 e ss. della L. n. 183/2010 – cd. Collegato Lavoro – ha di fatto posto altri problemi interpretativi.

In particolare, anche da quanto è emerso da parte dei primi commenti, è dubbio se il legislatore abbia voluto considerare l’indennità risarcitoria:

- sostitutiva della conversione del rapporto di lavoro e di ogni indennità risarcitoria ad essa connessa: interpretazione che non pare supportata né dalla lettera della norma che parla espressamente di «casi di conversione del contratto a tempo determinato» aggiungendo poi l’indennità risarcitoria, né dal confronto con la simile previsione di cui all’art. 50 della Legge per i contratti di collaborazione a progetto;

- alternativa rispetto alle retribuzioni perse nel periodo intercorrente tra la data di cessazione del rapporto – o di messa in mora del datore di lavoro - e la data della riammissione in servizio, ferma restando la conversione del rapporto a tempo indeterminato;

- aggiuntiva rispetto sia alla conversione del rapporto di lavoro, sia alle retribuzioni perse.

Una prima interpretazione del detto impianto normativo è offerta dal Tribunale di Busto Arsizio, che con la sentenza del 29 novembre 2010 n. 528, sostiene un’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme al diritto comunitario dell’art. 32, co. 5, L. 183/2010, la quale imporrebbe di ritenere l’indennità prevista una forma di tutela "aggiuntiva" e non "alternativa" a quella ordinaria risarcitoria.

Ne discende che alla mancata indicazione, in forma scritta, delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che giustificano il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato dovrebbero conseguire: 1) la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con riammissione in servizio del lavoratore vittorioso; 2) il pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni non percepite dalla messa in mora sino alla effettiva riammissione in servizio; 3) la corresponsione della nuova indennità introdotta dalla L. 183/2010.

Viceversa il Tribunale Milano, Sez. Lavoro, 29 novembre 2010 - sentenze nn. 4966 e 4971, in considerazione di un’interpretazione letterale della norma, che qualifica l’indennità risarcitoria come onnicomprensiva, ritiene che la stessa dovrebbe intendersi inclusiva di ogni risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.

A questo va aggiunto poi che i dubbi di legittimità costituzionale che hanno coinvolto la disposizione di cui all’art. 4-bis del D.Lgs. n. 368/2001, sono stati appena riproposti anche con riferimento alla disposizione di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7 della L. n. 183/2010.

Da ultimo, il Giudice del Tribunale di Trani ha sollevato la questione di legittimità delle disposizioni appena indicate con riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost. principalmente per la disparità di trattamento che verrebbe a determinarsi per effetto della previsione di un’indennità omnicomprensiva diretta a “contenere le lungaggini del processo” per non parlare della perdita del diritto alla ricostruzione previdenziale del rapporto di lavoro.

Altra pronuncia[12] ha ravvisato un utile parametro di quantificazione nell’articolo 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, evidenziando che la norma, ancorché non direttamente applicabile al lavoro pubblico per il quale la conversione è esclusa, ha il pregio:

a) di evitare l’incertezza del diritto derivante dall’applicazione di regimi di tutela differenziati sul territorio nazionale, a seconda delle opzioni esegetiche privilegiate dal singolo interprete (20 mensilità, regime di tutela obbligatoria, criterio delle ricostruzione della carriera);

b) di assicurare il tendenziale rispetto del principio di equivalenza, garantendo al lavoratore pubblico una forma di tutela non meno favorevole, sub specie danni, rispetto ad altre forme di tutela che lo stesso legislatore nazionale ha adottato per il lavoro privato;

c) di consentire al giudice di personalizzare e graduare la sanzione risarcitoria tenendo conto delle peculiari circostanze del caso concreto sottoposto al suo vaglio[13].

IL SISTEMA INDENNITARIO. BREVI NOTE SULLA SENTENZA 8 NOVEMBRE 2011, N. 17966 DEL TRIBUNALE DI ROMA, SEZIONE LAVORO

Infine, il Tribunale del Lavoro capitolino ha consolidato quella prospettazione interpretativa che individua nel sistema dell’indennizzo il rimedio più adatto a sanzionare il ricorso illecito ad una serie di contratti di lavoro a termine da parte della P.A.

Il Giudice del Tribunale di Roma, premettendo che nel pubblico impiego il lavoratore assunto con contratto a termine illegittimo non possa aspirare alla trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, questi in ogni caso abbia diritto al risarcimento del danno.

Si osservi preliminarmente che nell’impiego privato la stipula di un contratto individuale a tempo determinato che risulti essere illegittimo cagiona al lavoratore un danno immediato, consistente nel fatto che il contratto a termine si è posto come alternativa al contratto a tempo indeterminato, per cui se il datore di lavoro non avesse apposto la clausola, poi rivelatasi illegittima, il lavoratore sarebbe stato assunto con contratto a tempo indeterminato.

In questo caso, l’ammontare del danno risarcibile è immediatamente individuabile, in quanto è rappresentato dalle retribuzioni non godute dal lavoratore dalla illegittima cessazione del rapporto di lavoro al ripristino dello stesso.

Se ciò è assumibile per il rapporto di lavoro privato, per quanto riguarda il lavoro pubblico la regola base secondo cui le assunzioni devono avvenire all’esito del superamento di un concorso, esclude la sussistenza del citato danno, poiché se il lavoratore non fosse stato assunto con l’illegittimo contratto a tempo, egli non avrebbe verosimilmente potuto stipulare un contratto a tempo indeterminato, dovendo prima superare una prova concorsuale.

Queste osservazioni hanno indotto parte della giurisprudenza a negare al lavoratore pubblico assunto con contratto a termine rivelatosi illegittimo ogni forma di risarcimento, sulla motivazione, per la verità suscettibile di molte critiche, dell’insussistenza di un danno subito.

La gran parte della giurisprudenza, più accorta e sensibile al problema, ha osservato che la conclusione dinanzi nominata, seppure coerente con i principi in materia di risarcibilità del danno, contrasta profondamente con l’impostazione rappresentata dalla Corte di Giustizia Europea, la quale sostanzialmente configura il risarcimento del danno più come una sanzione per l’amministrazione, avente un valore deterrente, che come un diretto ristoro per il lavoratore.

Così, il Giudice romano, più che andare alla ricerca di elementi che consentono di quantificare il danno, ha considerato più opportuno «individuare un sistema indennitario che da un lato si ponga come deterrente per l’amministrazione dallo stipulare contratti a termie illegittimi, dall’altro possa costituire un ristoro per il lavoratore senza fare gravare su di lui l’onere di provare il danno subito»[14].

Secondo questa prospettazione interpretativa, che appare conforme agli obiettivi prefissati dalla Corte di Strasburgo, il danno lamentato è in re ipsa, e non avrebbe bisogno di essere provato in giudizio, con ciò non volendosi aggravare l’onere di allegazione da parte del ricorrente.

In tal caso, con una decisione lineare ed equilibrata il Giudice, pur escludendo la stabilizzazione, ha inteso apprestare una tutela realmente avanzata all’illecito subito dal lavoratore, rappresentato dall’aver subito la stipulazione di un contratto di cui è stata dichiarata l’illegittimità per contrarietà a norme imperative.

Quanto al parametro di riferimento per la quantificazione del danno da abusiva reiterazione di contratti di lavoro a termine, la sentenza romana afferma che un utile parametri di riferimento possa rinvenirsi nell’art. 32, comma 5, della legge 183/2010.

L’affermazione più avvincente della decisione in analisi, è rappresentata dal fatto che il Giudice, pur rilevando che la norma non sia direttamente applicabile al lavoro pubblico, per il quale, come visto, la conversione è esclusa, la stessa introduce una forfetizzazione del danno subito dal lavoratore in ipotesi di illegittima apposizione del termine, che prescinde dalla prova della effettiva sussistenza di un danno – tanto che la norma prevede che in luogo del risarcimento venga stabilita una indennità – essa costituisce un valido parametro per la liquidazione del danno in esame.

Invero, nel momento in cui il legislatore ha determinato le conseguenze economiche derivanti dall’illegittima apposizione del termine nel campo privato, tali conseguenze possono essere mutuate anche per il settore del pubblico impiego, con un’operazione di analogia che appare non censurabile ed opportuna in considerazione del caso affrontato.

Infatti, l’applicazione del detto sistema indennitario consente di assicurare il tendenziale rispetto del principio di equivalenza, più volte affermato dalla Corte di Giustizia, in quanto garantisce al lavoratore pubblico una forma di tutela patrimoniale non meno favorevole rispetto ad altre forme di tutela che lo stesso legislatore nazionale ha adottato in situazioni analoghe nel lavoro privato.

A parere si chi scrive, il sistema da ultimo menzionato appare, tra i tanti cui si è fatto riferimento, uno dei più duttili e capaci di rendere giustizia ai lavoratori precari del settore pubblico. Si potrebbe altresì osservare che si tratta di una prospettiva nuova di concepire la misura del risarcimento danni nel nostro sistema: il concetto del punitive damage non è consueto nell’ordinamento italiano (seppur parte della dottrina sostiene il contrario), tuttavia, il riferimento a questo modo di intendere il risarcimento è inevitabile, nelle problematiche in evidenza.

Solo in questo modo, il risarcimento del danno diventa una misura alternativa alla stabilizzazione, proporzionata, effettiva ma, soprattutto, dissuasiva nei confronti delle pratiche tendenti alla contrattualizzazione a tempo, così come imposto anche dal Giudice comunitario.

D’altro canto, solamente la previsione del risarcimento del danno da ingresso nel sistema ad una concreta alternativa alla stabilizzazione del rapporto di lavoro.

In conclusione, l’utilizzo dell’impianto previsto dall’articolo 32, comma 5, della legge 183/2010 consente al Giudice di graduare la sanzione risarcitori tenendo conto delle peculiari circostanze del caso concreto.

In particolare, anche tenendo conto dei criteri più volte predicati anche dalla Corte di Giustizia per sottoporre ad analisi un rapporto di lavoro a termine e valutarne l’eventuale illegittimità, il risarcimento andrebbe calcolato tenendo conto della durata complessiva dei rapporti a termine, del numero dei contratti a termine illegittimi nonché della tipologia dei contratti.

È auspicabile che, in considerazione degli approdi più recenti della dottrina e della giurisprudenza, il divieto di stipulare una serie di contratti a termine divenga una regola, e che il sistema sanzionatorio rinvenibile dalla lettura delle disposizioni presenti nel D.Lgs. 165/2001 e nel D.Lgs. 368/2001 che riconosce il risarcimento dei danni subiti dal lavoratore[15], sia in grado di responsabilizzare maggiormente i dirigenti pubblici affinché sia garantita una efficace azione di prevenzione avverso l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato.



[1] Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 13 gennaio 2012, n. 382, che, nell’ambito dell’annoso dibattito sulla materia analizzata in questa sede, ha ribadito alcuni principi fondamentali, chiarendo che «l’art. 36 del D.Lgs 30 marzo2001, n. 165, nel riconoscere il ricorso al contratto a termine e ad altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico, ha valorizzato il ruolo della contrattazione collettiva con l’attribuire alla stessa una più accentuata rilevanza rispetto al passato, ma nello stesso tempo ha rimarcato l’innegabile differenza esistente tra forme contrattuali nell’area del pubblico impiego seppure privatizzato e quella del lavoro privato. Ne consegue che la suddetta norma si configura come speciale in ragione di un proprio e specifico regime sanzionatorio, che – per escludere la conversione in un contratto a tempo determinato e con il risultare funzionalizzato a responsabilizzare la dirigenza pubblica nel rispetto delle norme imperative in materia nonché a risarcire i danni che il lavoratore dimostri di aver subito per la violazione delle suddette norme – risulta alternativo a quello disciplinato dall’art. 5 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, escludendone in ogni caso l’applicazione». Ed ancora, secondo i Supremi Giudici, «la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia europea porta ad escludere nell’area del pubblico impiego seppure privatizzato, l’applicazione dell’art. 5, D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 368, dal momento che nel nostro assetto ordinamentale si rinviene, con le disposizioni di cui all’art. 36 del D.Lgs. 5 settembre 2001, n. 165, un sistema sanzionatorio capace – in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni in concreto subiti dal lavoratore – di prevenire, dapprima, e sanzionare, poi, in forma adeguata l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato».

[2] La direttiva comunitaria, 1999/70/CE, recependo l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso dalle organizzazioni europee delle parti sociali Ceep, Ces ed Unice, si propone di realizzare due obiettivi coniugandoli in un principio di fondo. Infatti, si impone allo Stato membro di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il principio di non discriminazione, e di creare un quadro normativo per la prevenzione di abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, ma ciò senza ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori a termine nell’ambito coperto dall’accordo stesso (c.d. clausola di non regresso).

[3] Cfr. De Michele V., Contratto a termine e precariato, Ipsoa, Milano, 2009.

[4] Cfr. art. 5 del D. Lgs. 3682001, comma 4-bis, «ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2».

[5] Cfr. Corte di Giustizia, sent. 7 settembre 2006, C-53/04, cit.

[6] Cfr. Corte di Giustizia, sent. 1 ottobre 2010, C-3/10, Affatato, n. 49, ripresa recentissimamente anche da C. Cass., Sez. Lav., 13 gennaio 2012, n. 392.

[7] Cfr. Di Paola L. e Fedele I., Il contratto di lavoro a tempo determinato, Giuffré, 2011, secondo i quali, la formula contenuta nell’art. 1, D.lgs. n.368/2001, secondo cui nel lavoro pubblico il ricorso al contratto a termine è giustificato solo da esigenze «temporanee ed eccezionali», dimostra chiaramente la volontà del legislatore di voler disincentivare il ricorso alla flessibilità in entrata nel settore pubblico.

[8] Cfr. Garilli A., Il contratto a termine nel lavoro pubblico, Giappichelli, 2009.

[9] Cfr. Ex multis, Tribunale di Foggia, 5 novembre 2009; Tribunale d Napoli 25 febbraio 2008; C. App. Genova, 19.11.2008; Tribunale Genova, 14 maggio 2007.

[10] Cfr. Tribunale di Milano, sez. lavoro, sent 25 maggio 2010.

[11] Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 13 gennaio 2012, n. 382, cit.

[13] Cfr. Tribunale di Treviso, Sez. Lavoro, 28 gennaio 2010.

[14] Cfr. Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, sentenza 8 novembre 2011, n. 17966. Detto orientamento era stato già accolto in precedenza e, segnatamente, dalla sentenza n. 385/2009, emessa dal Tribunale di Viterbo, in funzione di Giudice del Lavoro, con il giudicante ha riconosciuto «al risarcimento previsto dall’art. 36 natura indennitaria, fondata sulla presunzione legale del danno conseguente alla impossibilità di prosecuzione del rapporto dovuta al divieto di conversione del rapporto. Ad esso va, inoltre, riconosciuto carattere automatico essendo previsto in ogni caso, per il solo fatto della violazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori. Dunque, ogni qualvolta la prestazione lavorativa sia resa in violazioni di dette disposizioni la situazione concreta appare più facilmente assimilabile a quella disciplinata dall’art. 8 della L. 604/1966 in cui, a fronte, della accertata illegittimità della risoluzione, l’unica tutela accordata è quella obbligatoria che garantisce il diritto all’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento ed alle condizioni delle parti».

[15] Cfr. Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 13 gennaio 2012, n. 382, cit.