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L’in house nel ddl AS772 (anche dopo gli emendamenti del governo), il "controllo analogo" e l’art. 218 del Codice dei Contratti: c’è qualcosa che non va?

Il presente scritto mira a porre in luce un particolare aspetto della riforma che (forse) si appresta a entrare in vigore. Un aspetto che, invero, non è del tutto innovativo se si considera quale sia, allo stato, l’atteggiarsi della giurisprudenza amministrativa nei confronti del meccanismo dell’in house.

In ogni caso, per obbligo di chiarezza espositiva – e anche in considerazione del fatto che non verrà di seguito trattata in modo esaustivo l’intera e complessa vicenda dell’in house – sembra opportuno chiarire fin da subito che l’oggetto della presente analisi consiste in un parallelismo fra le ipotesi di legittimo affidamento diretto nei sevizi pubblici locali e negli appalti pubblici. Infatti, a parere di chi scrive, nel confrontare i testi normativi di riferimento (e quello relativo alla disciplina dei servizi pubblici locali come necessariamente integrato dalla giurisprudenza amministrativa) sembra sussistere una qual certa asincronia nel tessuto normativo.

Detto ciò, conviene prendere le mosse dalla constatazione che, come è noto, è all’ordine del giorno un (ennesimo) tentativo di riforma del settore dei sevizi pubblici locali.

Senza qui ripercorrere l’intera vicenda – e non certo definitivamanete conclusa - relativa all’esatta definizione della locuzione “servizio pubblico locale”, pare opportuno limitarsi a ricordare che la materia, attualmente, è regolata in via generale dagli artt. 112 e ss del decreto legislativo n. 267/2000 e dalle non poche disposizioni normative di settore.

In particolare, è di centrale rilievo la disposizione di cui all’art. 113, comma 5, del citato decreto legislativo, laddove sono individuate le forme di affidamento della titolarità del servizio pubblico locale.

Sul punto, è noto come a seguito delle ultime modificazioni al tessuto normativo intervenute nel corso del 2003 siano adesso possibili (in via generale e salvo deroghe relative a settori specifici) tre modalità distinte di affidamento: l’affidamento tramite gara ad evidenza pubblica; l’affidamento diretto a una società mista pubblico-privata in cui il socio privato sia stato scelto con gara; l’affidamento diretto a un soggetto dotato di particolari requisiti e legato da un vincolo assai stretto con l’amministrazione che affida il servizio.

Se questo il dato normativo di stretto diritto positivo derivante dall’art. 113 citato, deve tuttavia subito evidenziarsi come per le ultime due ipotesi di affidamento indicate, la giurisprudenza ha giocato - e continua a giocare - un ruolo determinante per la concreta individuazione delle ipotesi in cui sia ammessa (in quanto compatibile con l’ordinamento comunitario e con l’ordinamento nazionale[1]) una modalità di esternalizzazione del servizio che non preveda il ricorso a procedure a evidenza pubblica.

Sul punto, deve infatti essere segnalato come sia in ordine alla possibilità di affidamento a società mista, sia in ordine alla possibilità di affidamento in house, la giurisprudenza interna ha avuto modo di precisare alcuni importanti elementi.

In primo luogo – e in via di inciso – non è possibile omettere di ricordare come il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana - sez. giurisdizionale, con pronuncia del 27 ottobre 2006, n. 589, dopo aver ricostruito i principi di diritto comunitario relativi all’obbligo di evidenza pubblica anche in tema di servizi pubblici locali, abbia testualmente ritenuto che “In relazione a tali principi sembra doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113 comma 5 lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio. Nel diritto comunitario, quanto alle società miste, dunque sembrano evidenziarsi come necessarie le due gare."

Detto ciò – e quindi evidenziato come sia la normativa oggi in vigore, sia pure quella in corso di emanazione, non risulterebbero, almeno nell’ottica del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in linea con il diritto comunitario – appare opportuno concentrarsi sulla terza modalità di affidamento: il c.d. in house.

Sul punto, l’art. 113, comma 5, testualmente recita: “L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio…c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.”[2]

Ciò su cui ci si intende concentrare in questa sede è un particolare passaggio della disposizione: ossia il passaggio in cui il legislatore, utilizzando i termini “enti” e “partecipano” sembra alludere alla possibilità – o comunque apre alla possibilità di interpretare la norma nel senso - che il soggetto destinatario dell’affidamento possa essere compartecipato da più enti locali. E ciò con un’importante conseguenza sotto il profilo dell’analisi del requisito del “controllo analogo”. Potrebbe infatti ritenersi – e secondo chi scrive non a torto – che il controllo analogo, in ipotesi di più enti compartecipanti, possa essere congiunto. In altri termini, posto che l’unica logica spiegazione della partecipazione di un ente locale a un soggetto societario destinato a gestire servizi pubblici è quella di poter affidare a quel soggetto la titolarità della gestione, se tale soggetto societario – come il testo dell’art. 113 comma 5 lett. c) dà atto – può essere partecipato da più enti locali, l’unica ipotesi in cui tutti gli enti locali soci possano affidare direttamente la gestione dei propri servizi è quella in cui tutti siano in una situazione di controllo analogo. Ma ciò è evidentemente impensabile se non addivenendo a una nozione di controllo congiunto (nonché interpretando in questa ottica anche l’ulteriore passaggio della disposizione, relativo allo svolgimento di attività principalmente per il soggetto - o i soggetti - che lo controllano).

Ma proprio questa prospettazione, che – si ripete – il testo della disposizione, per le parole utilizzate, rende non solo possibile, ma quasi necessaria, è tendenzialmente limitata, perlomeno sotto il profilo concreto-operativo, dalla giurisprudenza degli organi di giustizia amministrativa. Ancora recentemente, è stato infatti evidenziato come “In presenza di più enti proprietari di una società in house providing, ipotesi del resto espressamente contemplata dalla legge, occorre invece ricercare un equilibrio che direttamente nella composizione e nel funzionamento degli organi societari possa consentire anche ai Comuni di minoranza di poter efficacemente gestire il servizio e ciò sia attraverso un’attività di vero e proprio controllo - intesa come verifica periodica dell’andamento della gestione - sia mediante la previsione di efficaci poteri decisionali tesi ad assicurare il regolare svolgimento del servizio pubblico locale di cui i predetti enti proprietari restano sempre i titolari e come tali responsabili.” (T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 13 settembre 2006 , n. 8055).

Al riguardo, preme ricordare che, nell’ottica della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee l’in house è legittimo solo in ragione del fatto che fra soggetto concedente e soggetto concessionario[3] sussista un legame tale da escludere in radice la sussistenza un rapporto negoziale fra i due. Vi è cioè un affidamento in house solo se concedente e concessionario, al di là delle forme giuridiche adottate, nella sostanza costituiscano un unico centro decisionale.

Alla luce di tale presupposta considerazione, secondo la giurisprudenza interna, non sarebbe qualificabile un legittimo affidamento in house laddove un ente locale non possieda strumenti tali da “dirigere” la volontà del concessionario.

In assenza di ciò, infatti, difetterebbe il necessario requisito del controllo analogo richiesto dalla giurisprudenza comunitaria (prima) e dall’art. 113 (di conseguenza) del decreto legislativo n. 267/2000.

Sembra possibile selezionare due distinti ordini di problemi: in primo luogo, quello della comprensione di come sia possibile qualificare un controllo analogo in ipotesi di più enti proprietari; in secondo luogo, e più in generale, come sia possibile ottenere un controllo diverso e ulteriore rispetto a quello che il diritto comune garantisce al soco di maggioranza di una società di capitali.

Proprio sul primo aspetto della vicenda appena sopra descritto, il disegno di legge delega (anche a seguito degli emendamenti governativi) sembra andare in una precisa e drastica direzione. Dispone infatti l’art. 2, lett. b) del ddl di “consentire, in deroga all’ipotesi di cui alla lettera a) e nelle situazioni che, per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non consentono un efficace ed utile ricorso al mercato, l’affidamento a società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione in house e, in particolare, che svolga la parte prevalente della sua attività in favore dell’ente proprietario e nei confronti della quale quest’ultimo eserciti un controllo analogo a quello che esercita nei confronti dei propri uffici”. Il mutamento di prospettiva rispetto al dato positivo oggi in vigore è evidente: viene infatti utilizzato il singolare, in luogo del plurale, per definire il soggetto controllante. Da ciò, probabilmente, l’allineamento del legislatore a quell’idea che, in radice, esclude la possibilità di un controllo congiunto.

Ma vi è di più. È infatti noto come anche sotto il profilo della definizione del “controllo analogo” la giurisprudenza amministrativa sia giunta a ritenere che i meri strumenti di controllo derivanti dall’essere l’ente locale finanche socio unico dell’affidatario non integrano quel grado di “controllo” tale da consentire l’applicabilità dell’in house. In altri termini, anche nell’ipotesi del controllo al 100% di una società per azioni da parte di un ente locale, tale ente locale – in assenza di altri strumenti (che non sembrano essere stati ancora delineati dalla giurisprudenza) di controllo, diversi da quelli del tutto civilistici, propri del socio di maggioranza – non può eludere il rispetto dell’obbligo dell’evidenza pubblica.

Così sinteticamente ricostruita la questione nel diritto vigente, appare a questo punto imprescindibile uno sguardo al diritto comunitario. E ciò per due fondamentali ragioni: da un lato è il diritto comunitario che ha imposto il rispetto dell’evidenza pubblica in relazione alla contrattualistica pubblica e alla gestione dei servizi pubblici locali (o, nel lessico comunitario, servizi di interesse generale); dall’altro lato, è sempre il diritto comunitario che ha individuato delle eccezioni all’obbligo dell’evidenza pubblica (e, ovviamente, l’eccezione che più interessa in questa sede è quella dell’in house providing.

Detto ciò, non sembra possibile eludere un’ulteriore considerazione: il settore degli appalti pubblici e quello dei servizi pubblici locali devono entrambi rispettare la disciplina contenuta nel Trattato CE agli artt. 82 e ss. in tema di tutela della concorrenza.

Tuttavia, fra i due settori sussiste un’importante distinzione (a tacer della diversa natura giuridica dei rapporti posti in essere dalle parti: contrattuale, in tema di appalto; concessorio, in tema di servizi pubblici locali): solo in tema di appalti pubblici il diritto comunitario è sfociato in disposizioni di diritto derivato.

Come è noto, le Direttive n. 17 e n. 18 del 2004, recepite con decreto legislativo 163/2006, hanno fornito un compiuto insieme normativo volto a sostituire integralmente la frastagliata disciplina previdente.

Ma, pur nell’ottica di accorpare in un unico testo normativo le disposizioni rilevanti in tema di appalti pubblici, il legislatore comunitario ha mantenuto la distinzione fra settori ordinari e settori speciali (distinzione confluita anche nel decreto legislativo 163/2006, laddove ai settori ordinari è dedicata la Parte II, mentre ai settori speciali la Parte III del “Codice”).

E fra le disposizioni applicabili alla sola parte III del Codice, ossia ai soli appalti banditi in tema di settori speciali, è inserito l’art. 218, che, per comodità di lettura, si riporta in nota[4].

Ebbene tale disposizione, del tutto inequivocabilmente consente a che più stazioni appaltati affidino in via diretta a un soggetto da loro partecipato l’esecuzione di un contatto di appalto. E ciò avviene solo in un particolare ambito, quello dei settori speciali.

Cercando allora di ricondurre a sistema i molti dati accostati durante questa esposizione, non può non rilevarsi come quelli che nell’ambito della legislazione in tema di appalti pubblici sono definiti settori speciali sono, in definitiva, il tipico terreno su cui si muovono i gestori di sevizi pubblici. Ed infatti, pressoché tutti i contratti di appalto stipulati in diretta relazione alla gestione di sevizi pubblici ricadono nell’ambito dei settori speciali.

A questo punto sembra necessaria un’ultima considerazione: nell’ottica comunitaria, come è evidente dalla disciplina recepita con l’art. 218 del Codice e come è evidente fin dalla fondamentale pronuncia Teckal (il cui testuale contenuto è stato traslato nell’attuale art. 113 comma 5, lett. c) TUEL) vi può essere un controllo analogo congiunto e, anzi, in tema di appalti, è sufficiente la partecipazione di enti locali (o comunque di soli amministrazioni pubbliche) affinché in alcuni settori, quelli speciali, sia possibile la deroga all’evidenza pubblica.

Da tutto ciò, a chi scrive, sembra evidente che il testo del disegno di legge delega per la riforma dei servizi pubblici locali abbia erroneamente omesso di considerare che il diritto comunitario, in tema di affidamento diretto, non solo consente il controllo congiunto, ma talora ne prescinde completamente, limitandosi a richiedere la partecipazione alla società affidataria.

Se ciò è vero, è tuttavia possibile sostenere che il legislatore interno potrebbe ridurre ulteriormente l’ambito di applicazione delle deroghe all’obbligo dell’evidenza pubblica. Potrebbe cioè approntare un tessuto normativo che, nel suo insieme, sia più rigido e inflessibile di quello comunitario, e che quindi escluda in radice qualsiasi affidamento diretto (o anche, addirittura, escluda pure qualsiasi forma di gestione in economia).

Ma nel far ciò, il legislatore interno, non dovrebbe – o forse, meglio, non può – emanare disposizioni logicamente contrastanti fra loro. Vero cioè che il legislatore può andare oltre il diritto comunitario imponendo meccanismi volti a implementare la concorrenza nei settori degli appalti e dei servizi pubblici locali, è tuttavia altrettanto vero che quantomeno i principi di ragionevolezza e di proporzionalità dovrebbero limitare il legislatore stesso, impedendo l’emanazione di disposizione normative logicamente inconciliabili fra loro.

Ma ciò sembra invece quello che sta avvenendo: neppure è trascorso un anno dall’entrata in vigore dell’art. 218 del Codice e le disposizioni in tema di servizi pubblici in fase di emanazione appaiono del tutto inconciliabili con l’ampia libertà lasciata alle stazioni appaltanti operanti nei settori speciali di affidare direttamente l’esecuzione di contratti di appalto relativi, per lo più, alla gestione di servizi pubblici.

Alla luce delle considerazioni svolte, credo sia inevitabile ritenere che non poca incoerenza contraddistingua il tessuto normativo interno, soprattutto se verrà approvato il disegno di legge delega in commento che sembra ammettere l’affidamento in house solo laddove vi sia un unico “ente proprietario”, a fronte di una disposizione, l’art. 218 del decreto legislativo 163/2006, che addirittura presuppone una pluralità di amministrazioni compartecipanti della società comune, nessuna delle quali in una situazione di “controllo analogo”.



[1] Si precisa che il riferimento al concetto di ordinamento comunitario, come entità diversa e distinguibile da quella di ordinamento interno, è utilizzata nel testo al solo fine di rendere maggiormente agevole la lettura, e quindi non in modo impegnativo in ordine all’individuazione del rapporto sussistente fra ambito normativo nazionale e ambito normativo comunitario.

[2] Preme ricordare fin da ora che tale disposizione ripropone quasi testualmente un noto passaggio della fondamentale sentenza Teckal: Corte di Giustizia CE, 18 novembre 1999, causa C-107/98.

[3] Ma soprattutto – seppure qui non di rilievo – fra stazione appaltante e appaltatore.

[4] Art. 218. Appalti aggiudicati ad un’impresa comune avente personalità giuridica o ad un’impresa collegata

(art. 23, dir. 2004/17; art. 18, d.lgs. n. 158/1995)

1. Ai fini del presente articolo «impresa collegata» è qualsiasi impresa i cui conti annuali siano consolidati con quelli dell’ente aggiudicatore a norma degli articoli 25 e seguenti del decreto legislativo 9 aprile 1991, n. 127, o, nel caso di enti non soggetti a tale decreto, qualsiasi impresa su cui l’ente aggiudicatore possa esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante ai sensi dell’articolo 3, comma 28 del presente codice o che possa esercitare un’influenza dominante sull’ente aggiudicatore o che, come quest’ultimo, sia soggetta all’influenza dominante di un’altra impresa in virtù di rapporti di proprietà, di partecipazione finanziaria ovvero di norme interne.

2. Alle condizioni previste dal successivo comma 3, il presente codice non si applica agli appalti stipulati:

a) da un ente aggiudicatore con un’impresa collegata,

o

b) da una associazione o consorzio o da una impresa comune aventi personalità giuridica, composti esclusivamente da più enti aggiudicatori, per svolgere un’attività ai sensi degli articoli da 208 a 213 del presente codice con un’impresa collegata a uno di tali enti aggiudicatori.

3. Il comma 2 si applica:

a) agli appalti di servizi purché almeno l’80% del fatturato medio realizzato dall’impresa collegata negli ultimi tre anni nel campo dei servizi provenga dalla fornitura di tali servizi alle imprese cui è collegata;

b) agli appalti di forniture purché almeno l’80% del fatturato medio realizzato dall’impresa collegata negli ultimi tre anni nel campo delle forniture provenga dalla messa a disposizione di tali forniture alle imprese cui è collegata;

c) agli appalti di lavori, purché almeno l’80% del fatturato medio realizzato dall’impresa collegata negli ultimi tre anni nel campo dei lavori provenga dall’esecuzione di tali lavori alle imprese cui è collegata.

Se, a causa della data della costituzione o di inizio dell’attività dell’impresa collegata, il fatturato degli ultimi tre anni non è disponibile, basta che l’impresa dimostri, in base a proiezioni dell’attività, che probabilmente realizzerà il fatturato di cui alle lettere a), b) o c) del comma 3. Se più imprese collegate all’ente aggiudicatore forniscono gli stessi o simili servizi, forniture o lavori, le suddette percentuali sono calcolate tenendo conto del fatturato totale dovuto rispettivamente alla fornitura di servizi, forniture o lavori da parte di tali imprese collegate.

4. La presente parte non si applica, inoltre, agli appalti aggiudicati:

a) da un’associazione o consorzio o da un’impresa comune aventi personalità giuridica, composti esclusivamente da più enti aggiudicatori, per svolgere attività di cui agli articoli da 208 a 213, a uno di tali enti aggiudicatori,

oppure

b) da un ente aggiudicatore ad una associazione o consorzio o ad un’impresa comune aventi personalità giuridica, di cui l’ente faccia parte, purché l’associazione o consorzio o impresa comune siano stati costituiti per svolgere le attività di cui trattasi per un periodo di almeno tre anni e che il loro atto costitutivo preveda che gli enti aggiudicatori che la compongono ne faranno parte per almeno lo stesso periodo.

5. Gli enti aggiudicatori notificano alla Commissione, su sua richiesta, le seguenti informazioni relative all’applicazione delle disposizioni dei commi 2, 3 e 4:

a) i nomi delle imprese o delle associazioni, raggruppamenti, consorzi o imprese comuni interessati;

b) la natura e il valore degli appalti considerati;

c) gli elementi che la Commissione può giudicare necessari per provare che le relazioni tra l’ente aggiudicatore e l’impresa o l’associazione o il consorzio cui gli appalti sono aggiudicati rispondono agli obblighi stabiliti dal presente articolo.

Il presente scritto mira a porre in luce un particolare aspetto della riforma che (forse) si appresta a entrare in vigore. Un aspetto che, invero, non è del tutto innovativo se si considera quale sia, allo stato, l’atteggiarsi della giurisprudenza amministrativa nei confronti del meccanismo dell’in house.

In ogni caso, per obbligo di chiarezza espositiva – e anche in considerazione del fatto che non verrà di seguito trattata in modo esaustivo l’intera e complessa vicenda dell’in house – sembra opportuno chiarire fin da subito che l’oggetto della presente analisi consiste in un parallelismo fra le ipotesi di legittimo affidamento diretto nei sevizi pubblici locali e negli appalti pubblici. Infatti, a parere di chi scrive, nel confrontare i testi normativi di riferimento (e quello relativo alla disciplina dei servizi pubblici locali come necessariamente integrato dalla giurisprudenza amministrativa) sembra sussistere una qual certa asincronia nel tessuto normativo.

Detto ciò, conviene prendere le mosse dalla constatazione che, come è noto, è all’ordine del giorno un (ennesimo) tentativo di riforma del settore dei sevizi pubblici locali.

Senza qui ripercorrere l’intera vicenda – e non certo definitivamanete conclusa - relativa all’esatta definizione della locuzione “servizio pubblico locale”, pare opportuno limitarsi a ricordare che la materia, attualmente, è regolata in via generale dagli artt. 112 e ss del decreto legislativo n. 267/2000 e dalle non poche disposizioni normative di settore.

In particolare, è di centrale rilievo la disposizione di cui all’art. 113, comma 5, del citato decreto legislativo, laddove sono individuate le forme di affidamento della titolarità del servizio pubblico locale.

Sul punto, è noto come a seguito delle ultime modificazioni al tessuto normativo intervenute nel corso del 2003 siano adesso possibili (in via generale e salvo deroghe relative a settori specifici) tre modalità distinte di affidamento: l’affidamento tramite gara ad evidenza pubblica; l’affidamento diretto a una società mista pubblico-privata in cui il socio privato sia stato scelto con gara; l’affidamento diretto a un soggetto dotato di particolari requisiti e legato da un vincolo assai stretto con l’amministrazione che affida il servizio.

Se questo il dato normativo di stretto diritto positivo derivante dall’art. 113 citato, deve tuttavia subito evidenziarsi come per le ultime due ipotesi di affidamento indicate, la giurisprudenza ha giocato - e continua a giocare - un ruolo determinante per la concreta individuazione delle ipotesi in cui sia ammessa (in quanto compatibile con l’ordinamento comunitario e con l’ordinamento nazionale[1]) una modalità di esternalizzazione del servizio che non preveda il ricorso a procedure a evidenza pubblica.

Sul punto, deve infatti essere segnalato come sia in ordine alla possibilità di affidamento a società mista, sia in ordine alla possibilità di affidamento in house, la giurisprudenza interna ha avuto modo di precisare alcuni importanti elementi.

In primo luogo – e in via di inciso – non è possibile omettere di ricordare come il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana - sez. giurisdizionale, con pronuncia del 27 ottobre 2006, n. 589, dopo aver ricostruito i principi di diritto comunitario relativi all’obbligo di evidenza pubblica anche in tema di servizi pubblici locali, abbia testualmente ritenuto che “In relazione a tali principi sembra doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113 comma 5 lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio. Nel diritto comunitario, quanto alle società miste, dunque sembrano evidenziarsi come necessarie le due gare."

Detto ciò – e quindi evidenziato come sia la normativa oggi in vigore, sia pure quella in corso di emanazione, non risulterebbero, almeno nell’ottica del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in linea con il diritto comunitario – appare opportuno concentrarsi sulla terza modalità di affidamento: il c.d. in house.

Sul punto, l’art. 113, comma 5, testualmente recita: “L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio…c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.”[2]

Ciò su cui ci si intende concentrare in questa sede è un particolare passaggio della disposizione: ossia il passaggio in cui il legislatore, utilizzando i termini “enti” e “partecipano” sembra alludere alla possibilità – o comunque apre alla possibilità di interpretare la norma nel senso - che il soggetto destinatario dell’affidamento possa essere compartecipato da più enti locali. E ciò con un’importante conseguenza sotto il profilo dell’analisi del requisito del “controllo analogo”. Potrebbe infatti ritenersi – e secondo chi scrive non a torto – che il controllo analogo, in ipotesi di più enti compartecipanti, possa essere congiunto. In altri termini, posto che l’unica logica spiegazione della partecipazione di un ente locale a un soggetto societario destinato a gestire servizi pubblici è quella di poter affidare a quel soggetto la titolarità della gestione, se tale soggetto societario – come il testo dell’art. 113 comma 5 lett. c) dà atto – può essere partecipato da più enti locali, l’unica ipotesi in cui tutti gli enti locali soci possano affidare direttamente la gestione dei propri servizi è quella in cui tutti siano in una situazione di controllo analogo. Ma ciò è evidentemente impensabile se non addivenendo a una nozione di controllo congiunto (nonché interpretando in questa ottica anche l’ulteriore passaggio della disposizione, relativo allo svolgimento di attività principalmente per il soggetto - o i soggetti - che lo controllano).

Ma proprio questa prospettazione, che – si ripete – il testo della disposizione, per le parole utilizzate, rende non solo possibile, ma quasi necessaria, è tendenzialmente limitata, perlomeno sotto il profilo concreto-operativo, dalla giurisprudenza degli organi di giustizia amministrativa. Ancora recentemente, è stato infatti evidenziato come “In presenza di più enti proprietari di una società in house providing, ipotesi del resto espressamente contemplata dalla legge, occorre invece ricercare un equilibrio che direttamente nella composizione e nel funzionamento degli organi societari possa consentire anche ai Comuni di minoranza di poter efficacemente gestire il servizio e ciò sia attraverso un’attività di vero e proprio controllo - intesa come verifica periodica dell’andamento della gestione - sia mediante la previsione di efficaci poteri decisionali tesi ad assicurare il regolare svolgimento del servizio pubblico locale di cui i predetti enti proprietari restano sempre i titolari e come tali responsabili.” (T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 13 settembre 2006 , n. 8055).

Al riguardo, preme ricordare che, nell’ottica della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee l’in house è legittimo solo in ragione del fatto che fra soggetto concedente e soggetto concessionario[3] sussista un legame tale da escludere in radice la sussistenza un rapporto negoziale fra i due. Vi è cioè un affidamento in house solo se concedente e concessionario, al di là delle forme giuridiche adottate, nella sostanza costituiscano un unico centro decisionale.

Alla luce di tale presupposta considerazione, secondo la giurisprudenza interna, non sarebbe qualificabile un legittimo affidamento in house laddove un ente locale non possieda strumenti tali da “dirigere” la volontà del concessionario.

In assenza di ciò, infatti, difetterebbe il necessario requisito del controllo analogo richiesto dalla giurisprudenza comunitaria (prima) e dall’art. 113 (di conseguenza) del decreto legislativo n. 267/2000.

Sembra possibile selezionare due distinti ordini di problemi: in primo luogo, quello della comprensione di come sia possibile qualificare un controllo analogo in ipotesi di più enti proprietari; in secondo luogo, e più in generale, come sia possibile ottenere un controllo diverso e ulteriore rispetto a quello che il diritto comune garantisce al soco di maggioranza di una società di capitali.

Proprio sul primo aspetto della vicenda appena sopra descritto, il disegno di legge delega (anche a seguito degli emendamenti governativi) sembra andare in una precisa e drastica direzione. Dispone infatti l’art. 2, lett. b) del ddl di “consentire, in deroga all’ipotesi di cui alla lettera a) e nelle situazioni che, per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non consentono un efficace ed utile ricorso al mercato, l’affidamento a società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per la gestione in house e, in particolare, che svolga la parte prevalente della sua attività in favore dell’ente proprietario e nei confronti della quale quest’ultimo eserciti un controllo analogo a quello che esercita nei confronti dei propri uffici”. Il mutamento di prospettiva rispetto al dato positivo oggi in vigore è evidente: viene infatti utilizzato il singolare, in luogo del plurale, per definire il soggetto controllante. Da ciò, probabilmente, l’allineamento del legislatore a quell’idea che, in radice, esclude la possibilità di un controllo congiunto.

Ma vi è di più. È infatti noto come anche sotto il profilo della definizione del “controllo analogo” la giurisprudenza amministrativa sia giunta a ritenere che i meri strumenti di controllo derivanti dall’essere l’ente locale finanche socio unico dell’affidatario non integrano quel grado di “controllo” tale da consentire l’applicabilità dell’in house. In altri termini, anche nell’ipotesi del controllo al 100% di una società per azioni da parte di un ente locale, tale ente locale – in assenza di altri strumenti (che non sembrano essere stati ancora delineati dalla giurisprudenza) di controllo, diversi da quelli del tutto civilistici, propri del socio di maggioranza – non può eludere il rispetto dell’obbligo dell’evidenza pubblica.

Così sinteticamente ricostruita la questione nel diritto vigente, appare a questo punto imprescindibile uno sguardo al diritto comunitario. E ciò per due fondamentali ragioni: da un lato è il diritto comunitario che ha imposto il rispetto dell’evidenza pubblica in relazione alla contrattualistica pubblica e alla gestione dei servizi pubblici locali (o, nel lessico comunitario, servizi di interesse generale); dall’altro lato, è sempre il diritto comunitario che ha individuato delle eccezioni all’obbligo dell’evidenza pubblica (e, ovviamente, l’eccezione che più interessa in questa sede è quella dell’in house providing.

Detto ciò, non sembra possibile eludere un’ulteriore considerazione: il settore degli appalti pubblici e quello dei servizi pubblici locali devono entrambi rispettare la disciplina contenuta nel Trattato CE agli artt. 82 e ss. in tema di tutela della concorrenza.

Tuttavia, fra i due settori sussiste un’importante distinzione (a tacer della diversa natura giuridica dei rapporti posti in essere dalle parti: contrattuale, in tema di appalto; concessorio, in tema di servizi pubblici locali): solo in tema di appalti pubblici il diritto comunitario è sfociato in disposizioni di diritto derivato.

Come è noto, le Direttive n. 17 e n. 18 del 2004, recepite con decreto legislativo 163/2006, hanno fornito un compiuto insieme normativo volto a sostituire integralmente la frastagliata disciplina previdente.

Ma, pur nell’ottica di accorpare in un unico testo normativo le disposizioni rilevanti in tema di appalti pubblici, il legislatore comunitario ha mantenuto la distinzione fra settori ordinari e settori speciali (distinzione confluita anche nel decreto legislativo 163/2006, laddove ai settori ordinari è dedicata la Parte II, mentre ai settori speciali la Parte III del “Codice”).

E fra le disposizioni applicabili alla sola parte III del Codice, ossia ai soli appalti banditi in tema di settori speciali, è inserito l’art. 218, che, per comodità di lettura, si riporta in nota[4].

Ebbene tale disposizione, del tutto inequivocabilmente consente a che più stazioni appaltati affidino in via diretta a un soggetto da loro partecipato l’esecuzione di un contatto di appalto. E ciò avviene solo in un particolare ambito, quello dei settori speciali.

Cercando allora di ricondurre a sistema i molti dati accostati durante questa esposizione, non può non rilevarsi come quelli che nell’ambito della legislazione in tema di appalti pubblici sono definiti settori speciali sono, in definitiva, il tipico terreno su cui si muovono i gestori di sevizi pubblici. Ed infatti, pressoché tutti i contratti di appalto stipulati in diretta relazione alla gestione di sevizi pubblici ricadono nell’ambito dei settori speciali.

A questo punto sembra necessaria un’ultima considerazione: nell’ottica comunitaria, come è evidente dalla disciplina recepita con l’art. 218 del Codice e come è evidente fin dalla fondamentale pronuncia Teckal (il cui testuale contenuto è stato traslato nell’attuale art. 113 comma 5, lett. c) TUEL) vi può essere un controllo analogo congiunto e, anzi, in tema di appalti, è sufficiente la partecipazione di enti locali (o comunque di soli amministrazioni pubbliche) affinché in alcuni settori, quelli speciali, sia possibile la deroga all’evidenza pubblica.

Da tutto ciò, a chi scrive, sembra evidente che il testo del disegno di legge delega per la riforma dei servizi pubblici locali abbia erroneamente omesso di considerare che il diritto comunitario, in tema di affidamento diretto, non solo consente il controllo congiunto, ma talora ne prescinde completamente, limitandosi a richiedere la partecipazione alla società affidataria.

Se ciò è vero, è tuttavia possibile sostenere che il legislatore interno potrebbe ridurre ulteriormente l’ambito di applicazione delle deroghe all’obbligo dell’evidenza pubblica. Potrebbe cioè approntare un tessuto normativo che, nel suo insieme, sia più rigido e inflessibile di quello comunitario, e che quindi escluda in radice qualsiasi affidamento diretto (o anche, addirittura, escluda pure qualsiasi forma di gestione in economia).

Ma nel far ciò, il legislatore interno, non dovrebbe – o forse, meglio, non può – emanare disposizioni logicamente contrastanti fra loro. Vero cioè che il legislatore può andare oltre il diritto comunitario imponendo meccanismi volti a implementare la concorrenza nei settori degli appalti e dei servizi pubblici locali, è tuttavia altrettanto vero che quantomeno i principi di ragionevolezza e di proporzionalità dovrebbero limitare il legislatore stesso, impedendo l’emanazione di disposizione normative logicamente inconciliabili fra loro.

Ma ciò sembra invece quello che sta avvenendo: neppure è trascorso un anno dall’entrata in vigore dell’art. 218 del Codice e le disposizioni in tema di servizi pubblici in fase di emanazione appaiono del tutto inconciliabili con l’ampia libertà lasciata alle stazioni appaltanti operanti nei settori speciali di affidare direttamente l’esecuzione di contratti di appalto relativi, per lo più, alla gestione di servizi pubblici.

Alla luce delle considerazioni svolte, credo sia inevitabile ritenere che non poca incoerenza contraddistingua il tessuto normativo interno, soprattutto se verrà approvato il disegno di legge delega in commento che sembra ammettere l’affidamento in house solo laddove vi sia un unico “ente proprietario”, a fronte di una disposizione, l’art. 218 del decreto legislativo 163/2006, che addirittura presuppone una pluralità di amministrazioni compartecipanti della società comune, nessuna delle quali in una situazione di “controllo analogo”.



[1] Si precisa che il riferimento al concetto di ordinamento comunitario, come entità diversa e distinguibile da quella di ordinamento interno, è utilizzata nel testo al solo fine di rendere maggiormente agevole la lettura, e quindi non in modo impegnativo in ordine all’individuazione del rapporto sussistente fra ambito normativo nazionale e ambito normativo comunitario.

[2] Preme ricordare fin da ora che tale disposizione ripropone quasi testualmente un noto passaggio della fondamentale sentenza Teckal: Corte di Giustizia CE, 18 novembre 1999, causa C-107/98.

[3] Ma soprattutto – seppure qui non di rilievo – fra stazione appaltante e appaltatore.

[4] Art. 218. Appalti aggiudicati ad un’impresa comune avente personalità giuridica o ad un’impresa collegata

(art. 23, dir. 2004/17; art. 18, d.lgs. n. 158/1995)

1. Ai fini del presente articolo «impresa collegata» è qualsiasi impresa i cui conti annuali siano consolidati con quelli dell’ente aggiudicatore a norma degli articoli 25 e seguenti del decreto legislativo 9 aprile 1991, n. 127, o, nel caso di enti non soggetti a tale decreto, qualsiasi impresa su cui l’ente aggiudicatore possa esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante ai sensi dell’articolo 3, comma 28 del presente codice o che possa esercitare un’influenza dominante sull’ente aggiudicatore o che, come quest’ultimo, sia soggetta all’influenza dominante di un’altra impresa in virtù di rapporti di proprietà, di partecipazione finanziaria ovvero di norme interne.

2. Alle condizioni previste dal successivo comma 3, il presente codice non si applica agli appalti stipulati:

a) da un ente aggiudicatore con un’impresa collegata,

o

b) da una associazione o consorzio o da una impresa comune aventi personalità giuridica, composti esclusivamente da più enti aggiudicatori, per svolgere un’attività ai sensi degli articoli da 208 a 213 del presente codice con un’impresa collegata a uno di tali enti aggiudicatori.

3. Il comma 2 si applica:

a) agli appalti di servizi purché almeno l’80% del fatturato medio realizzato dall’impresa collegata negli ultimi tre anni nel campo dei servizi provenga dalla fornitura di tali servizi alle imprese cui è collegata;

b) agli appalti di forniture purché almeno l’80% del fatturato medio realizzato dall’impresa collegata negli ultimi tre anni nel campo delle forniture provenga dalla messa a disposizione di tali forniture alle imprese cui è collegata;

c) agli appalti di lavori, purché almeno l’80% del fatturato medio realizzato dall’impresa collegata negli ultimi tre anni nel campo dei lavori provenga dall’esecuzione di tali lavori alle imprese cui è collegata.

Se, a causa della data della costituzione o di inizio dell’attività dell’impresa collegata, il fatturato degli ultimi tre anni non è disponibile, basta che l’impresa dimostri, in base a proiezioni dell’attività, che probabilmente realizzerà il fatturato di cui alle lettere a), b) o c) del comma 3. Se più imprese collegate all’ente aggiudicatore forniscono gli stessi o simili servizi, forniture o lavori, le suddette percentuali sono calcolate tenendo conto del fatturato totale dovuto rispettivamente alla fornitura di servizi, forniture o lavori da parte di tali imprese collegate.

4. La presente parte non si applica, inoltre, agli appalti aggiudicati:

a) da un’associazione o consorzio o da un’impresa comune aventi personalità giuridica, composti esclusivamente da più enti aggiudicatori, per svolgere attività di cui agli articoli da 208 a 213, a uno di tali enti aggiudicatori,

oppure

b) da un ente aggiudicatore ad una associazione o consorzio o ad un’impresa comune aventi personalità giuridica, di cui l’ente faccia parte, purché l’associazione o consorzio o impresa comune siano stati costituiti per svolgere le attività di cui trattasi per un periodo di almeno tre anni e che il loro atto costitutivo preveda che gli enti aggiudicatori che la compongono ne faranno parte per almeno lo stesso periodo.

5. Gli enti aggiudicatori notificano alla Commissione, su sua richiesta, le seguenti informazioni relative all’applicazione delle disposizioni dei commi 2, 3 e 4:

a) i nomi delle imprese o delle associazioni, raggruppamenti, consorzi o imprese comuni interessati;

b) la natura e il valore degli appalti considerati;

c) gli elementi che la Commissione può giudicare necessari per provare che le relazioni tra l’ente aggiudicatore e l’impresa o l’associazione o il consorzio cui gli appalti sono aggiudicati rispondono agli obblighi stabiliti dal presente articolo.