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La responsabilità dello spacciatore in caso di morte dell’assuntore di sostanza stupefacente

In ordine alla natura ed al criterio di imputazione della responsabilità per la morte o le lesioni non volute ai sensi dell’art. 586 cod. pen., sono ravvisabili in giurisprudenza ed in dottrina diversi orientamenti.

Come è noto, l’art. 586 cod. pen. (Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) dispone che

«Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate». L’art. 83 cod. pen. (Evento diverso da quello voluto dall’agente) a sua volta prevede che «Fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, se per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto si applicano le regole sul concorso dei reati».

Secondo un primo[1] e per lungo tempo assolutamente prevalente orientamento giurisprudenziale, morte e lesioni non volute devono essere imputate all’autore del delitto base doloso in virtù del solo nesso di causalità materiale. Sarebbe quindi superflua una indagine specifica sulla sussistenza, in concreto, degli estremi della colpa in relazione all’evento non voluto, essendo necessaria semplicemente l’indagine sulla condotta esecutiva del delitto doloso e l’accertamento che il nesso eziologico non sia stato spezzato da fattori eccezionali non ascrivibili all’agente ed al di fuori della sua sfera di controllo, e cioè da cause sopravvenute che siano state da sole sufficienti a determinare l’evento. L’art. 586, dunque, al pari della norma «generale» sull’aberratio delicti plurilesiva di cui all’art. 83, comma 2, prevederebbe una ipotesi di responsabilità oggettiva, ispirata alla regola del qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu, in forza della quale l’autore di un delitto deve rispondere oggettivamente per le conseguenze ulteriori non volute di tale delitto.

La teoria della responsabilità oggettiva e della sufficienza del solo nesso di causalità è stata applicata soprattutto in tema di morte conseguente alla cessione illecita di sostanze stupefacenti. Secondo la giurisprudenza dominante, invero, l’art. 586 può trovare applicazione nei confronti di colui che, a qualsiasi titolo illecito, cede una sostanza stupefacente (così integrando il delitto di cui all’art. 73 d.p.R. 309 del 1990) in caso di morte del cessionario intervenuta a seguito della assunzione della sostanza ceduta. In questa ipotesi, lo spacciatore risponderebbe a titolo di responsabilità oggettiva, e sarebbe quindi sufficiente la prova del nesso di causalità materiale fra la precedente condotta e l’evento morte, non interrotto da cause sopravvenute di carattere eccezionale, mentre non occorrerebbe espletare alcuna indagine sull’esistenza della colpa, la cui presenza non sarebbe necessaria. In particolare, in caso di successive, plurime, cessioni dello stupefacente, l’art. 586 sarebbe applicabile sia al cedente immediato (ossia a colui che ha direttamente ceduto alla vittima la dose rivelatasi fatale) sia anche al cedente mediato (ossia al fornitore del cedente immediato). E ciò perché il nesso di causalità tra la prima cessione e la morte dell’ultimo cessionario, sopravvenuta quale conseguenza non voluta dell’assunzione della sostanza, non sarebbe interrotto in conseguenza delle successive cessioni, le quali vanno considerate come fattori concausali non eccezionali ed anzi del tutto prevedibili[2].

La tesi secondo la quale nella fattispecie prevista dall’art. 586 cod. pen. (ed in quella più generale di cui all’art. 83 cod. pen.), la responsabilità per l’evento non voluto (morte o lesioni) si fonderebbe sul solo nesso causale ed avrebbe quindi natura oggettiva è stata sostenuta anche da una parte della dottrina, principalmente sulla base di tre argomenti.

Innanzitutto, si è osservato che la lettera della legge non richiede esplicitamente che la produzione dell’evento sia determinata da colpa; l’inciso «a titolo di colpa», contenuto nell’art. 83 (richiamato dall’art. 586), si riferirebbe, quindi, solo alle conseguenze sanzionatorie (nel senso che l’evento non voluto viene punito come se fosse colposo), e non al fondamento della responsabilità, che rimarrebbe oggettiva.

In secondo luogo, e soprattutto, si è fatto leva sulla considerazione che altrimenti la norma sarebbe superflua, perché sia l’art. 83 (nella parte in cui prevede la responsabilità dell’agente e nella parte in cui richiama le regole sul concorso di reati) sia l’art. 586 sarebbero del tutto inutili qualora si limitassero a stabilire l’imputabilità dell’evento non voluto solo in presenza dei requisiti ordinari della colpa.

In terzo luogo, si è affermato che il criterio di imputazione fondato sulla responsabilità oggettiva sarebbe conforme alla logica di rigore, ispirata a ragioni repressive, che connoterebbe l’atteggiamento del legislatore storico nei confronti del complessivo fenomeno del reato aberrante.

Nessuno di questi argomenti è però decisivo, come ha rilevato altra parte della dottrina.

Quanto al primo, si è invero osservato che non solo in dottrina e in giurisprudenza, ma anche nello stesso linguaggio legislativo, l’espressione «a titolo di colpa» è utilizzata per designare, insieme, sia il titolo sia il fondamento della responsabilità. Il legislatore, ad esempio, ha utilizzato tale formula per indicare fattispecie strutturalmente colpose con le riforme che hanno novellato il testo dell’art. 57 cod. pen. e dell’art. 1217 cod. nav. (rispettivamente l. 4 marzo 1958 n. 127 e l. 5 giugno 1962 n. 616). Invero, pronunciandosi in ordine a queste ultime ipotesi criminose, la Corte Costituzionale[3] ha riconosciuto il fondamento colposo della responsabilità.

Quanto alla funzione delle previsioni normative, si è rilevato oltre al fatto che nella parte generale del codice penale del 1930 sono numerose le norme superflue che l’art. 586 cod. pen., non si limita a ribadire i principi generali, ma sancisce anche un aggravamento della pena irrogabile per l’omicidio e le lesioni colpose, mentre l’art. 83 fu introdotto allo scopo di impedire una imputazione dolosa di ipotesi ordinarie di fatti colposi. Inoltre, nelle intenzioni del legislatore storico, il secondo comma dell’art. 83 aveva una finalità meramente dichiarativa, cioè quella di «non lasciare alcun dubbio sull’applicabilità della regola sul concorso di reati» (cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lav. Prep., vol. V, parte I. p. 138). In ogni caso, nella alternativa tra una interpretazione che assegni ad una disposizione una funzione innovativa, ma costituzionalmente inaccettabile, ed una diversa interpretazione che le assegni una funzione meramente esplicativa di principi altrove affermati, ma compatibile con il dettato costituzionale, si deve optare per la seconda, tanto più se essa è in linea con l’intenzione del legislatore e compatibile con la lettera della legge.

Quanto al terzo argomento, si è osservato che dall’analisi dei lavori preparatori emerge che con il testo definitivo dell’art. 586 si intese invece attenuare l’asprezza sanzionatoria originariamente introdotta nel progetto preliminare per l’ipotesi di morte o lesioni quale conseguenza non voluta di altro delitto, e che la previsione dell’aberratio delicti venne inserita nel progetto definitivo allo scopo di evitare che «potesse (…) giungersi ad un trattamento troppo severo, elevando a casi di responsabilità dolosa ed obiettiva ipotesi ordinarie di fatti colposi» (cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lav. Prep., vol. V, parte I. p. 135). Del resto, anche durante i lavori della Commissione Parlamentare, fu più volte sottolineata l’opportunità di riservare all’aberratio delicti un trattamento sanzionatorio meno rigoroso di quello previsto per l’aberratio ictus.

Un secondo orientamento ravvisa nella fattispecie prevista dall’art. 586 cod. pen. una responsabilità per colpa specifica, fondata sulla inosservanza della norma penale incriminatrice del reato base doloso. Si è affermato, in questo senso, che l’art. 586 «è norma di chiusura e di rafforzamento del sistema di tutela della vita e della incolumità fisica e trova applicazione ogni qual volta la morte sia conseguenza non voluta di un delitto doloso qualunque ne sia la natura, e, quindi, anche quando il fatto tipico, di per sé, non costituisca pericolo per il bene giuridico protetto, sempre che tra l’illecito comportamento del soggetto e l’evento non voluto (morte o lesione) sussista un rapporto di causalità materiale. L’evento lesivo, conseguente dal delitto doloso commesso, è imputato al colpevole, a titolo di colpa, per violazione di legge, perché l’art. 43 cod. pen. annovera tra i criteri di qualificazione dei comportamenti colposi (in aggiunta alla imprudenza, imperizia e negligenza), anche l’inosservanza della legge. Invero tale espressione non limita questo modo di essere della colpa alla sola violazione di legge a carattere squisitamente o esclusivamente cautelare, ma comprende anche la violazione delle stesse norme penali incriminatrici, mentre l’art. 586 attribuisce alle disposizioni incriminatrici, che prevedono i singoli delitti, oltre la funzione loro propria di tutela del singolo bene, anche il carattere ulteriore ed accessorio di norme che mirano a prevenire, attraverso la sanzione penale, l’eventuale lesione di beni giuridici, tutelati mediante le ipotesi di reato colposo, che possono essere prodotte a causa della commissione dei delitti dolosi[4]» Con particolare riguardo all’ipotesi di morte conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, si è sostenuto che l’evento morte è addebitato al fornitore, anche non immediato, della sostanza, a norma dell’art. 586, a titolo di colpa, consistita nella violazione della legge sullo spaccio di stupefacenti e nella conseguente prevedibilità dell’evento letale[5] .

Alla base di questo indirizzo vi è quindi l’idea che la disciplina legislativa sulle sostanze stupefacenti svolgerebbe anche un ruolo di prevenzione delle offese all’integrità fisica dei cittadini.

Anche una parte della dottrina ha individuato nella colpa per violazione di legge penale il criterio di imputazione dell’evento non voluto di cui agli artt. 83 e 586 cod. pen., sostenendo che ogni norma penale svolge, accanto alla funzione repressiva, anche una funzione preventiva, contenendo il divieto di realizzare una determinata condotta che, per la sua spiccata pericolosità, appare contraria alle esigenze di prevenzione poste alla base dell’incriminazione di un reato colposo. Poiché, nei casi di aberratio, la condotta costituisce violazione della legge penale che punisce il reato doloso, ne discende che l’ulteriore evento non voluto, cagionato da tale condotta, risulta colposo per inosservanza di legge, ai sensi dell’art. 43 cod. pen.. Si tratterebbe di una colpa presunta, che rende superflua qualsiasi indagine sulla prevedibilità dell’evento o comunque sulla configurabilità di una effettiva imprudenza, negligenza o imperizia.

E’ bene mettere subito in rilievo che la tesi della colpa specifica per violazione della legge penale, o della colpa presunta, nella sostanza non si differenzia dalla tesi della responsabilità oggettiva, la quale viene in realtà verbalmente camuffata sotto le vesti di una colpa (sempre ed immancabilmente presente), consistente nella violazione di quella stessa legge penale che incrimina il delitto base doloso. Le due tesi invero portano a risultati sostanzialmente identici, ossia a ritenere la sufficienza del solo nesso causale per fondare la responsabilità rispetto all’evento non voluto. Ciò del resto è stato avvertito anche dalla più accorta giurisprudenza, che ha evidenziato la sostanziale identità dell’accollo dell’evento morte o lesioni a titolo di responsabilità oggettiva o di «colpa presunta», pur se mascherata dietro il riferimento alla colpa specifica da inosservanza della legge penale secondo la tradizionale regola del «versari in re illicita[6]».

Un terzo orientamento sovente sostenuto dalla giurisprudenza unitamente alla tesi della colpa presunta per violazione della legge penale richiede, per poter imputare l’evento morte o lesioni ex art. 586 cod. pen., oltre al nesso causale, anche la prevedibilità dell’evento, facendo però riferimento ad una prevedibilità in astratto. Questo indirizzo seguito soprattutto da decisioni in tema di morte da assunzione di sostanze stupefacenti si sostanzia nella quasi totalità dei casi, in un richiamo ad un criterio di prevedibilità in re ipsa, meramente formale e di stile, senza che sia condotta in realtà nessuna indagine, in concreto, sul decorso causale e sull’evento finale, per ricostruire le specifiche modalità di verificazione dell’evento che, nel caso di specie, avrebbero reso prevedibili la morte o le lesioni. Solitamente si parla di prevedibilità desunta dalla notorietà, dall’ordinarietà o dalla frequenza del pericolo connesso ad un certo tipo di condotta, o di prevedibilità secondo l’id quod plerumque accidit, o desunta dal pericolo insito, in via presuntiva, nel delitto doloso di base. In particolare, nel caso di violazioni della legge sugli stupefacenti, la prevedibilità, sempre valutata in astratto, viene desunta dalla notorietà della frequenza di casi letali dopo l’assunzione di determinate sostanze stupefacenti[7].

In tutti questi casi la prevedibilità dell’evento è automaticamente dedotta, in astratto, dalla indubbia destinazione della droga ceduta all’assunzione e dalla constatazione che ciò, secondo la comune esperienza, può cagionare la morte dell’assuntore. E’ però evidente che il criterio della prevedibilità in astratto è invocato come mero omaggio formale al principio di colpevolezza, e che in realtà anche questa tesi della prevedibilità in astratto si pone sullo stesso piano di quella della responsabilità oggettiva e di quella della colpa presunta per violazione della legge penale. In tutti e tre i casi, infatti, in sostanza la responsabilità viene fondata sul solo nesso causale, perché l’evento morte non voluto viene sempre messo a carico del soggetto che ha compiuto il delitto doloso sulla sola base del nesso di causalità tra tale delitto e l’evento non voluto, indipendentemente da una indagine sull’elemento psicologico.

Un quarto orientamento soprattutto dottrinario è costituito dalla tesi della c.d. responsabilità da rischio totalmente illecito[8]. Secondo questa tesi, nella fattispecie di cui all’art. 586 cod. pen. l’autore del reato base risponde dell’evento letale non voluto a titolo di responsabilità oggettiva, ossia per una responsabilità senza dolo né colpa, fondata sul solo nesso causale, ma che tuttavia non si porrebbe in contrasto con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. E ciò perché il principio di responsabilità colpevole, o della personalità dell’illecito, non implicherebbe necessariamente una responsabilità per dolo o per colpa, ma solo che il soggetto sia eticamente rimproverabile per il fatto, ossia che vi sia la possibilità di un suo dominio personale sul fatto. Questa possibilità sarebbe assicurata dalla prevedibilità ed evitabilità dell’evento nella situazione concreta, requisiti questi che risulterebbero dal combinato disposto dell’art. 42, comma 3, con l’art. 45 cod. pen., che dà rilevanza al caso fortuito (imprevedibilità dell’evento) ed alla forza maggiore (inevitabilità dell’evento) in tutte le forme di responsabilità. Questa teoria parte dal presupposto che la colpa richiede la violazione di una regola cautelare nell’ambito di una attività in se stessa lecita, ossia che il soggetto superi il limite di rischio, che accompagna tutte le attività lecite e che gli è consentito dall’ordinamento. Sarebbe invece impossibile muovere un rimprovero per colpa a chi agisce in un ambito illecito, poiché, quando è già vietata l’attività di base, non è possibile configurare regole cautelari e quindi non si può parlare di colpa. Quindi, responsabilità per colpa e responsabilità da rischio totalmente illecito avrebbero in comune il requisito della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, ma mentre nella prima ipotesi la colpa si connoterebbe, ulteriormente, per la violazione di una regola cautelare con superamento del rischio consentito, nella seconda ipotesi, poiché l’agente tiene una condotta base illecita, non sarebbero necessari la violazione di regole cautelari o il superamento del rischio consentito, ma l’assunzione del rischio totalmente illecito giustificherebbe di per sé l’attribuzione della responsabilità ed un trattamento sanzionatorio più rigoroso di quello previsto per i reati colposi.

Un ultimo orientamento sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni infine ravvisa nell’art. 586 una ipotesi di responsabilità per colpa in concreto, concepita ed accertata nei suoi requisiti ordinari, imperniata quindi sulla violazione di regole cautelari di condotta e sulla necessità di un accertamento della effettiva prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento non voluto da parte dell’agente[9].

Al fine di individuare la soluzione preferibile, non può ovviamente prescindersi dal principio di colpevolezza e dalle sentenze della Corte costituzionale che gli hanno esplicitamente riconosciuto rango costituzionale[10].

È noto che già con la fondamentale sentenza n. 364 del 1988, la Corte costituzionale, sulla base di una approfondita esegesi dell’art. 27 Cost. (imperniata sul collegamento tra il principio di personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa della pena, nell’ambito di una generale visione liberalgarantistica dell’ordinamento penale e dei rapporti tra Stato e cittadino), giunse ad identificare la «responsabilità personale», richiesta da tale norma, con la «responsabilità per fatto proprio colpevole» e ad affermare che lo Stato ha il dovere di assicurare al cittadino che non lo punirà senza preventivamente informarlo su ciò che è vietato o comandato e di assicurargli che «sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate». Il principio di colpevolezza, dunque, «più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto», e pone «un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena». E, secondo la Corte, tali requisiti subiettivi minimi richiedono che «il fatto imputato, perchè sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica». Invero, «non avrebbe senso la “rieducazione” di chi, non essendo almeno “in colpa” (rispetto al fatto) non ha, certo, bisogno di essere “rieducato”».

Con la successiva sentenza n. 1085 del 1988, la Corte costituzionale precisò che «perché l’art. 27, primo comma, Cost., sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili». E ciò a prescindere dalla circostanza che l’elemento in discussione si identifichi o meno con l’evento del reato: rimanendo sottratti alla esigenza della «rimproverabilità» unicamente «gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi)». La medesima pronuncia ha inoltre esplicitato in modo chiaro che il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu «contrasta con l’art. 27, primo comma, Cost.», affermando che da tale parametro è richiesto «quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato. (…) E’ ben vero che la massima: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu” implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il “versari in re illicita” (…). Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (…) nella produzione dei quali la volontà del reo è rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo. Dal primo comma dell’art. 27 Cost. (...) non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o … tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento». E’ interessante ricordare che la sentenza in esame riferì il requisito della colpa anche ad attività illecite, come la sottrazione e l’impossessamento di una cosa mobile altrui al fine di farne un uso momentaneo (art. 626 comma 1 n. 1, cod. pen.), osservando che «la mancata restituzione (...) non è addebitabile al soggetto agente (...) se dovuta a caso fortuito o a forza maggiore», ossia se non dovuta a colpa.

Orbene, alla luce dei principi costituzionali appena ricordati per come affermati dalla Corte costituzionale, è evidente come una interpretazione adeguatrice dell’art. 586 cod. pen. imponga di disattendere sia il primo orientamento che formula una ipotesi di responsabilità oggettiva pura e propria, fondata esclusivamente sul nesso di causalità materiale, sia gli altri orientamenti che, come rilevato, nella sostanza e negli effetti non si differenziano da una ipotesi di responsabilità oggettiva (che viene in realtà camuffata, ma non superata), come quello della colpa presunta per violazione di legge penale (immancabilmente presente in tutti i casi), o come quello che richiede, oltre al nesso causale, una prevedibilità in astratto dell’evento, ossia una prevedibilità in re ipsa meramente formale e (sempre immancabilmente) presunta in tutti i casi sulla base dalla notorietà della frequenza delle conseguenze letali derivate dall’assunzione di certe sostanze stupefacenti.

Le richiamate sentenze costituzionali, invero, hanno esplicitamente affermato che si pone in contrasto con l’art. 27 Cost. la previsione sia di una responsabilità oggettiva pura o propria sia del principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu. Inoltre, l’evento non voluto rientra certamente fra quelli più significativi della fattispecie dell’art. 586 cod. pen. e quindi, per la legittima punibilità del fatto, deve essere accertata la colpa dell’agente in relazione a tale evento. Ed il chiaro riferimento fatto dalla sentenza n. 364 del 1988 alla colpa quale «violazione di regole preventive» collegate «al complessivo risultato ultimo vietato», esclude che possa ritenersi conforme al principio costituzionale qualsiasi interpretazione che si basi sulla teoria della colpa presunta per violazione di legge penale.

D’altra parte, la ricostruzione del principio di colpevolezza per come operata dalla Corte costituzionale, non si concilia nemmeno con la tesi della responsabilità da rischio totalmente illecito. Il principio invero richiede, come requisito subiettivo minimo di imputazione, la colpa dell’agente in relazione a tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie, o quanto meno agli elementi più significativi di essa, ed impedisce di addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi che a lui non sono rimproverabili. Inoltre, la sentenza n. 364 del 1988 ha anche fatto esplicito riferimento alla colpa quale violazione di regole preventive collegate al complessivo risultato ultimo vietato, in tal modo non accogliendo la tesi di una colpa contrassegnata solo dalla prevedibilità ed evitabilità e non anche dalla violazione di una regola cautelare. La stessa sentenza ha anche precisato che «la colpevolezza costituzionalmente richiesta ... non costituisce elemento tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato». In definitiva, secondo la Corte costituzionale, non vi è posto nel nostro ordinamento per una terza forma di responsabilità colpevole, diversa da quella dolosa o colposa, e quindi la colpevolezza non potrebbe essere sostituita, a discrezione del legislatore, da altri elementi, quale il rischio da attività totalmente illecita.

Ne consegue che l’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie dell’art. 586 cod. pen., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base. Un diverso orientamento in ordine al collegamento soggettivo necessario per l’imputazione dell’ulteriore evento non voluto imporrebbe di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’istituto per contrasto con il principio di colpevolezza, secondo cui deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli «elementi più significativi della fattispecie», fra i quali il «complessivo ultimo risultato vietato», se non si vuole incorrere nel divieto, ex art. 27, commi 1 e 3, Cost. della responsabilità oggettiva c.d. pura o propria.

Va dunque confermato che mentre, da un lato, una interpretazione adeguatrice che rispetti il principio costituzionale di colpevolezza esige che nella fattispecie dell’art. 586 cod. pen. la morte o le lesioni non volute devono essere imputate per colpa, da un altro lato, non esistono insuperabili ostacoli, normativi o logici, contro questa interpretazione.

Occorre però stabilire se si tratta della stessa colpa presente nelle normali fattispecie colpose ovvero di una colpa che subisca delle modificazioni nella sua struttura e nel suo contenuto in conseguenza del fatto che l’agente, attraverso il delitto base doloso, si è collocato in un’area di illiceità penale.

In particolare, è opportuno ribadire che, ai fini della imputazione della conseguenza ulteriore non voluta di un reato base doloso, la colpa non può essere presunta in forza della sola violazione della legge incriminatrice del reato doloso. Per quanto riguarda più specificamente l’ipotesi di morte o lesioni personali conseguenti alla cessione illecita di sostanze stupefacenti, la regola cautelare, la cui inosservanza può costituire base della colpa, non può individuarsi nella stessa norma penale che incrimina la cessione dello stupefacente. La legislazione in materia di sostanze stupefacenti, invero, non svolge in via diretta un ruolo di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini, ma, come già rilevato, ha come scopo diretto ed immediato delle sue norme incriminatrici la repressione del mercato illegale della droga e soltanto come scopo ulteriore, collocato sullo sfondo, la tutela della salute pubblica, accanto alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico. Del resto, a conferma che l’attuale legislazione in materia non ha una destinazione diretta ed immediata alla tutela dell’integrità fisica dei cittadini, sta la scelta del legislatore a favore della non punibilità del consumo personale di stupefacenti.

Anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti, dunque, la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, da un altro lato, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi. Occorrerà quindi che l’agente abbia violato una regola cautelare diversa dalla norma (della legge sugli stupefacenti) che incrimina il delitto base e che sia specificamente diretta a prevenire la morte o le lesioni personali. Occorrerà poi una valutazione positiva di prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento, compiuta ex ante, sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello, tendendo peraltro conto di tutte le circostanze della concreta e reale situazione di fatto. Si dovrà pertanto verificare se dal punto di vista di un agente modello, nella situazione concreta, risultava prevedibile l’evento morte come conseguenza dell’assunzione, da parte di uno specifico soggetto, di una determinata dose di droga. E’ poi evidente che per agente modello non si deve intendere uno «spacciatore modello», ma una persona ragionevole, fornita, al pari dell’agente reale, di esperienza nel campo della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e consapevole della natura e dei normali effetti della sostanza che cede.

Lo spacciatore[11] pertanto potrà ritenersi esente da colpa quando una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto non faccia prevedere l’evento morte o lesioni. La colpa potrà invece essere ravvisabile quando la morte sia prevedibile, ed anche quando non sia prevista perché una circostanza pericolosa sia stata ignorata per colpa o sia stata erroneamente valutata sempre per colpa.

In sintesi, la colpa non potrà essere ravvisata nella prevedibilità in astratto dell’evento morte, desunta dalla presunta frequenza, o dalla notorietà, o dalla ordinarietà di tale evento in seguito alla assunzione di sostanza stupefacente, o in un pericolo che sarebbe presuntivamente insito in qualsiasi cessione della sostanza, ovvero nella natura di talune sostanze più pericolose di altre. La colpa andrà accertata sempre e soltanto in concreto, sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano il concreto pericolo di un evento letale a seguito dell’assunzione di una determinata dose di droga da parte dello specifico soggetto. All’agente è peraltro richiesto un particolare livello di attenzione e di prudenza, sicché lo stesso potrà essere ritenuto in colpa qualora non si sia astenuto dal cedere lo stupefacente dinanzi ad una circostanza dal significato equivoco o comunque quando abbia ignorato una circostanza pericolosa o sia caduto in errore sul suo significato e l’ignoranza o l’errore siano determinati da colpa, e siano quindi a lui rimproverabili perché non inevitabili.

In via generale dovrà dunque escludersi la responsabilità del cedente per la morte del cessionario in tutte le ipotesi in cui la morte risulti in concreto imprevedibile, in quanto intervenuta per effetto di fattori non noti o non rappresentabili dal cedente, come potrebbe verificarsi, ad esempio, nel caso di cessione di una sostanza «normale» per qualità e quantità e di morte dovuta alla contemporanea assunzione di alcol che abbia accentuato gli effetti della droga (a meno che lo spacciatore sapesse che la vittima era dedita all’uso di alcol o intendesse farne uso in quella occasione); o nel caso di consumo dello stupefacente congiunto all’uso di psicofarmaci, o di consumo da parte di soggetto apparentemente giovane e in buono stato di salute, ma in realtà con gravi difetti fisici, o in precario stato di salute, o con grave vizio cardiaco; o anche nel caso in cui l’agente abbia ceduto un normale quantitativo di droga ad un soggetto presentatosi come consumatore diretto senza che fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad un terzo con un ridotto grado di tolleranza (e quindi altamente a rischio di overdose) e ciò quand’anche fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad altri.[12]

Potrà, invece, nei singoli casi concreti, ravvisarsi una responsabilità del cedente quando questi sia stato a conoscenza che il cessionario o il soggetto che di fatto avrebbe assunto lo stupefacente ceduto era dedito all’alcol o al consumo di psicofarmaci o aveva, al di là dell’apparenza, gravi difetti fisici ovvero anche quando la mancata conoscenza di uno di questi fattori sia derivata da errore o da ignoranza evitabili, e quindi inescusabili, come ad esempio nel caso in cui il soggetto abbia ceduto la sostanza ad un acquirente che denotava un alito vinoso, o che presentava caratteristiche esteriori di fragilità fisica o di consumatore di medicinali, o abbia ceduto la droga all’interno di una discoteca o di altro locale in cui solitamente si fa uso di sostanze alcoliche (essendo quindi altamente probabile una assunzione congiunta di droga e alcol), ovvero l’abbia ceduta a soggetti minorenni di cui poteva essere conoscibile la minore resistenza a quella determinata sostanza. Analogamente, la colpa in concreto potrebbe essere configurabile quando lo spacciatore abbia ceduto eroina ad un soggetto di cui conosceva i precedenti tentativi di disintossicazione e quindi la maggiore esposizione al rischio di overdose; o quando abbia ceduto sostanza micidiale come l’eroina a persona di giovanissima età, di esile costituzione fisica e che evidenziava la precedente assunzione di tranquillanti.

Nel caso poi in cui siano intervenute plurime, successive cessioni, la necessità che la responsabilità sia fondata su una colpa da accertarsi in concreto comporta che in tanto la colpa potrà ritenersi esistente in quanto la morte sia intervenuta per un fattore che era in concreto prevedibile dal cedente. Così[13], ad esempio, potrebbe non ravvisarsi la colpa nella ipotesi in cui la morte del terzo assuntore (non conosciuto e non conoscibile dal cedente) sia stata determinata da fattori non noti o non conoscibili dallo spacciatore, come nel caso che l’assuntore finale abbia consumato la droga insieme ad alcol, o a psicofarmaci, o sia affetto da vizi cardiaci o da gravi difetti fisici. In via generale, quindi, nel caso di plurime cessioni non potrà ravvisarsi una responsabilità dell’originario cedente quando questi non conosceva o non era in grado di conoscere l’identità dei successivi cessionari e soprattutto la presenza di particolari fattori che abbiano aumentato il rischio di decesso. Peraltro, anche in caso di plurime successive cessioni potrà ravvisarsi una colpa del cedente qualora questi particolari fattori relativi ai successivi cessionari non siano stati nel caso concreto conosciuti dal cedente per errore o ignoranza evitabili, e quindi colpevoli, come ad esempio nel caso che l’agente abbia ceduto la droga sapendo o potendo sapere che il cedente l’avrebbe a sua volta venduta in una discoteca o in un simile locale (e che quindi vi era in concreto una elevata probabilità che fosse assunta insieme ad alcol), o l’avrebbe venduta in una scuola o a minorenni.

Analogamente, anche nel caso di plurime cessioni, potrà ravvisarsi la colpa in capo al cedente indiretto quando il maggior rischio non dipende dalla identità e dalle caratteristiche personali dell’assuntore ma è riconducibile alla quantità, natura e qualità dello stupefacente, ed in particolare alle modalità con cui esso sia stato nel caso concreto eventualmente miscelato con altre sostanze tali da accentuarne in concreto la potenzialità lesiva (a meno che, in tali specifici casi di maggiore rischio per la vita di qualsiasi potenziale consumatore, non sia addirittura ravvisabile il dolo eventuale).

In conclusione, va dunque affermato il principio che, nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 cod. pen. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.[14]



[1] Cass. 17.4.1939; Cass. 10.4.1945, Gatta; Sez. I, 14.4.1982, Maccanti, m. 156067; Sez. I, 25.3.1985, Di Maio, m. 169934; Sez. VI, 8.3.1988, Lucarelli, m. 179343; Sez. II, 14.2.1990, Bevilacqua, m. 184598; Sez. I, 28.5.1993, Cimare, m. 194773; Sez. II; 15.2.1996, Caso, m. 205374; Sez. IV, 25.1.2006, Bellino, m. 234187.

[2] Sez. I, 3.5.1986, Volta, m. 174082; Sez. VI, 4.11.1988, Soloperto, m, 179930 (per le cessioni successive); Sez. VI, 7.3.1989, Foianesi, m. 181546; Sez. IV, 19.10.1989, Angelelli, m. 183623; Sez. VI, 4.3.1989, Bodini, m. 183885; Sez. VI, 22.3.1990, Pergolesi, m. 186020; Sez. IV, 28 giugno 1991, Greco, m. 188768; Sez. IV, 28.2.1994, Preto, m. 197762; Sez. IV, 31.10.1995, D’Aguanno, m. 203618; Sez. VI, 19 novembre 1997, Paralupi, m. 210441; Sez. VI, 5.6.2003, Ciceri, m. 226254.

[3] Sent. n. 198 del 1982 e la sent. n. 42 del 1966.

[4] (così Sez. I, 2.4.1986, Navarino, m. 174058; Sez. IV, 11.1.1995, Masser, m. 201242; ; Sez. III, 6.12.1995, Sonderegger, m. 204469).

[5] Sez. V, 9.11.1988, Montoli, m. 183396; Sez. VI, 27.10.1992, Nicolace, m. 193239; Sez. VI, 11.3.1994, Melotto, m. 197848).

[6] Sez. I, 19.10.1998, D’Agata, m. 211611.

[7] Sez. VI, 6.12.1988, Coppola, m. 180420(; Sez. V, 9.11.1988, Montoli, m. 183396; Sez. VI, 14.11.1988, Buzzo, m. 179839; Sez. VI, 24.1.1989, Irritano, m. 180747 ; Sez. VI, 27.10.1992, Nicolace, m. 193239; Sez. VI, 11.3.1994, Melotto, m. 197848.

[8] PAGLIARO Principi 325 e ss.; ARDIZZONE Le ipotesi di responsabilità oggettiva: tra dogmatica e politica criminale, 1989.

[9] da Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 11055, D’Agata, m. 211611; da Sez. I, 14.11.2002, n. 2595, Solazzo, m. 223841; e da Sez. VI, 29.11.2007, n. 12129, Passafiume, m. 239585.

[10] Sez. Un. n. 22676/2009.

[11] Sez. Un. n. 22676/2009.

[12] Sez. Un. n. 22676/2009.

[13] Sez. Un. n. 22676/2009.

[14] Sez. Un. n. 22676/2009.

In ordine alla natura ed al criterio di imputazione della responsabilità per la morte o le lesioni non volute ai sensi dell’art. 586 cod. pen., sono ravvisabili in giurisprudenza ed in dottrina diversi orientamenti.

Come è noto, l’art. 586 cod. pen. (Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) dispone che

«Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate». L’art. 83 cod. pen. (Evento diverso da quello voluto dall’agente) a sua volta prevede che «Fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, se per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto si applicano le regole sul concorso dei reati».

Secondo un primo[1] e per lungo tempo assolutamente prevalente orientamento giurisprudenziale, morte e lesioni non volute devono essere imputate all’autore del delitto base doloso in virtù del solo nesso di causalità materiale. Sarebbe quindi superflua una indagine specifica sulla sussistenza, in concreto, degli estremi della colpa in relazione all’evento non voluto, essendo necessaria semplicemente l’indagine sulla condotta esecutiva del delitto doloso e l’accertamento che il nesso eziologico non sia stato spezzato da fattori eccezionali non ascrivibili all’agente ed al di fuori della sua sfera di controllo, e cioè da cause sopravvenute che siano state da sole sufficienti a determinare l’evento. L’art. 586, dunque, al pari della norma «generale» sull’aberratio delicti plurilesiva di cui all’art. 83, comma 2, prevederebbe una ipotesi di responsabilità oggettiva, ispirata alla regola del qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu, in forza della quale l’autore di un delitto deve rispondere oggettivamente per le conseguenze ulteriori non volute di tale delitto.

La teoria della responsabilità oggettiva e della sufficienza del solo nesso di causalità è stata applicata soprattutto in tema di morte conseguente alla cessione illecita di sostanze stupefacenti. Secondo la giurisprudenza dominante, invero, l’art. 586 può trovare applicazione nei confronti di colui che, a qualsiasi titolo illecito, cede una sostanza stupefacente (così integrando il delitto di cui all’art. 73 d.p.R. 309 del 1990) in caso di morte del cessionario intervenuta a seguito della assunzione della sostanza ceduta. In questa ipotesi, lo spacciatore risponderebbe a titolo di responsabilità oggettiva, e sarebbe quindi sufficiente la prova del nesso di causalità materiale fra la precedente condotta e l’evento morte, non interrotto da cause sopravvenute di carattere eccezionale, mentre non occorrerebbe espletare alcuna indagine sull’esistenza della colpa, la cui presenza non sarebbe necessaria. In particolare, in caso di successive, plurime, cessioni dello stupefacente, l’art. 586 sarebbe applicabile sia al cedente immediato (ossia a colui che ha direttamente ceduto alla vittima la dose rivelatasi fatale) sia anche al cedente mediato (ossia al fornitore del cedente immediato). E ciò perché il nesso di causalità tra la prima cessione e la morte dell’ultimo cessionario, sopravvenuta quale conseguenza non voluta dell’assunzione della sostanza, non sarebbe interrotto in conseguenza delle successive cessioni, le quali vanno considerate come fattori concausali non eccezionali ed anzi del tutto prevedibili[2].

La tesi secondo la quale nella fattispecie prevista dall’art. 586 cod. pen. (ed in quella più generale di cui all’art. 83 cod. pen.), la responsabilità per l’evento non voluto (morte o lesioni) si fonderebbe sul solo nesso causale ed avrebbe quindi natura oggettiva è stata sostenuta anche da una parte della dottrina, principalmente sulla base di tre argomenti.

Innanzitutto, si è osservato che la lettera della legge non richiede esplicitamente che la produzione dell’evento sia determinata da colpa; l’inciso «a titolo di colpa», contenuto nell’art. 83 (richiamato dall’art. 586), si riferirebbe, quindi, solo alle conseguenze sanzionatorie (nel senso che l’evento non voluto viene punito come se fosse colposo), e non al fondamento della responsabilità, che rimarrebbe oggettiva.

In secondo luogo, e soprattutto, si è fatto leva sulla considerazione che altrimenti la norma sarebbe superflua, perché sia l’art. 83 (nella parte in cui prevede la responsabilità dell’agente e nella parte in cui richiama le regole sul concorso di reati) sia l’art. 586 sarebbero del tutto inutili qualora si limitassero a stabilire l’imputabilità dell’evento non voluto solo in presenza dei requisiti ordinari della colpa.

In terzo luogo, si è affermato che il criterio di imputazione fondato sulla responsabilità oggettiva sarebbe conforme alla logica di rigore, ispirata a ragioni repressive, che connoterebbe l’atteggiamento del legislatore storico nei confronti del complessivo fenomeno del reato aberrante.

Nessuno di questi argomenti è però decisivo, come ha rilevato altra parte della dottrina.

Quanto al primo, si è invero osservato che non solo in dottrina e in giurisprudenza, ma anche nello stesso linguaggio legislativo, l’espressione «a titolo di colpa» è utilizzata per designare, insieme, sia il titolo sia il fondamento della responsabilità. Il legislatore, ad esempio, ha utilizzato tale formula per indicare fattispecie strutturalmente colpose con le riforme che hanno novellato il testo dell’art. 57 cod. pen. e dell’art. 1217 cod. nav. (rispettivamente l. 4 marzo 1958 n. 127 e l. 5 giugno 1962 n. 616). Invero, pronunciandosi in ordine a queste ultime ipotesi criminose, la Corte Costituzionale[3] ha riconosciuto il fondamento colposo della responsabilità.

Quanto alla funzione delle previsioni normative, si è rilevato oltre al fatto che nella parte generale del codice penale del 1930 sono numerose le norme superflue che l’art. 586 cod. pen., non si limita a ribadire i principi generali, ma sancisce anche un aggravamento della pena irrogabile per l’omicidio e le lesioni colpose, mentre l’art. 83 fu introdotto allo scopo di impedire una imputazione dolosa di ipotesi ordinarie di fatti colposi. Inoltre, nelle intenzioni del legislatore storico, il secondo comma dell’art. 83 aveva una finalità meramente dichiarativa, cioè quella di «non lasciare alcun dubbio sull’applicabilità della regola sul concorso di reati» (cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lav. Prep., vol. V, parte I. p. 138). In ogni caso, nella alternativa tra una interpretazione che assegni ad una disposizione una funzione innovativa, ma costituzionalmente inaccettabile, ed una diversa interpretazione che le assegni una funzione meramente esplicativa di principi altrove affermati, ma compatibile con il dettato costituzionale, si deve optare per la seconda, tanto più se essa è in linea con l’intenzione del legislatore e compatibile con la lettera della legge.

Quanto al terzo argomento, si è osservato che dall’analisi dei lavori preparatori emerge che con il testo definitivo dell’art. 586 si intese invece attenuare l’asprezza sanzionatoria originariamente introdotta nel progetto preliminare per l’ipotesi di morte o lesioni quale conseguenza non voluta di altro delitto, e che la previsione dell’aberratio delicti venne inserita nel progetto definitivo allo scopo di evitare che «potesse (…) giungersi ad un trattamento troppo severo, elevando a casi di responsabilità dolosa ed obiettiva ipotesi ordinarie di fatti colposi» (cfr. la Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo, in Lav. Prep., vol. V, parte I. p. 135). Del resto, anche durante i lavori della Commissione Parlamentare, fu più volte sottolineata l’opportunità di riservare all’aberratio delicti un trattamento sanzionatorio meno rigoroso di quello previsto per l’aberratio ictus.

Un secondo orientamento ravvisa nella fattispecie prevista dall’art. 586 cod. pen. una responsabilità per colpa specifica, fondata sulla inosservanza della norma penale incriminatrice del reato base doloso. Si è affermato, in questo senso, che l’art. 586 «è norma di chiusura e di rafforzamento del sistema di tutela della vita e della incolumità fisica e trova applicazione ogni qual volta la morte sia conseguenza non voluta di un delitto doloso qualunque ne sia la natura, e, quindi, anche quando il fatto tipico, di per sé, non costituisca pericolo per il bene giuridico protetto, sempre che tra l’illecito comportamento del soggetto e l’evento non voluto (morte o lesione) sussista un rapporto di causalità materiale. L’evento lesivo, conseguente dal delitto doloso commesso, è imputato al colpevole, a titolo di colpa, per violazione di legge, perché l’art. 43 cod. pen. annovera tra i criteri di qualificazione dei comportamenti colposi (in aggiunta alla imprudenza, imperizia e negligenza), anche l’inosservanza della legge. Invero tale espressione non limita questo modo di essere della colpa alla sola violazione di legge a carattere squisitamente o esclusivamente cautelare, ma comprende anche la violazione delle stesse norme penali incriminatrici, mentre l’art. 586 attribuisce alle disposizioni incriminatrici, che prevedono i singoli delitti, oltre la funzione loro propria di tutela del singolo bene, anche il carattere ulteriore ed accessorio di norme che mirano a prevenire, attraverso la sanzione penale, l’eventuale lesione di beni giuridici, tutelati mediante le ipotesi di reato colposo, che possono essere prodotte a causa della commissione dei delitti dolosi[4]» Con particolare riguardo all’ipotesi di morte conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti, si è sostenuto che l’evento morte è addebitato al fornitore, anche non immediato, della sostanza, a norma dell’art. 586, a titolo di colpa, consistita nella violazione della legge sullo spaccio di stupefacenti e nella conseguente prevedibilità dell’evento letale[5] .

Alla base di questo indirizzo vi è quindi l’idea che la disciplina legislativa sulle sostanze stupefacenti svolgerebbe anche un ruolo di prevenzione delle offese all’integrità fisica dei cittadini.

Anche una parte della dottrina ha individuato nella colpa per violazione di legge penale il criterio di imputazione dell’evento non voluto di cui agli artt. 83 e 586 cod. pen., sostenendo che ogni norma penale svolge, accanto alla funzione repressiva, anche una funzione preventiva, contenendo il divieto di realizzare una determinata condotta che, per la sua spiccata pericolosità, appare contraria alle esigenze di prevenzione poste alla base dell’incriminazione di un reato colposo. Poiché, nei casi di aberratio, la condotta costituisce violazione della legge penale che punisce il reato doloso, ne discende che l’ulteriore evento non voluto, cagionato da tale condotta, risulta colposo per inosservanza di legge, ai sensi dell’art. 43 cod. pen.. Si tratterebbe di una colpa presunta, che rende superflua qualsiasi indagine sulla prevedibilità dell’evento o comunque sulla configurabilità di una effettiva imprudenza, negligenza o imperizia.

E’ bene mettere subito in rilievo che la tesi della colpa specifica per violazione della legge penale, o della colpa presunta, nella sostanza non si differenzia dalla tesi della responsabilità oggettiva, la quale viene in realtà verbalmente camuffata sotto le vesti di una colpa (sempre ed immancabilmente presente), consistente nella violazione di quella stessa legge penale che incrimina il delitto base doloso. Le due tesi invero portano a risultati sostanzialmente identici, ossia a ritenere la sufficienza del solo nesso causale per fondare la responsabilità rispetto all’evento non voluto. Ciò del resto è stato avvertito anche dalla più accorta giurisprudenza, che ha evidenziato la sostanziale identità dell’accollo dell’evento morte o lesioni a titolo di responsabilità oggettiva o di «colpa presunta», pur se mascherata dietro il riferimento alla colpa specifica da inosservanza della legge penale secondo la tradizionale regola del «versari in re illicita[6]».

Un terzo orientamento sovente sostenuto dalla giurisprudenza unitamente alla tesi della colpa presunta per violazione della legge penale richiede, per poter imputare l’evento morte o lesioni ex art. 586 cod. pen., oltre al nesso causale, anche la prevedibilità dell’evento, facendo però riferimento ad una prevedibilità in astratto. Questo indirizzo seguito soprattutto da decisioni in tema di morte da assunzione di sostanze stupefacenti si sostanzia nella quasi totalità dei casi, in un richiamo ad un criterio di prevedibilità in re ipsa, meramente formale e di stile, senza che sia condotta in realtà nessuna indagine, in concreto, sul decorso causale e sull’evento finale, per ricostruire le specifiche modalità di verificazione dell’evento che, nel caso di specie, avrebbero reso prevedibili la morte o le lesioni. Solitamente si parla di prevedibilità desunta dalla notorietà, dall’ordinarietà o dalla frequenza del pericolo connesso ad un certo tipo di condotta, o di prevedibilità secondo l’id quod plerumque accidit, o desunta dal pericolo insito, in via presuntiva, nel delitto doloso di base. In particolare, nel caso di violazioni della legge sugli stupefacenti, la prevedibilità, sempre valutata in astratto, viene desunta dalla notorietà della frequenza di casi letali dopo l’assunzione di determinate sostanze stupefacenti[7].

In tutti questi casi la prevedibilità dell’evento è automaticamente dedotta, in astratto, dalla indubbia destinazione della droga ceduta all’assunzione e dalla constatazione che ciò, secondo la comune esperienza, può cagionare la morte dell’assuntore. E’ però evidente che il criterio della prevedibilità in astratto è invocato come mero omaggio formale al principio di colpevolezza, e che in realtà anche questa tesi della prevedibilità in astratto si pone sullo stesso piano di quella della responsabilità oggettiva e di quella della colpa presunta per violazione della legge penale. In tutti e tre i casi, infatti, in sostanza la responsabilità viene fondata sul solo nesso causale, perché l’evento morte non voluto viene sempre messo a carico del soggetto che ha compiuto il delitto doloso sulla sola base del nesso di causalità tra tale delitto e l’evento non voluto, indipendentemente da una indagine sull’elemento psicologico.

Un quarto orientamento soprattutto dottrinario è costituito dalla tesi della c.d. responsabilità da rischio totalmente illecito[8]. Secondo questa tesi, nella fattispecie di cui all’art. 586 cod. pen. l’autore del reato base risponde dell’evento letale non voluto a titolo di responsabilità oggettiva, ossia per una responsabilità senza dolo né colpa, fondata sul solo nesso causale, ma che tuttavia non si porrebbe in contrasto con il principio di colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. E ciò perché il principio di responsabilità colpevole, o della personalità dell’illecito, non implicherebbe necessariamente una responsabilità per dolo o per colpa, ma solo che il soggetto sia eticamente rimproverabile per il fatto, ossia che vi sia la possibilità di un suo dominio personale sul fatto. Questa possibilità sarebbe assicurata dalla prevedibilità ed evitabilità dell’evento nella situazione concreta, requisiti questi che risulterebbero dal combinato disposto dell’art. 42, comma 3, con l’art. 45 cod. pen., che dà rilevanza al caso fortuito (imprevedibilità dell’evento) ed alla forza maggiore (inevitabilità dell’evento) in tutte le forme di responsabilità. Questa teoria parte dal presupposto che la colpa richiede la violazione di una regola cautelare nell’ambito di una attività in se stessa lecita, ossia che il soggetto superi il limite di rischio, che accompagna tutte le attività lecite e che gli è consentito dall’ordinamento. Sarebbe invece impossibile muovere un rimprovero per colpa a chi agisce in un ambito illecito, poiché, quando è già vietata l’attività di base, non è possibile configurare regole cautelari e quindi non si può parlare di colpa. Quindi, responsabilità per colpa e responsabilità da rischio totalmente illecito avrebbero in comune il requisito della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, ma mentre nella prima ipotesi la colpa si connoterebbe, ulteriormente, per la violazione di una regola cautelare con superamento del rischio consentito, nella seconda ipotesi, poiché l’agente tiene una condotta base illecita, non sarebbero necessari la violazione di regole cautelari o il superamento del rischio consentito, ma l’assunzione del rischio totalmente illecito giustificherebbe di per sé l’attribuzione della responsabilità ed un trattamento sanzionatorio più rigoroso di quello previsto per i reati colposi.

Un ultimo orientamento sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni infine ravvisa nell’art. 586 una ipotesi di responsabilità per colpa in concreto, concepita ed accertata nei suoi requisiti ordinari, imperniata quindi sulla violazione di regole cautelari di condotta e sulla necessità di un accertamento della effettiva prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento non voluto da parte dell’agente[9].

Al fine di individuare la soluzione preferibile, non può ovviamente prescindersi dal principio di colpevolezza e dalle sentenze della Corte costituzionale che gli hanno esplicitamente riconosciuto rango costituzionale[10].

È noto che già con la fondamentale sentenza n. 364 del 1988, la Corte costituzionale, sulla base di una approfondita esegesi dell’art. 27 Cost. (imperniata sul collegamento tra il principio di personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa della pena, nell’ambito di una generale visione liberalgarantistica dell’ordinamento penale e dei rapporti tra Stato e cittadino), giunse ad identificare la «responsabilità personale», richiesta da tale norma, con la «responsabilità per fatto proprio colpevole» e ad affermare che lo Stato ha il dovere di assicurare al cittadino che non lo punirà senza preventivamente informarlo su ciò che è vietato o comandato e di assicurargli che «sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate». Il principio di colpevolezza, dunque, «più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio, garantistico, di legalità, vigente in ogni Stato di diritto», e pone «un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, nel senso che vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena». E, secondo la Corte, tali requisiti subiettivi minimi richiedono che «il fatto imputato, perchè sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica». Invero, «non avrebbe senso la “rieducazione” di chi, non essendo almeno “in colpa” (rispetto al fatto) non ha, certo, bisogno di essere “rieducato”».

Con la successiva sentenza n. 1085 del 1988, la Corte costituzionale precisò che «perché l’art. 27, primo comma, Cost., sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili». E ciò a prescindere dalla circostanza che l’elemento in discussione si identifichi o meno con l’evento del reato: rimanendo sottratti alla esigenza della «rimproverabilità» unicamente «gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l’area del divieto, condizionano, appunto, quest’ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi)». La medesima pronuncia ha inoltre esplicitato in modo chiaro che il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu «contrasta con l’art. 27, primo comma, Cost.», affermando che da tale parametro è richiesto «quale essenziale requisito subiettivo d’imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l’autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato. (…) E’ ben vero che la massima: “qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu” implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il “versari in re illicita” (…). Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi (…) nella produzione dei quali la volontà del reo è rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo. Dal primo comma dell’art. 27 Cost. (...) non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell’incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o … tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento». E’ interessante ricordare che la sentenza in esame riferì il requisito della colpa anche ad attività illecite, come la sottrazione e l’impossessamento di una cosa mobile altrui al fine di farne un uso momentaneo (art. 626 comma 1 n. 1, cod. pen.), osservando che «la mancata restituzione (...) non è addebitabile al soggetto agente (...) se dovuta a caso fortuito o a forza maggiore», ossia se non dovuta a colpa.

Orbene, alla luce dei principi costituzionali appena ricordati per come affermati dalla Corte costituzionale, è evidente come una interpretazione adeguatrice dell’art. 586 cod. pen. imponga di disattendere sia il primo orientamento che formula una ipotesi di responsabilità oggettiva pura e propria, fondata esclusivamente sul nesso di causalità materiale, sia gli altri orientamenti che, come rilevato, nella sostanza e negli effetti non si differenziano da una ipotesi di responsabilità oggettiva (che viene in realtà camuffata, ma non superata), come quello della colpa presunta per violazione di legge penale (immancabilmente presente in tutti i casi), o come quello che richiede, oltre al nesso causale, una prevedibilità in astratto dell’evento, ossia una prevedibilità in re ipsa meramente formale e (sempre immancabilmente) presunta in tutti i casi sulla base dalla notorietà della frequenza delle conseguenze letali derivate dall’assunzione di certe sostanze stupefacenti.

Le richiamate sentenze costituzionali, invero, hanno esplicitamente affermato che si pone in contrasto con l’art. 27 Cost. la previsione sia di una responsabilità oggettiva pura o propria sia del principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu. Inoltre, l’evento non voluto rientra certamente fra quelli più significativi della fattispecie dell’art. 586 cod. pen. e quindi, per la legittima punibilità del fatto, deve essere accertata la colpa dell’agente in relazione a tale evento. Ed il chiaro riferimento fatto dalla sentenza n. 364 del 1988 alla colpa quale «violazione di regole preventive» collegate «al complessivo risultato ultimo vietato», esclude che possa ritenersi conforme al principio costituzionale qualsiasi interpretazione che si basi sulla teoria della colpa presunta per violazione di legge penale.

D’altra parte, la ricostruzione del principio di colpevolezza per come operata dalla Corte costituzionale, non si concilia nemmeno con la tesi della responsabilità da rischio totalmente illecito. Il principio invero richiede, come requisito subiettivo minimo di imputazione, la colpa dell’agente in relazione a tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie, o quanto meno agli elementi più significativi di essa, ed impedisce di addebitare all’agente anche gli ulteriori eventi che a lui non sono rimproverabili. Inoltre, la sentenza n. 364 del 1988 ha anche fatto esplicito riferimento alla colpa quale violazione di regole preventive collegate al complessivo risultato ultimo vietato, in tal modo non accogliendo la tesi di una colpa contrassegnata solo dalla prevedibilità ed evitabilità e non anche dalla violazione di una regola cautelare. La stessa sentenza ha anche precisato che «la colpevolezza costituzionalmente richiesta ... non costituisce elemento tale da poter essere, a discrezione del legislatore, condizionato, scambiato, sostituito con altri o paradossalmente eliminato». In definitiva, secondo la Corte costituzionale, non vi è posto nel nostro ordinamento per una terza forma di responsabilità colpevole, diversa da quella dolosa o colposa, e quindi la colpevolezza non potrebbe essere sostituita, a discrezione del legislatore, da altri elementi, quale il rischio da attività totalmente illecita.

Ne consegue che l’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie dell’art. 586 cod. pen., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base. Un diverso orientamento in ordine al collegamento soggettivo necessario per l’imputazione dell’ulteriore evento non voluto imporrebbe di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’istituto per contrasto con il principio di colpevolezza, secondo cui deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli «elementi più significativi della fattispecie», fra i quali il «complessivo ultimo risultato vietato», se non si vuole incorrere nel divieto, ex art. 27, commi 1 e 3, Cost. della responsabilità oggettiva c.d. pura o propria.

Va dunque confermato che mentre, da un lato, una interpretazione adeguatrice che rispetti il principio costituzionale di colpevolezza esige che nella fattispecie dell’art. 586 cod. pen. la morte o le lesioni non volute devono essere imputate per colpa, da un altro lato, non esistono insuperabili ostacoli, normativi o logici, contro questa interpretazione.

Occorre però stabilire se si tratta della stessa colpa presente nelle normali fattispecie colpose ovvero di una colpa che subisca delle modificazioni nella sua struttura e nel suo contenuto in conseguenza del fatto che l’agente, attraverso il delitto base doloso, si è collocato in un’area di illiceità penale.

In particolare, è opportuno ribadire che, ai fini della imputazione della conseguenza ulteriore non voluta di un reato base doloso, la colpa non può essere presunta in forza della sola violazione della legge incriminatrice del reato doloso. Per quanto riguarda più specificamente l’ipotesi di morte o lesioni personali conseguenti alla cessione illecita di sostanze stupefacenti, la regola cautelare, la cui inosservanza può costituire base della colpa, non può individuarsi nella stessa norma penale che incrimina la cessione dello stupefacente. La legislazione in materia di sostanze stupefacenti, invero, non svolge in via diretta un ruolo di prevenzione delle offese alla integrità fisica dei cittadini, ma, come già rilevato, ha come scopo diretto ed immediato delle sue norme incriminatrici la repressione del mercato illegale della droga e soltanto come scopo ulteriore, collocato sullo sfondo, la tutela della salute pubblica, accanto alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico. Del resto, a conferma che l’attuale legislazione in materia non ha una destinazione diretta ed immediata alla tutela dell’integrità fisica dei cittadini, sta la scelta del legislatore a favore della non punibilità del consumo personale di stupefacenti.

Anche nel caso di morte o lesioni conseguenti all’assunzione di sostanze stupefacenti, dunque, la responsabilità per questi ulteriori eventi a carico di colui che le abbia illecitamente cedute potrà essere ravvisabile quando sia accertata la sussistenza, da un lato, di un nesso di causalità fra la cessione e l’evento morte o lesioni, non interrotto da fattori eccezionali sopravvenuti, e, da un altro lato, che l’evento non voluto sia comunque soggettivamente collegabile all’agente, ovvero sia a lui rimproverabile a titolo di colpa in concreto, valutata secondo i normali criteri di valutazione della colpa nei reati colposi. Occorrerà quindi che l’agente abbia violato una regola cautelare diversa dalla norma (della legge sugli stupefacenti) che incrimina il delitto base e che sia specificamente diretta a prevenire la morte o le lesioni personali. Occorrerà poi una valutazione positiva di prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento, compiuta ex ante, sulla base del comportamento che sarebbe stato tenuto da un omologo agente modello, tendendo peraltro conto di tutte le circostanze della concreta e reale situazione di fatto. Si dovrà pertanto verificare se dal punto di vista di un agente modello, nella situazione concreta, risultava prevedibile l’evento morte come conseguenza dell’assunzione, da parte di uno specifico soggetto, di una determinata dose di droga. E’ poi evidente che per agente modello non si deve intendere uno «spacciatore modello», ma una persona ragionevole, fornita, al pari dell’agente reale, di esperienza nel campo della cessione ed assunzione di sostanze stupefacenti e consapevole della natura e dei normali effetti della sostanza che cede.

Lo spacciatore[11] pertanto potrà ritenersi esente da colpa quando una attenta e prudente valutazione di tutte le circostanze del caso concreto non faccia prevedere l’evento morte o lesioni. La colpa potrà invece essere ravvisabile quando la morte sia prevedibile, ed anche quando non sia prevista perché una circostanza pericolosa sia stata ignorata per colpa o sia stata erroneamente valutata sempre per colpa.

In sintesi, la colpa non potrà essere ravvisata nella prevedibilità in astratto dell’evento morte, desunta dalla presunta frequenza, o dalla notorietà, o dalla ordinarietà di tale evento in seguito alla assunzione di sostanza stupefacente, o in un pericolo che sarebbe presuntivamente insito in qualsiasi cessione della sostanza, ovvero nella natura di talune sostanze più pericolose di altre. La colpa andrà accertata sempre e soltanto in concreto, sulla base delle circostanze di fatto di cui il soggetto era o poteva essere a conoscenza e che dimostravano il concreto pericolo di un evento letale a seguito dell’assunzione di una determinata dose di droga da parte dello specifico soggetto. All’agente è peraltro richiesto un particolare livello di attenzione e di prudenza, sicché lo stesso potrà essere ritenuto in colpa qualora non si sia astenuto dal cedere lo stupefacente dinanzi ad una circostanza dal significato equivoco o comunque quando abbia ignorato una circostanza pericolosa o sia caduto in errore sul suo significato e l’ignoranza o l’errore siano determinati da colpa, e siano quindi a lui rimproverabili perché non inevitabili.

In via generale dovrà dunque escludersi la responsabilità del cedente per la morte del cessionario in tutte le ipotesi in cui la morte risulti in concreto imprevedibile, in quanto intervenuta per effetto di fattori non noti o non rappresentabili dal cedente, come potrebbe verificarsi, ad esempio, nel caso di cessione di una sostanza «normale» per qualità e quantità e di morte dovuta alla contemporanea assunzione di alcol che abbia accentuato gli effetti della droga (a meno che lo spacciatore sapesse che la vittima era dedita all’uso di alcol o intendesse farne uso in quella occasione); o nel caso di consumo dello stupefacente congiunto all’uso di psicofarmaci, o di consumo da parte di soggetto apparentemente giovane e in buono stato di salute, ma in realtà con gravi difetti fisici, o in precario stato di salute, o con grave vizio cardiaco; o anche nel caso in cui l’agente abbia ceduto un normale quantitativo di droga ad un soggetto presentatosi come consumatore diretto senza che fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad un terzo con un ridotto grado di tolleranza (e quindi altamente a rischio di overdose) e ciò quand’anche fosse prevedibile l’ulteriore cessione ad altri.[12]

Potrà, invece, nei singoli casi concreti, ravvisarsi una responsabilità del cedente quando questi sia stato a conoscenza che il cessionario o il soggetto che di fatto avrebbe assunto lo stupefacente ceduto era dedito all’alcol o al consumo di psicofarmaci o aveva, al di là dell’apparenza, gravi difetti fisici ovvero anche quando la mancata conoscenza di uno di questi fattori sia derivata da errore o da ignoranza evitabili, e quindi inescusabili, come ad esempio nel caso in cui il soggetto abbia ceduto la sostanza ad un acquirente che denotava un alito vinoso, o che presentava caratteristiche esteriori di fragilità fisica o di consumatore di medicinali, o abbia ceduto la droga all’interno di una discoteca o di altro locale in cui solitamente si fa uso di sostanze alcoliche (essendo quindi altamente probabile una assunzione congiunta di droga e alcol), ovvero l’abbia ceduta a soggetti minorenni di cui poteva essere conoscibile la minore resistenza a quella determinata sostanza. Analogamente, la colpa in concreto potrebbe essere configurabile quando lo spacciatore abbia ceduto eroina ad un soggetto di cui conosceva i precedenti tentativi di disintossicazione e quindi la maggiore esposizione al rischio di overdose; o quando abbia ceduto sostanza micidiale come l’eroina a persona di giovanissima età, di esile costituzione fisica e che evidenziava la precedente assunzione di tranquillanti.

Nel caso poi in cui siano intervenute plurime, successive cessioni, la necessità che la responsabilità sia fondata su una colpa da accertarsi in concreto comporta che in tanto la colpa potrà ritenersi esistente in quanto la morte sia intervenuta per un fattore che era in concreto prevedibile dal cedente. Così[13], ad esempio, potrebbe non ravvisarsi la colpa nella ipotesi in cui la morte del terzo assuntore (non conosciuto e non conoscibile dal cedente) sia stata determinata da fattori non noti o non conoscibili dallo spacciatore, come nel caso che l’assuntore finale abbia consumato la droga insieme ad alcol, o a psicofarmaci, o sia affetto da vizi cardiaci o da gravi difetti fisici. In via generale, quindi, nel caso di plurime cessioni non potrà ravvisarsi una responsabilità dell’originario cedente quando questi non conosceva o non era in grado di conoscere l’identità dei successivi cessionari e soprattutto la presenza di particolari fattori che abbiano aumentato il rischio di decesso. Peraltro, anche in caso di plurime successive cessioni potrà ravvisarsi una colpa del cedente qualora questi particolari fattori relativi ai successivi cessionari non siano stati nel caso concreto conosciuti dal cedente per errore o ignoranza evitabili, e quindi colpevoli, come ad esempio nel caso che l’agente abbia ceduto la droga sapendo o potendo sapere che il cedente l’avrebbe a sua volta venduta in una discoteca o in un simile locale (e che quindi vi era in concreto una elevata probabilità che fosse assunta insieme ad alcol), o l’avrebbe venduta in una scuola o a minorenni.

Analogamente, anche nel caso di plurime cessioni, potrà ravvisarsi la colpa in capo al cedente indiretto quando il maggior rischio non dipende dalla identità e dalle caratteristiche personali dell’assuntore ma è riconducibile alla quantità, natura e qualità dello stupefacente, ed in particolare alle modalità con cui esso sia stato nel caso concreto eventualmente miscelato con altre sostanze tali da accentuarne in concreto la potenzialità lesiva (a meno che, in tali specifici casi di maggiore rischio per la vita di qualsiasi potenziale consumatore, non sia addirittura ravvisabile il dolo eventuale).

In conclusione, va dunque affermato il principio che, nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 cod. pen. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale.[14]



[1] Cass. 17.4.1939; Cass. 10.4.1945, Gatta; Sez. I, 14.4.1982, Maccanti, m. 156067; Sez. I, 25.3.1985, Di Maio, m. 169934; Sez. VI, 8.3.1988, Lucarelli, m. 179343; Sez. II, 14.2.1990, Bevilacqua, m. 184598; Sez. I, 28.5.1993, Cimare, m. 194773; Sez. II; 15.2.1996, Caso, m. 205374; Sez. IV, 25.1.2006, Bellino, m. 234187.

[2] Sez. I, 3.5.1986, Volta, m. 174082; Sez. VI, 4.11.1988, Soloperto, m, 179930 (per le cessioni successive); Sez. VI, 7.3.1989, Foianesi, m. 181546; Sez. IV, 19.10.1989, Angelelli, m. 183623; Sez. VI, 4.3.1989, Bodini, m. 183885; Sez. VI, 22.3.1990, Pergolesi, m. 186020; Sez. IV, 28 giugno 1991, Greco, m. 188768; Sez. IV, 28.2.1994, Preto, m. 197762; Sez. IV, 31.10.1995, D’Aguanno, m. 203618; Sez. VI, 19 novembre 1997, Paralupi, m. 210441; Sez. VI, 5.6.2003, Ciceri, m. 226254.

[3] Sent. n. 198 del 1982 e la sent. n. 42 del 1966.

[4] (così Sez. I, 2.4.1986, Navarino, m. 174058; Sez. IV, 11.1.1995, Masser, m. 201242; ; Sez. III, 6.12.1995, Sonderegger, m. 204469).

[5] Sez. V, 9.11.1988, Montoli, m. 183396; Sez. VI, 27.10.1992, Nicolace, m. 193239; Sez. VI, 11.3.1994, Melotto, m. 197848).

[6] Sez. I, 19.10.1998, D’Agata, m. 211611.

[7] Sez. VI, 6.12.1988, Coppola, m. 180420(; Sez. V, 9.11.1988, Montoli, m. 183396; Sez. VI, 14.11.1988, Buzzo, m. 179839; Sez. VI, 24.1.1989, Irritano, m. 180747 ; Sez. VI, 27.10.1992, Nicolace, m. 193239; Sez. VI, 11.3.1994, Melotto, m. 197848.

[8] PAGLIARO Principi 325 e ss.; ARDIZZONE Le ipotesi di responsabilità oggettiva: tra dogmatica e politica criminale, 1989.

[9] da Sez. I, 19 ottobre 1998, n. 11055, D’Agata, m. 211611; da Sez. I, 14.11.2002, n. 2595, Solazzo, m. 223841; e da Sez. VI, 29.11.2007, n. 12129, Passafiume, m. 239585.

[10] Sez. Un. n. 22676/2009.

[11] Sez. Un. n. 22676/2009.

[12] Sez. Un. n. 22676/2009.

[13] Sez. Un. n. 22676/2009.

[14] Sez. Un. n. 22676/2009.