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Londra diventa il refugium peccatorum dei criminali europei? La sfida post-Brexit del Regno Unito nella lotta alla criminalità cross-border

Brexit e criminalità
Brexit e criminalità

Indice:

1. L’efficienza del sistema penale inglese cross-border nel dopo Brexit

2. Gli strumenti europei a servizio della lotta contro il crimine internazionale

3. Prospettive e soluzioni possibili

4. Conclusioni

 

1. L’efficienza del sistema penale inglese cross-border nel dopo Brexit

Una delle sfide poste dalla Brexit si giocherà per il Regno Unito sul piano della cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale.

Discutendo con alcuni colleghi, rappresentanti degli ordini professionali inglese e irlandese nell’ambito della CCBE (Council of Bars and Law Societies of Europe), ho notato che questo tema desta molta preoccupazione tra i professionisti e tra i giudici delle corti civili e penali.

Esiste infatti un rischio molto elevato per il Regno Unito che le sinergie e gli automatismi creati da organismi quali Eurojust (Agenzia dell’UE per la cooperazione giudiziaria penale) si perdano nel momento in cui, uscendo dal sistema, la cooperazione in ambito penale diventi più difficoltosa e lenta. Un po’ come passare da un’autostrada a quattro corsie a un sentiero sterrato.

 

2. Gli strumenti europei a servizio della lotta contro il crimine internazionale

I giudici inglesi sono consapevoli che lasciare l’UE influenzerà ogni passaggio della giustizia in materia penale, a partire dalle indagini che non potranno beneficiare delle sinergie del JIT (Joint Investigation Teams), al meccanismo del c.d. Eurobail – vale a dire del European Supervision Order e delle misure alternative alla detenzione nelle more del procedimento – all’European Arrest Warrant, senza il quale sarà molto più difficile far transitare chi è detenuto in UK verso il Paese dove deve essere tenuto il procedimento e viceversa, e altri strumenti quali l’European Investigation Order per la collection of evidence.

La velocità e l’efficienza della cooperazione è in gran parte merito dei data base internazionali che consentono, tra le altre cose, la ricerca di precedenti penali di soggetti indagati, piuttosto che il tracciamento delle impronte digitali e del DNA. Esistono complessi software che gestiscono una impressionante massa critica di informazioni di questo tipo, quali ad esempio ECRIS – il data base europeo dei casellari giudiziari – consentendo di ricevere in pochi minuti i risultati di una ricerca che altrimenti avrebbe richiesto giorni, settimane, a volte mesi.

Pensate al giudice inglese che arriva in udienza di primo mattino per un arresto notturno e l’avvocato dell’imputato che dichiara “non ci sono precedenti penali, Vostro Onore”. No, non nel Regno Unito, infatti. Ma all’estero? Allora il giudice scopre nell’arco di pochi minuti, grazie ai superpoteri informatici, che l’imputato ha un lunghissimo elenco di precedenti penali in altri quattro Paesi dell’UE.

Una volta fuori dall’UE, addio superpoteri.

Altra questione importante è la procedura di estradizione. Gli automatismi creati dall’European Arrest Warrant dovranno – in chissà quanto tempo – essere rimpiazzati da trattati EU-UK sull’estradizione (al momento sembra ci sia già allo studio una bozza).

L’Irish border anche in questa circostanza rappresenta un tema da non trascurare. Irlanda e Regno Unito sono cugini che non perdono occasione per detestarsi anche pubblicamente e senza esclusione di colpi. Il confine tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord (che fa parte del Regno Unito) è, storicamente, una ferita aperta e, nei fatti, un confine poco presidiato. Tra le forze di polizia della Repubblica d’Irlanda (irlandesi) e dell’Irlanda del Nord (inglesi) vengono scambiate informazioni quotidianamente rispetto a possibili violazioni o reati che in un anno sono quantificate nell’ordine di 60-70.000. Questo scambio è diretto, non passa attraverso agenzie europee o data base internazionali.

 

3. Prospettive e soluzioni possibili

Cosa si può fare? La prima soluzione che viene in mente è quella di negoziare accordi bilaterali o multilaterali che rimettano le cose più o meno nello stato in cui si trovavano prima dell’uscita del Regno Unito dall’UE.

Vero è che la negoziazione di un trattato internazionale ha una durata media di due anni, quindi non poco tempo.

Ad ogni buon conto, rispetto all’utilizzo dei software strategici di gestione dati, il Regno Unito dovrà dimostrare di essere in linea con i requisiti della normativa GDPR europea nel lungo periodo (per il momento si è deciso di prolungare gli accordi esistenti sulla sicurezza delle informazioni).

In ogni caso sembra inevitabile un effetto a dir poco “disruptive” nella quotidiana gestione da parte di coloro che operano nel sistema, e che erano abituati a utilizzare determinati strumenti sui quali affidarsi rispetto a obiettivi, tempi, costi e risultati.

Non è di trascurabile importanza anche l’impatto culturale di questa discontinuità. L’anglosassone non è un tipo particolarmente fantasioso e lavora molto volentieri su form (i.e. modelli, formulari), procedure, box ticking e via dicendo. La discontinuità quindi non sarà apprezzata, nemmeno a livello culturale, soprattutto nella misura in cui porterà a un sistema meno efficiente, più lento, insomma una situazione in cui il Regno Unito rischia di ritrovarsi “at the back of the queue” nella cooperazione giudiziaria penale internazionale.

 

4. Conclusioni

Se il Regno Unito perde le sinergie europee nella lotta alla criminalità organizzata e diventa preda della burocrazia forense internazionale, rischia di diventare una sorta di refugium peccatorum per i ricercati internazionali. Un Paese dove è facile nascondersi alle maglie della giustizia perché l’efficienza della cooperazione giudiziaria in ambito penale si è persa.

Se poi, come è prefigurabile, sarà anche difficile e lento il processo di estradizione per mandare il soggetto indagato dal Regno Unito in un altro Paese per farlo processare, siamo davvero nei guai. L’ironia in tutto questo è che proprio il Regno Unito a suo tempo aveva proposto agli Stati Membri dell’Unione Europea di applicare il principio della reciprocità nelle tematiche cross-border.