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L’uso della carta di credito in un Ente di diritto pubblico e il reato di peculato

L’utilizzo dei mezzi elettronici per le operazioni di acquisti di beni e/o servizi è entrato a far parte del nostro vivere quotidiano. Vuoi per ragioni di comodità, di sicurezza o anche per una legittima scelta del tutto personale, il danaro contante assume oggi un ruolo di secondo piano. In effetti, l’utilizzo delle carte di credito nelle aziende concesse in detenzione a personale direttivo o ad altri soggetti con funzione dirigenziale resta un utile e valido strumento laddove lo stesso uso sia pertinente a sostenere spese, ottenere rimborsi in ragione dei compiti assegnati, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro o del “dante causa”.

Di conseguenza il sistema elettronico è anche un utile mezzo per avere contezza, verificare il corretto impiego in termini di legalità di quanto viene sborsato per i costi sostenuti da parte di un impresa. Tra questi costi si annoverano anche le cosiddette spese di rappresentanza, opportune e necessarie se giustificate come spese effettuate per offrire un’immagine positiva dell’azienda.

Tuttavia, qualora tali spese effettuate da soggetti facenti capo ad una società di diritto pubblico non siano da ascriversi a “spese di rappresentanza”, ma quali costi sostenuti per fatti e circostanze assolutamente personali senza alcuna inerenza all’attività istituzionale e in diverse occasioni neppure documentate, si può ritenere quella fattispecie penalmente rilevante?

Innanzitutto cominciamo col dire che gli amministratori di società di diritto pubblico rientrano nella nozione di pubblico ufficiale secondo quando recita l’articolo 357 del codice penale.

“Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica Funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.

A tale nozione ben si sposa la figura di un amministratore di una società di diritto pubblico esercente l’attività di trasporto pubblico locale, in quanto quel servizio è disciplinato da norme di diritto pubblico, da atti autoritativi e caratterizzato dalla formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione.

Fatta questa precisazione esaminiamo un caso concreto, successivamente ritenuto penalmente rilevante.

L’amministratore di una società di diritto pubblico ha in uso una carta di credito aziendale.

La stessa viene adoperata da questi per pranzi, cene, alberghi, acquisti di biglietti aerei e altre spese per se e per altri.

Questi costi, solo in parte documentati, vengono successivamente indicati nel bilancio di esercizio tra le voci “spese di rappresentanza”.

Ma cosa si intende per spese di rappresentanza?

Le spese di rappresentanza sono quelle effettivamente sostenute e documentate, effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni ed il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza per far nascere benefici economici per l’impresa o che abbia una coerenza con l’attività pertinente al settore di interesse.

Se quelle sono in linea con quei principi e dunque rispondenti ai requisiti di congruità e inerenza secondo l’art. 108 comma 2 del T.U.I.R. sono anche deducibili [1].

Sulle spese di rappresentanza si è più volte espressa anche la Corte dei Conti che ha ribadito non solo la necessità di documentare qualsiasi spesa sostenuta da parte di enti pubblici ma entrando nelle specifico le qualifica come quelle destinate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente al fine di crescere il prestigio dell’immagine dello stesso e darvi lustro nel contesto sociale in cui si colloca [2].

Orbene, da una verifica effettuata, nonché da controlli e dall’acquisizione di elementi soggettivi ed oggettivi, emergeva che contrariamente a quanto sostenuto, le spese indicate come di rappresentanza erano invece pertinenti a pranzi e cene effettuate con amici, compagne, coniuge, soggiorni presso lussuosi alberghi.

Pertanto in ragione di tali documentate circostanze, essendo palesemente esclusa l’inerenza all’attività istituzionale, si può ragionevolmente ritenere violato l’articolo 314 del Codice Penale (peculato) il quale testualmente recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. / Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.

Occorre sottolineare che se in qualche occasione i soggetti processati per il reato di cui sopra sono stati prosciolti da quel capo di imputazione, gli stessi tuttavia non sono sfuggiti al controllo della Corte dei Conti la quale come già ribadito in numerose decisioni e secondo quanto previsto dalla legge nr. 20 del 1994 “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica è personale” [3].

Tornando alla fattispecie penale occorre dire che l’elemento materiale del delitto di peculato consiste nel fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che si appropri o distragga danaro o altra cosa mobile appartenente alla Pubblica Amministrazione e di cui abbia il possesso per ragione di Ufficio o servizio.

L’indebito utilizzo delle carte di credito per finalità del tutto estranee alla Pubblica Amministrazione si ritiene ragionevolmente possa integrare l’ipotesi di peculato.

Di rilievo è la condizione che numerose spese sostenute non siano state giustificate né documentate, né può ritenersi esimente del reato aver compiuto atti successivi al fine di reintegrare quanto indebitamente sottratto e utilizzato a danno della “res publica”.

La definizione di possesso o disponibilità comprende in sé una disponibilità immediata con lo strumento elettronico della carta di credito di danaro e quindi di un bene oggetto di tutela della norma, una tutela che si risolve anche nella medesima disponibilità giuridica facente capo al pubblico ufficiale o all’incaricato del pubblico servizio [4].

In materia di spesa pubblica, al di là di qualsivoglia modalità utilizzata, deve farsi espresso riferimento anche agli articoli 3, 81, 97, 100 e 103 della Costituzione che nella stabiliscono alcuni principi, ovvero

- “ogni tipo di spesa deve avere una propria autonoma previsione normativa che non può essere la mera indicazione in un bilancio

- L’impiego delle somme deve concretizzarsi in modo conforme alle corrispondenti finalità istituzionali

- Tale impiego deve rispettare i principi di efficacia, economicità e trasparenza.

- In conclusione “sussiste il generale obbligo di giustificazione della spesa secondo le precipue finalità istituzionali” [5].

Nel caso trattato è stato in effetti riscontrato che le spese sostenute dall’amministratore di quell’Ente erano state illecitamente rivolte al soddisfacimento di scopi e finalità esclusivamente personali.

La prova della condotta antigiuridica, tra le altre, è stata fornita paradossalmente dai riscontri bancari e dagli estratti conto rilasciati dalla banca gerente le carte di credito utilizzate. E pensare che il soggetto le aveva introdotte perché dovevano garantire trasparenza e liceità della spesa pubblica.



[1] D.M. 19.11. 2008 e Circolare Agenzia Entrate 34/E del 13 luglio 2009

[2] Corte dei conti sent.1181/2009 Sez Giurisdizionale per la Regione Lazio; Corte dei conti Sezione Giurisdizionale per la Emilia Romagna del 28 maggio 2008

[3] Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale per la Emilia Romagna nr.1209/06

[4] Cassazione Penale - Sezione VI sent.137 del 01.02.2006

[5] Cassazione Penale - Sezione VI sent. 975 del 14.05.2009

L’utilizzo dei mezzi elettronici per le operazioni di acquisti di beni e/o servizi è entrato a far parte del nostro vivere quotidiano. Vuoi per ragioni di comodità, di sicurezza o anche per una legittima scelta del tutto personale, il danaro contante assume oggi un ruolo di secondo piano. In effetti, l’utilizzo delle carte di credito nelle aziende concesse in detenzione a personale direttivo o ad altri soggetti con funzione dirigenziale resta un utile e valido strumento laddove lo stesso uso sia pertinente a sostenere spese, ottenere rimborsi in ragione dei compiti assegnati, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro o del “dante causa”.

Di conseguenza il sistema elettronico è anche un utile mezzo per avere contezza, verificare il corretto impiego in termini di legalità di quanto viene sborsato per i costi sostenuti da parte di un impresa. Tra questi costi si annoverano anche le cosiddette spese di rappresentanza, opportune e necessarie se giustificate come spese effettuate per offrire un’immagine positiva dell’azienda.

Tuttavia, qualora tali spese effettuate da soggetti facenti capo ad una società di diritto pubblico non siano da ascriversi a “spese di rappresentanza”, ma quali costi sostenuti per fatti e circostanze assolutamente personali senza alcuna inerenza all’attività istituzionale e in diverse occasioni neppure documentate, si può ritenere quella fattispecie penalmente rilevante?

Innanzitutto cominciamo col dire che gli amministratori di società di diritto pubblico rientrano nella nozione di pubblico ufficiale secondo quando recita l’articolo 357 del codice penale.

“Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica Funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.

A tale nozione ben si sposa la figura di un amministratore di una società di diritto pubblico esercente l’attività di trasporto pubblico locale, in quanto quel servizio è disciplinato da norme di diritto pubblico, da atti autoritativi e caratterizzato dalla formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione.

Fatta questa precisazione esaminiamo un caso concreto, successivamente ritenuto penalmente rilevante.

L’amministratore di una società di diritto pubblico ha in uso una carta di credito aziendale.

La stessa viene adoperata da questi per pranzi, cene, alberghi, acquisti di biglietti aerei e altre spese per se e per altri.

Questi costi, solo in parte documentati, vengono successivamente indicati nel bilancio di esercizio tra le voci “spese di rappresentanza”.

Ma cosa si intende per spese di rappresentanza?

Le spese di rappresentanza sono quelle effettivamente sostenute e documentate, effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni ed il cui sostenimento risponda a criteri di ragionevolezza per far nascere benefici economici per l’impresa o che abbia una coerenza con l’attività pertinente al settore di interesse.

Se quelle sono in linea con quei principi e dunque rispondenti ai requisiti di congruità e inerenza secondo l’art. 108 comma 2 del T.U.I.R. sono anche deducibili [1].

Sulle spese di rappresentanza si è più volte espressa anche la Corte dei Conti che ha ribadito non solo la necessità di documentare qualsiasi spesa sostenuta da parte di enti pubblici ma entrando nelle specifico le qualifica come quelle destinate a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente al fine di crescere il prestigio dell’immagine dello stesso e darvi lustro nel contesto sociale in cui si colloca [2].

Orbene, da una verifica effettuata, nonché da controlli e dall’acquisizione di elementi soggettivi ed oggettivi, emergeva che contrariamente a quanto sostenuto, le spese indicate come di rappresentanza erano invece pertinenti a pranzi e cene effettuate con amici, compagne, coniuge, soggiorni presso lussuosi alberghi.

Pertanto in ragione di tali documentate circostanze, essendo palesemente esclusa l’inerenza all’attività istituzionale, si può ragionevolmente ritenere violato l’articolo 314 del Codice Penale (peculato) il quale testualmente recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. / Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.

Occorre sottolineare che se in qualche occasione i soggetti processati per il reato di cui sopra sono stati prosciolti da quel capo di imputazione, gli stessi tuttavia non sono sfuggiti al controllo della Corte dei Conti la quale come già ribadito in numerose decisioni e secondo quanto previsto dalla legge nr. 20 del 1994 “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica è personale” [3].

Tornando alla fattispecie penale occorre dire che l’elemento materiale del delitto di peculato consiste nel fatto del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che si appropri o distragga danaro o altra cosa mobile appartenente alla Pubblica Amministrazione e di cui abbia il possesso per ragione di Ufficio o servizio.

L’indebito utilizzo delle carte di credito per finalità del tutto estranee alla Pubblica Amministrazione si ritiene ragionevolmente possa integrare l’ipotesi di peculato.

Di rilievo è la condizione che numerose spese sostenute non siano state giustificate né documentate, né può ritenersi esimente del reato aver compiuto atti successivi al fine di reintegrare quanto indebitamente sottratto e utilizzato a danno della “res publica”.

La definizione di possesso o disponibilità comprende in sé una disponibilità immediata con lo strumento elettronico della carta di credito di danaro e quindi di un bene oggetto di tutela della norma, una tutela che si risolve anche nella medesima disponibilità giuridica facente capo al pubblico ufficiale o all’incaricato del pubblico servizio [4].

In materia di spesa pubblica, al di là di qualsivoglia modalità utilizzata, deve farsi espresso riferimento anche agli articoli 3, 81, 97, 100 e 103 della Costituzione che nella stabiliscono alcuni principi, ovvero

- “ogni tipo di spesa deve avere una propria autonoma previsione normativa che non può essere la mera indicazione in un bilancio

- L’impiego delle somme deve concretizzarsi in modo conforme alle corrispondenti finalità istituzionali

- Tale impiego deve rispettare i principi di efficacia, economicità e trasparenza.

- In conclusione “sussiste il generale obbligo di giustificazione della spesa secondo le precipue finalità istituzionali” [5].

Nel caso trattato è stato in effetti riscontrato che le spese sostenute dall’amministratore di quell’Ente erano state illecitamente rivolte al soddisfacimento di scopi e finalità esclusivamente personali.

La prova della condotta antigiuridica, tra le altre, è stata fornita paradossalmente dai riscontri bancari e dagli estratti conto rilasciati dalla banca gerente le carte di credito utilizzate. E pensare che il soggetto le aveva introdotte perché dovevano garantire trasparenza e liceità della spesa pubblica.



[1] D.M. 19.11. 2008 e Circolare Agenzia Entrate 34/E del 13 luglio 2009

[2] Corte dei conti sent.1181/2009 Sez Giurisdizionale per la Regione Lazio; Corte dei conti Sezione Giurisdizionale per la Emilia Romagna del 28 maggio 2008

[3] Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale per la Emilia Romagna nr.1209/06

[4] Cassazione Penale - Sezione VI sent.137 del 01.02.2006

[5] Cassazione Penale - Sezione VI sent. 975 del 14.05.2009