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Magistero ecclesiastico e posizione del fedele

magistero ecclesiastico
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L'ancor recente controversia suscitata dalle dichiarazioni in favore di un riconoscimento giuridico per le coppie omosessuali (sia pure distinto dal matrimonio), pronunciate da Papa Bergoglio nel corso di un'intervista ma, a detta di alcuni, alterate durante il montaggio del documentario al cui interno sono state divulgate, ha visto susseguirsi una serie di prese di posizione circa il loro valore magisteriale, ora affermato ora negato; particolarmente notevole, nel senso della tesi negativa, la dichiarazione ufficiale del Vescovo di Providence (U.S.A.), ma non sono mancati interventi a titolo personale di Prelati e di Cardinali. Il tutto fino alla Notificazione della Segreteria di Stato che sembrerebbe aver chiuso la questione, affermando che quelle frasi non mutano in alcun modo l'insegnamento della Chiesa.

Al di là degli interrogativi fattuali, senz'altro interessanti ma che sarebbero fuori tema in questa rubrica, io credo che il caso susciti, nel lettore curioso, anche perplessità di carattere generale: com'è possibile che le parole del Papa a volte abbiano un valore e altre no, che un momento sembri che gli si debba obbedienza perinde ac cadaver e il momento dopo l'esatto contrario...?

Ho quindi ritenuto opportuno scegliere come tema il Magistero ecclesiastico, sotto un angolo visuale molto specifico, quello della posizione del fedele di fronte agli atti magisteriali (o come tali potrebbero essere). Si tratta, d'altronde, dell'approccio più marcatamente giuridico ad un tema che, per quanto trasversale e multidisciplinare, appartiene soprattutto alla teologia.[1]

Anzitutto, cominciamo col dire che, parlando di “Magistero”, non parliamo della predicazione generica, dell'omelia domenicale del Parroco o delle lezioni di catechismo: tutte queste attività sono importanti e hanno un contenuto dottrinale, evidentemente, però il Codice le regola altrove rispetto ai canoni 747-55 sul Magistero. Questi aprono il Libro III, dedicato alla funzione di insegnare nella Chiesa, e precedono – in particolare – quelli sulla predicazione, come a volerne rimarcare la subordinazione al Magistero stesso.

La ragione di ciò è che di trasmissione della Fede si può parlare in (almeno) due modi: il senso ampio secondo cui “la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede[2] - e qui, oltre alle attività menzionate or ora, gioca un ruolo vitale l'educazione cattolica che i genitori hanno il dovere di impartire ai figli, tanto che commettono un delitto canonico se scelgono, invece, di farlo educare in una religione acattolica (cfr. can. 1366) – oppure un senso più ristretto, più concentrato sul lato prettamente dottrinale e, soprattutto, corrispondente all'esercizio di una potestà: appunto la potestà di Magistero.

Altrimenti detto: se ogni fedele ha il diritto di trasmettere ad altri la Fede ricevuta; se anzi spesso vi è anche obbligato strettamente in coscienza, almeno secondo le sue capacità e possibilità, dal momento che ogni uomo ha il diritto di ricevere l'annuncio del Vangelo; occorre però un'autorità che sia responsabile dell'integrità di questo messaggio, in modo che esso, passando di mano in mano, non venga falsato, come sarebbe inevitabile per le cose puramente umane. La Chiesa, nel Credo, è detta “Apostolica” perché professa quale proprio fondamento e patrimonio inamissibile la dottrina degli Apostoli; questo ruolo di salvaguardia è dunque affidato a coloro che, nella comprensione cattolica, sono i loro successori e ne proseguono l'opera, cioè i Vescovi, che succedono agli Apostoli presi come gruppo, e il Papa, che succede invece all'Apostolo Pietro in un compito specifico: assicurare che l'Episcopato come tale resti unito.[3]

Il Codice tratta della materia proprio esordendo con “il dovere e il diritto nativo” della Chiesa “di predicare il Vangelo a tutte le genti” (can. 747), cui corrisponde il dovere di ciascun uomo di cercare la Verità e restarLe fedele quando l'abbia trovata (can. 748); chiude la serie dei canoni con un'indicazione relativa a quei cristiani su cui la potestà magisteriale non può di fatto esercitarsi, gli acattolici, che sono oggetto di specifica attenzione e cura mediante il movimento ecumenico (can. 755); in mezzo, i cann. 749-754 trattano insieme di due aspetti che, per maggiore chiarezza, è forse opportuno tener separati, gli organi della potestà di Magistero e il diverso grado di autorità degli atti magisteriali.

Gli organi della potestà sono il Papa e i Vescovi. O meglio:

1) il singolo Vescovo nella propria Diocesi, ma in comunione con il Papa;

2) la generalità dei Vescovi, sparsi per il mondo, ma moralmente uniti, tra loro e con il Papa, nel credere e insegnare una data dottrina;

3) i Vescovi riuniti anche visibilmente, in un Concilio Ecumenico convocato dal Papa, o almeno approvato ex post da lui nelle sue conclusioni;

4) il Papa stesso, che agisce in autonomia.

Si è discusso se non dovrebbe essere inserito anche un livello intermedio, generalmente individuato nelle Conferenze Episcopali. Ma solo il Papa e i Vescovi esistono per diritto divino e sono destinatari sia della missione di custodire e trasmettere il depositum Fidei, sia della promessa di un'assistenza divina proporzionata, senza la quale l'impresa sarebbe condannata a fallire in partenza. Dunque, la posizione attuale è che le Conferenze Episcopali possono bensì emanare documenti in materia dottrinale, ma ciascun Vescovo li vota, approva e sottoscrive a titolo puramente individuale, senza che essi possano acquisire un'autorevolezza superiore a quella data dai singoli firmatari, né tantomeno impegnare gli altri; il loro maggior peso rispetto agli atti di un singolo Vescovo è quantitativo e/o persuasivo, non gerarchico né potestativo.[4]

Inoltre, dall'elenco manca qualunque autorità inferiore al Vescovo: i catechisti, i Parroci... e per altro verso i teologi, i professori universitari di scienze sacre... non sono titolari della potestà di Magistero, che consiste appunto nel potere di insegnare una dottrina (o di condannarne una ad essa contraria) con il diritto di pretendere non solo l'obbedienza esterna, non solo un c.d. “silenzio ossequioso”, ma un vero e proprio assenso interiore, dell'intelletto nell'aderire a ciò che viene insegnato, della volontà per l'impegno a restare fermi in quest'adesione (cfr. il can. 752, che a questo proposito può essere visto come la norma definitoria fondamentale). I Vescovi e il Papa hanno questo potere perché a loro, e non ad altri, è stata promessa un'assistenza divina specificamente mirata a premunirli contro la possibilità di errore (sebbene in modi e misura differenti); a sua volta, quest'intervento di Dio è funzionale ad assicurare che la Chiesa, insieme come totalità dei fedeli uniti ai legittimi Pastori, rimanga compatta, visibile e riconoscibile nella sua continuità, qui particolarmente continuità dottrinale, fino alla fine dei tempi. Si parla a questo proposito di “indefettibilità”: la Chiesa non può venir meno perché è destinata a durare quanto il mondo (e oltre), quindi non può mai perdere una delle Sue caratteristiche essenziali; in particolare, per quanto ora ci riguarda più da vicino, non può mai, nella Propria totalità, abbracciare e professare un'eresia; l'infallibilità della Gerarchia ecclesiastica, nelle sue diverse sfumature, ha appunto lo scopo di rendere, per contrasto, riconoscibili le eresie ed urgere l'osservanza del dovere di evitarle, che, come implica il can. 748, in ambito canonico è un dovere giuridico propriamente detto, un valore primario di quell'ordinamento.

Siccome la causa finale dell'assistenza divina e della potestà che su questa si fonda e preservare l'unità del gregge intero, l'universalità dei fedeli sparsi nel mondo (anche attraverso i secoli, ma in un altro senso), e Dio non opera mai in modo sproporzionato, l'infallibilità cui si è or ora accennato non spetta né a ciascun membro della Gerarchia singolarmente né alla generalità degli atti.

Quanto agli atti, vanno anzitutto esclusi quelli di governo, che formano la materia detta genericamente disciplinare, per distinguerla dalla dottrinale: quando gestiscono i beni della Diocesi, o intrattengono relazioni diplomatiche, o decidono cause matrimoniali, o concedono dispense, sia il Papa sia i Vescovi possono sbagliare... perché un loro errore non obbliga nessuno a credere che sia invece cosa giusta. Quando invece insegnano, a parole o per iscritto, il giusto e lo sbagliato, o cosa debba ritenersi rivelato da Dio, cosa invece no, allora un obbligo sorge. Maggiore o minore, condizionato o incondizionato, come vedremo.

A maggior ragione, l'infallibilità non va confusa con la condotta personale immacolata: è una garanzia di predicare bene, non di non razzolare male. Ciò non evita lo scandalo che il comportamento indegno suscita, naturalmente; ma la potestà di Magistero tutto è fuorché una dote personale; in un certo senso, è il massimo della spersonalizzazione, perché porta a parlare come organi di un'istituzione millenaria, che si professa inalterabile e immortale.

Appunto per questo, rilevano solo gli atti compiuti nell'esercizio dell'ufficio di Papa, o di Vescovo, o di Vescovi riuniti in Concilio; lettere personali, anche di contenuto dottrinale, e altre esternazioni del genere non debbono considerarsi Magistero.

Tornando per un momento al caso da cui ho preso le mosse, questa è la ragione per cui molti ritengono che l'intervista del Papa non abbia valore magisteriale, dato appunto il suo carattere di intervista: appare come un atto informale, dunque fuori dell'esercizio delle funzioni.

D'altra parte, occorre tuttavia osservare come l'accresciuta visibilità del Papato, specialmente negli ultimi decenni, abbia condotto ad un moltiplicarsi di mezzi e metodi di esternazione assai meno formali di un tempo (la prima intervista fu rilasciata già da Leone XIII).

E soprattutto, la potestà magisteriale è a forma libera, il modo in cui si esercita non è determinato a priori: le forme usuali, dalle Encicliche alle Lettere pastorali dei Vescovi, rendono più facilmente riconoscibile l'atto di Magistero come tale, perché ne indicano in modo inequivocabile l'inerenza all'ufficio esercitato e il carattere dottrinale; tuttavia, in definitiva conta che la dichiarazione sia rivolta ai fedeli - anche in via mediata, p.es. se il Papa scrive a un Vescovo che lo ha interpellato su un problema dottrinale nella sua Diocesi – e che vi sia, non la semplice espressione di un'idea, ma l'esercizio dell'autorità.

L'impiego delle forme consuete fa presumere quest'intento; negli altri casi, come appunto le interviste, molto dipenderà dal tenore letterale delle parole (posto poi che siano riprodotte con fedeltà testuale) e non è affatto escluso che un Papa possa preferire questa veste espressiva proprio perché impegna meno il suo ruolo ufficiale e gli consente più libertà nell'esternare opinioni personali.

  1. In definitiva, quindi, la regola generale è che “i fedeli sono tenuti ad aderire” all'insegnamento del Papa, del Concilio o dei Vescovi, “in misura proporzionale all'autorità che possiedono e che intendono esercitare”.[5]

L'intenzione, come abbiamo visto, segna il discrimine tra Magistero e non-Magistero; lo segna anche tra i diversi gradi di autorevolezza degli atti.

Quanto invece all'autorità posseduta, il singolo Vescovo non è mai infallibile da solo, proprio perché la sua autorità si esplica su una porzione assai limitata del gregge del Signore e non potrebbe mai trascinare nell'errore il tutto. Lo stesso deve dirsi per i Vescovi di una regione, provincia ecclesiastica o nazione.

Le cose stanno in misura un po' diversa per il Papa, il Concilio e l'unanimità morale dei Vescovi, sparsi per il mondo, nell'insegnare concordemente un punto di dottrina o di morale.

Quanto al Papa, si distinguono le sue esternazioni personali (dove si dice che egli parla come “dottore privato”, con un'autorità non superiore a quella di un qualunque teologo: ne sono un esempio i tre libri di Benedetto XVI sulla vita di Gesù), quelle compiute come Vescovo di Roma, che in passato potevano essere ben distinte dalle altre, e gli insegnamenti rivolti alla generalità dei fedeli.

 Secondo alcuni, il rischio che il cattivo esempio del Papa trascini nell'errore tutti i fedeli è tanto alto che vi sarebbero speciali garanzie anche rispetto ai suoi atti come dottore privato; per altri, invece, è ammissibile almeno in astratto che egli, in questi, cada perfino in eresia, sebbene sia più discusso se possa essere volontaria od ostinata (e ancor più discusse sono le possibili conseguenze). Il punto chiarisce il concetto principale: il Papa è infallibile, nel senso tecnico del dogma definito al Vaticano I, solo quando parla o scrive come Maestro di tutti i cristiani; non quando lo fa a titolo personale e neppure come Vescovo della sola Roma. Quindi, ad esempio, la lettera con cui S. Pio X ha approvato il famoso Catechismo, essendo indirizzata al Vicario per la Diocesi di Roma e destinata ad avere autorità solo lì, non è un atto infallibile.

Nondimeno, quel Catechismo è stato rapidamente adottato in tutto il mondo come testo di base per l'insegnamento della dottrina; e questo ci riporta ai Vescovi, ma stavolta ai Vescovi nel loro insieme. Infatti, se tutti i Vescovi del mondo, ciascuno agendo per conto proprio ma in unità morale con gli altri e con il Papa, sbagliassero su un punto di dottrina trascinerebbero quasi fatalmente con sé l'universalità dei fedeli; e per questo anche a loro è attribuita l'infallibilità.

Possiamo quindi distinguere tre gradi di insegnamento, di cui due magisteriali: quello dottorale, il più basso, non è in nulla diverso dall'insegnamento che può dare, o dall'assenso che può richiedere, una persona competente in una qualunque materia; se ad es. sentiamo una conferenza del celebre Prof. Nonsò, in definitiva aderiremo oppure no alle sue tesi secondo quanto ci sembrino convincenti, e con piena libertà di cambiare idea. Libertà limitata, semmai, dal contenuto del suo dire, ciò dalla sua maggiore o minore prossimità a quei princìpi fondamentali della sua disciplina da cui ci sembrerebbe impossibile allontanarci; invece, il limite legato alla sua autorevolezza personale, alla stima che nutriamo per lui etc., può esserci e anzi opera di frequente, ma è di mero fatto.

Il Magistero autentico, invece, è proprio del singolo Vescovo nella sua Diocesi, se agisce in comunione con gli altri e con il Papa (cfr. can. 753), nonché del Concilio Ecumenico e del Papa, quando scelgono di non esercitare l'infallibilità (can. 752);[6] ad esso si aderisce non per stima personale, ma perché ha parlato il Vescovo, il Concilio o il Papa. Tuttavia, è tautologico che, se gli atti che rientrano in questa categoria, quantunque ufficiali, non sono garantiti dall'infallibilità, allora esiste almeno una possibilità astratta di errore; vedremo tra poco in che termini.

Il Magistero infallibile, infine, spetta: ai Vescovi dispersi per il modo, ma moralmente uniti, e prende il nome di Magistero ordinario e universale; al Papa, quando decide di parlare ex Cathedra; al Concilio Ecumenico (approvato dal Papa), sia quando sceglie di parlare ex Cathedra,[7] sia quando attesta quella generalità del consenso che contraddistingue il Magistero ordinario e universale.   

Si parla anche di Magistero ordinario o straordinario, con riguardo alla forma di esternazione: il primo comprende quelle normali, da vita di tutti i giorni per così dire, e quindi abbraccia il Magistero autentico e quello ordinario (appunto) e universale; l'altro, detto anche solenne, consiste nelle vere e proprie definizioni dogmatiche, rese dal Papa o dal Concilio. 

Che cos'è una definizione dogmatica? In parole povere, è una sentenza giudiziale su un punto specifico di Fede o di morale; è resa da chi ha potestà su tutta la Chiesa, destinata a tutta la Chiesa e formulata come irreformabile; per le ragioni dette prima, evidentemente è infallibile.

Lo si può dire anche in un altro modo: queste decisioni hanno autorità di giudicato in materia dottrinale; ma l'effetto conformativo del giudicato, quod falsum mutat in verum, è incompatibile con la fedele preservazione nei secoli di una stessa e medesima dottrina rivelata; e tuttavia, consta che il Rivelante ha istituito proprio un'autorità visibile preposta a rendere giudizi di questo genere, se non altro perché tutti lo hanno creduto per secoli[8] e quindi, se ciò fosse falso, la Chiesa intera sarebbe caduta in eresia, il che è assurdo stanti le premesse. Occorre allora concludere che l'effetto conformativo del giudicato non operi perché non sarà mai necessario, perché il giudice pronunzierà sempre un verum, Come dire che è infallibile.

Mentre l'infallibilità del Magistero ordinario e universale non è ancorata all'atto specifico di qualcuno, ma la si vede nella convergenza di mille atti individuali, protratta nel tempo, quella del Magistero solenne richiede una specifica volontà, appunto la volontà di decidere e di definire, terminare per sempre la controversia. Volontà che si desume dalle espressioni impiegate; certo non nel senso che ci si debba aspettare di leggere “Per me è così, però potrei anche cambiare idea”, ma semmai “dichiariamo essere dogma da Dio rivelato che...”,[9] oppure “chiunque dica il contrario dovrà essere considerato come eretico”, perché l'eresia è la negazione ostinata di qualcosa che va creduto per Fede (cfr. can. 751); e così via.

Appunto perché la negazione o anche il semplice dubbio, se ostinato, in merito ad atti del genere costituiscono delitto di eresia, uno dei più gravi in assoluto, e comunque mettono l'interessato fuori della Chiesa, si esige la massima sicurezza su quali atti siano infallibili: in caso di dubbio, non vanno considerati tali (can. 749 §3).[10] Un esempio abbastanza recente di questo dubbio è l'Enciclica Humanae Vitae, dedicata da Paolo VI alla contraccezione, che è formulata in termini che potrebbero far pensare ad un atto infallibile – infatti è stata qualificata tale da un eminente moralista come il p. Ermenegildo Lio – però non è stata né presentata né, poi, fatta valere dalla S. Sede come un atto ex Cathedra, sebbene la dottrina ivi contenuta sia stata riaffermata più volte. 

Spesso, quegli atti del Romano Pontefice che di per sé non sono infallibili esprimono quel consenso generale che caratterizza il Magistero ordinario e universale: ad es. l'Enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II, facendo seguito alla consultazione dei Vescovi di tutto il mondo, dichiara e certifica, per così dire, che essi convergono su alcune tesi tra cui l'illiceità morale dell'aborto. Altre volte il Papa riscontra questo consenso ma formula comunque una decisione ex Cathedra, come per i dogmi dell'Immacolata e dell'Assunzione. Si danno anche atti pontifici “certificativi” ove il Papa, pur senza procedere ad una definizione formale, riafferma di proposito la dottrina tradizionale, dopo che è stata contestata, presentandola come de Fide o di morale naturale.[11] Altre volte ancora, infine, il consenso è successivo all'atto pontificio, come nel caso già ricordato del Catechismo di S. Pio X e della sua spontanea adozione da parte di tutto l'orbe cattolico. La differenza sta appunto in ciò, che gli atti ex Cathedra sono infallibili e irreformabili di per sé, non in forza di questo consenso (“irreformabiles ex sese, non autem ex consensu Ecclesiae”, recita la formula definitoria), perché sono chiamati a produrre questo stesso consenso; sono la risoluzione autoritativa delle controversie troppo difficili perché vi sia un vero consenso universale contro l'errore; sono l'espressione di quella potestà decisionale che, in ultima analisi, deve avere qualunque comunità che si fondi su una dottrina, fosse pure un'Accademia platonica.

Accenno soltanto ad un'ultima distinzione, che è interna alla materia dell'infallibilità.

Come ho già detto più volte, l'assistenza divina accordata alla Chiesa ha lo scopo di assicurare la fedele trasmissione della dottrina rivelata da Dio: solo questo è l'ambito della fede “divina e cattolica”, divina in ragione dell'autore, cattolica perché la Chiesa propone quel punto come da credersi per fede. Il dogma in senso stretto è la dottrina definita con atto del Magistero solenne; in senso proprio, tutto ciò che la Chiesa, anche senza definizione, propone richiedendo l'assenso di Fede. Il suo contrario, come detto, è l'eresia. Poi esiste anche un senso lato di dogma, che abbraccia le verità che sono rivelate ma non ancora proposte come tali, p.es. l'Immacolata Concezione prima del 1854; in questo caso non si potrà avere delitto di eresia, proprio perché non avrebbe senso che l'autorità ecclesiastica punisse nello stesso modo là dove non ha comandato lo stesso assenso, ma potrebbe sussistere, secondo i casi, qualche altro delitto canonico.  

Accanto alla fede divina e cattolica, o semplicemente cattolica, vi è però anche quella che nei manuali prende talvolta il nome di fede ecclesiastica: riguarda i cc.dd. fatti dogmatici, i più importanti dei quali, ai nostri fini, sono le premesse necessarie di una definizione dogmatica. L'indefettibilità della Chiesa – così corre il ragionamento – comporta che la totalità dei fedeli e dei Pastori non possa sbagliarsi se, posta di fronte a quella che esternamente sembra una definizione, la recepisce per tale, rigettando come eretica la tesi che forse fino ad allora era dubbia; dunque, dobbiamo credere, con certezza assoluta, che quella sia davvero una definizione dogmatica e che tutti i presupposti necessari siano soddisfatti. Ad esempio, ci sono periodi della Storia, soprattutto il Grande Scisma d'Occidente (1378-1417), in cui è stato incerto chi fosse il vero Papa; ma nel momento in cui Pio IV ha approvato i dogmi definiti a Trento e tutti i cattolici li hanno recepiti per tali, non ci poté più essere il minimo dubbio che egli fosse Papa, e quindi maschio, validamente battezzato, legittimamente eletto alla Sede di Roma, forse anche validamente ordinato. E siccome quei dogmi sono stati approvati come definiti da un Concilio, non possono più sorgere dubbi neppure sulla legittimità di questo. Oltre ai fatti dogmatici si danno anche altri esempi del c.d. “oggetto secondario dell'infallibilità”, ma ai nostri fini credo che siano superflui.

Detto tutto questo, possiamo venire alla posizione del fedele, che finora è rimasta un po' sullo sfondo.

Dato quel che si è detto sul grado dottorale dell'insegnamento, è chiaro che lì non sorgono obblighi giuridici; al massimo, il dissenso potrà incontrare i limiti morali propri del giudizio temerario o della superficialità. Se qualcuno non è d'accordo con un'opinione di Benedetto XVI espressa nei libri sulla vita di Gesù, farà bene a studiare l'argomento a fondo prima di decidere e di parlare; però resta perfettamente in regola con la Chiesa.

Per quanto riguarda il catechista o il Parroco, o anche il singolo Vescovo, che pur gode della potestà di Magistero, il criterio fondamentale dev'essere l'accordo con gli altri Vescovi e con il Papa, è un criterio gerarchico: il Papa è Vescovo di tutti i fedeli e di tutti i luoghi, la Sua potestà non è mediata da quella del Vescovo bensì immediata e, in caso di contrasto, supera qualunque atto contrario del Vescovo stesso.

Quindi, anche se il Romano Pontefice non ha parlato ex Cathedra, in caso di conflitto tra i due il diritto all'assenso spetta a lui. Quanto invece agli altri Vescovi, essi contano sia come possibili testimoni di un Magistero ordinario e universale da cui il loro confratello del luogo  si è allontanato, sia perché, supposto che ci troviamo di fronte ad una questione opinabile, ceteris paribus l'opinione maggioritaria merita maggior credito. A queste condizioni, anche il dissenso dal proprio Vescovo diventa lecito e la sua espressione pubblica dovrà semplicemente essere moderata.

Rispetto agli atti non infallibili del Papa, o anche del Concilio Ecumenico o di un numero indistinto di Vescovi convergenti, la questione si fa più complessa, perché l'infallibilità – come detto – non opera e quindi esiste una possibilità astratta di errore; tuttavia l'atto è assistito da una presunzione legale di bontà piena, dovuta al fatto che, in ultima analisi, lo Spirito Santo assiste la Chiesa e le Sue guide ogni giorno, non solo nei momenti eccezionali.

Inoltre, una volta ammessa la possibilità di errore occorre però anche chiedersi che genere di errore. Anche in ambito ecclesiale si è soliti distinguere tra errori di forma, in cui il pensiero è buono ma espresso male, ed errori di sostanza; in più, non ogni errore di sostanza è un'eresia. Faccio un esempio: se qualcuno dicesse “Cristo era privo della capacità di ridere” direbbe il falso, ma non sarebbe eretico. Infatti, nei Vangeli non compare mai ridente e il dogma definito ci obbliga solo a credere alla formula “perfetto Dio, perfetto Uomo”; quest'errore si oppone, non alla perfezione in sé, ma al fatto che vi sia inclusa la capacità di ridere, probabilmente sul presupposto di una sua sconvenienza morale assoluta. In altri termini, è un errore filosofico, antropologico, cui si risponde dimostrando che, sebbene risus abundat in ore stultorum, la capacità di ridere non è in sé stessa un difetto. Gli atti del Papa in sé non infallibili, secondo molti teologi, pur non facendo sorgere l'obbligo di Fede sono comunque garantiti dal rischio di caduta in eresia; non però da errori meno gravi, ma comunque seri, come questo, né a fortiori dai difetti di forma.[12] Chiaro che la reazione agli uni o agli altri deve essere diversa.

Un ultimo problema, ma certo non il meno scottante, è il rischio di scandalo insito nell'espressione pubblica del dissenso stesso. Le distinzioni fin qui passate in rassegna non sono certo patrimonio comune dei fedeli: se passa il messaggio “Il Papa sbaglia”, rischia veramente di seguirne la perdita della Fede. E, almeno in ambito cattolico, una fede mal formata ma sincera è ritenuta preferibile alla sua perdita.

Il Card. Billot afferma che, anche in casi di Magistero mere authenticum della S. Sede (cann. 752 e 754),[13] l'autorità possiede un'infallibilità pratica che le impedisce di proporre una dottrina men che sicura; reputa, quindi, illecito anche il dissenso meramente interno, salvo il caso in cui vi siano argomenti nuovi, non esaminati in precedenza, che allora andranno sottoposti, in via riservata, a chi di dovere.[14] Tuttavia, il punto è rimasto controverso: in generale, gli autori antecedenti il nuovo Codice lasciano piuttosto nell'ombra il problema delle condizioni cui può essere sottoposto il religiosum obsequium;[15] in genere si afferma che, in pratica, è sempre doverosa l'adesione esterna,[16] mentre altri distinguono il semplice dubbio o difficoltà, che deve cedere alla presunzione in favore dell'autorità, il caso eccezionale in cui sia probabilis la sentenza contraria a quella proposta (e, mantenendo l'adesione esterna, occorre sottoporre all'autorità gli argomenti trovati), e quello, ritenuto pressoché chimerico, di errore evidente, che obbligherebbe comunque al silentium obsequiosum.[17]

Quest'ultima linea sembra quella sposata da LG 25 e, in ultimo, dall'Istruzione Donum Veritatis,[18] che, ribadito il carattere anche interno di un ossequio «intellectus et voluntatis», la volontà di prestare il quale dev'essere la regola, dettando la procedura per la manifestazione del dissenso nei casi di cui ai cann. 752 e 754,[19] ritiene che il teologo, sottoponendo all'autorità le proprie considerazioni, renda alla Chiesa un servizio prezioso, ma raccomanda il carattere riservato di tali comunicazioni e non sembra lasciare spazio per un dissenso pubblico, se non forse in ambito strettamente accademico. D'altra parte, esso non sarebbe un argomento in sé, capace di mutare i termini dottrinali della questione.[20] Men che meno si ammette un droit au désaccord, ossia alla diffusione dell'eresia in nome della “libertà religiosa”;[21] solo nella sfera disciplinare è possibile concepire il diritto di resistenza ad ordini che esorbitano palesemente dalla potestà, p.es. quello di commettere peccato.

Nondimeno, sebbene alcuni princìpi siano necessariamente comuni, altra è la posizione del teologo, altra quella del semplice fedele.

Il teologo ha, o deve avere, una competenza che lo rende, nello stesso tempo, più autorevole e più colpevole.

Il teologo gode, ai sensi del can. 218, di una “giusta libertà” che può consentirgli anche di imitare S. Tommaso d'Aquino ed esordire dicendo “Sembra che Dio non esista”, a patto però che poi pervenga alla conclusione opposta; ma l'ambito accademico è un conto, la vita quotidiana un altro.

In compenso, il can. 212, nella sua raffinata architettura, essendo applicabile a tutti delinea senz'altro lo statuto del semplice fedele che si trovi più o meno perplesso dinanzi ad un atto (che si presenta come) magisteriale. La norma ha una portata più ampia, in verità, ma comprende anche questa materia.

Il §1 enuncia il dovere generale di obbedienza, che qui può tradursi come generale dovere di adesione al Magistero, proporzionale al grado di autorità posseduto e concretamente esercitato. Ma il §2 sancisce una sorta di immunità: “integrum est”, resta comunque salvo il poter manifestare ai legittimi Pastori le proprie necessità personali, quali potrebbe ben essere un dubbio di coscienza. Il §3 sposta l'attenzione ad un piano più generale: “In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, [i fedeli] hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori ciò che riguarda il bene della Chiesa e, salva restando l'integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l'utilità comune e la dignità delle persone, renderlo noto agli altri fedeli.”.

Il primo dovere, implicito e dettato anche dal semplice buon senso, è acquisire la scienza. Questo può richiedere anni, perché le materie sono complesse, se l'interessato vi si dedica con studio personale; potrà però anche consultare persone esperte e autorevoli, mettendo insieme opinioni e argomenti; per rientrare nel canone, tuttavia, occorre che ad un certo punto maturi e voglia manifestare un'opinione come “sua”.

Il testo sembra suggerire un ordine di priorità: prima si parla con i legittimi Pastori e si domanda che facciano chiarezza sul dato punto di dottrina; poi, almeno in senso logico se non anche temporale, si manifesta il proprio pensiero ad altri. Questo con alcuni limiti ben precisi: occorre anzitutto che ciò sia utile, come non sono mai i discorsi oziosi, tantomeno i delitti canonici.

Oltre all'eresia, infatti, vi sono le due fattispecie punite dal can. 1371, come novellato dal m.p. Ad tuendam fidem (1998) e relative al rifiuto dell'assenso di fede ecclesiastica e a quello ingiustificato del Magistero autentico: si noti la distinzione, che potenzialmente scusa da parecchi errori di valutazione quando le parole del Papa siano particolarmente sfortunate. Anche in tal caso, tuttavia, e anzi perfino qualora si reagisse contro atti non magisteriali, forme, modi o fini possono integrare. ad es., l'incitamento all'odio o alla ribellione contro la Sede Apostolica (can. 1373), o al limite perfino il dar vita ad un'associazione che cospiri contro la Chiesa (can. 1374), o l'impedire il libero esercizio del ministero ecclesiastico (can. 1375).

Infine, il rispetto verso tutti i soggetti coinvolti, sia in quanto Pastori sia in quanto persone, è poi una condizione quasi interiore prima ancora che esteriore, il richiamo ad una disposizione d'animo serena – anche nella preoccupazione e nello zelo per il bene della Chiesa, non per altre considerazioni pur meritevoli – perché la Grazia di Dio possa dare luce, pace e frutto.

Nondimeno, il fedele è più libero del teologo, anche perché non ha ricevuto incarichi ufficiali da parte della Chiesa, e a volte deve parlare, ad esempio se vede che qualcuno sta abbracciando un errore o perfino un'eresia perché gli sembra che corrisponda all'insegnamento – più o meno formale; ma supponiamo magisteriale ad ogni effetto – del Romano Pontefice o del Concilio Ecumenico.

In altre parole, deve ritenersi che, almeno in caso di errore evidente, la legge abbia sconfessato la tesi dottrinale che obbligava al silenzio ossequioso e, senza sancire un diritto di resistenza in senso tecnico, consenta però la denunzia pubblica e forse perfino la imponga.

Questo in astratto; in concreto, il giudizio sulla liceità della reazione passa per il rispetto delle condizioni testé elencate. E, purtroppo, non lo si troverà di frequente. 

    

 

[1]    Cfr. la trattazione teologica di F. Ardusso, Magistero ecclesiale. Il servizio della Parola, Cinisello Balsamo 1997, e la sintesi complessiva di G. Ghirlanda, Implicazioni dell'infallibilità nelle canonizzazioni dei Santi, in Periodica 103 (2014), pagg. 373-415.

[2]    Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione, 18 novembre 1965, n. 8; cfr. amplius, su tutto il tema, Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 74-100.

[3]    Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor aeternus, prima sulla Chiesa di Cristo, 18 luglio 1870, Prologo.

[4]    Cfr. Giovanni Paolo II, m.p. Apostolos suos sulla natura e l'autorità delle Conferenze Episcopali, 22 febbraio 1998.

[5]    Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Mysterium Ecclesiae sull'unità e l'unicità della Chiesa di Cristo, 24 giugno 1973.

[6]    E della Congregazione per la Dottrina della Fede, se i suoi documenti dottrinali sono approvati dal Papa; non invece gli altri Dicasteri della Curia Romana.

[7]    L'espressione non è solitamente in uso per gli atti conciliari, ma la mutuo per semplicità.

[8]    Prescindo, qui, dalle controversie sull'infallibilità del Papa o del Concilio e mi riferisco semplicemente all'accordo sostanziale, comune come minimo a tutto il Medioevo, che un Tribunale visibile e divinamente assistito dovesse esistere e di fatto esistesse; dallo specifico punto di vista che qui affronto, le divergenze su quale fosse sono meramente accidentali.

[9]    La formula concretamente usata da Pio XII per il dogma dell'Assunzione.

[10]  Cfr. M. Mosconi, Commento a un canone. La presunzione di non infallibilità (can. 749 §3), in Quaderni di diritto ecclesiale 10 (1997), pagg. 83-97.

[11]  Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professione di Fede, 29 giugno 1998, in L'Osservatore Romano 30 giugno – 1 luglio 1998, n. 9 E' evidente che questo criterio, oggi trascurato anche nella maggior parte dei testi di teologia fondamentale, amplia non poco il novero degli atti che, almeno per l'effetto, possiamo qualificare “definitivi”. Altra questione è se, trattandosi qui di atti del Magistero pontificio ordinario, possano rientrarvi anche i documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede: in ipotesi, sarebbero interessati quasi tutti i maggiori pronunciamenti dottrinali del post-Concilio. La Congregazione stessa sembra aver ritenuto actus definitivus la propria dichiarazione Sacerdotium ministeriale, nel caso Schillebeeckx.

[12]  Esistono diverse teorie su quali siano di preciso le censure teologiche di grado inferiore all'eresia: quella dell'esempio è un error theologicus, ossia la negazione di una verità (“Cristo era capace di ridere”) dedotta per sillogismo da una premessa di fede - “Cristo era perfetto Uomo” - e da una verità di ragione quale, appunto, “La capacità di ridere rientra nella natura umana come è stata voluta da Dio”. Non credo, però, opportuni maggiori dettagli in questa sede.

[13]  Riguardo al can. 754, peraltro, si noti che, secondo la dottrina comune, proposta anche per la definizione al Vaticano I, l'inflizione formale di censure teologiche, anche di grado inferiore all'eresia, impegna l'infallibilità della Chiesa. Cfr. anche la Pastor aeternus, secondo cui il Papa gode dell'infallibilità accordata da Dio alla Chiesa quando propone una doctrina tenenda (e non solo credenda), purché parli come Maestro di tutti i cristiani e con la voluntas definiendi.

[14]  Cfr. L. Billot, Tractatus de Ecclesia Christi, Prato 1909, pagg. 434-9, 638.

[15]  Lo rileva F. Ardusso, Magistero..., cit., pag. 253, nt. 14; a conferma, cfr. P. Gasparri, Catechismus Catholicus, Roma 1933: «In munere docendi Ecclesia, ob perpetuam Spiritus Sancti assistentiam a Iesu Christo promissam, est infallibilis, quando, sive ordinario et universali magisterio, sive solemni iudicio supremae auctoritatis, veritates fidei et morum vel in se revelatas, vel cum revelatis connexas ab omnibus tenendas proponit.» (pag. 132, q. 144); «Alia decreta doctrinalia quae Sedes Apostolica circa res fidei et morum edit sive directe per se sive per sacras Romanas Congregationes, debemus ex conscientiae officio excipere propter osequium erga Sedem Apostolicam, quae etiam hoc modo exercet magisterium sibi a hristo Domino commissum.» (pag. 134, q. 152).

[16]  «L'acquiescenza esterna è sempre doverosa e risponde al dovere elementare di obbedienza alle legittime Autorità. […] L'adesione interna è sempre dovuta quando la condannata è pronunciata da un'autorità infallibile (Pontefice o Concilio Universale) in quanto tale. - Pur essendovi discussioni tra i moralisti sul dovere della adesione interna alle condanne pronunciate da autorità non infallibili, come sono le Congregazioni Romane, questa adesione è comunemente ritenuta doverosa. Occorre però chiarire che non è richiesta quella adesione assoluta, che dobbiamo dare alle definizioni dogmatiche e che esclude la possibilità di qualsiasi dubbio in contrario; è invece dovuta una adesione prudenziale, in quanto non riposa sulla infallibilità, ma solo sulla grande presunzione che la condanna risponda a verità; non sarà quindi vietato agli studiosi, ferma sempre la sottomissione esterna, di vagliare ancora, evitando qualsiasi pericolo di scandalo, le ragioni in contrario, sottomettendo con rispetto le loro considerazioni alle competenti Autorità.». G. Graneris, s.v. Proposizioni condannate, in F. Roberti – P. Palazzini (curr.), Dizionario..., pag. 1189. Vi rinvia P. Palazzini, s.v. Magistero ecclesiastico, in F. Roberti – P. Palazzini (curr.), Dizionario..., , pagg. 833-4.

[17]  Cfr. L. Choupin, Valeur des décisions doctrinales et disciplinaires du Saint-Siège, Parigi 1912, pagg. 87-91

[18]  Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum Veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990.

[19]  C.J. Errázuriz M., Annotazioni all'Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede circa alcuni aspetti dell'uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede, in Ius Ecclesiae 5 (1993), pag. 374 nt. 1, reputa che la Donum veritatis abbia carattere dottrinale e non sia un'Istruzione ai sensi del can. 34, «pur avendo un contenuto assai rilevante per il diritto della Chiesa». Mi chiedo, però, se quei particolari temi dottrinali non possano essere visti come un'illustrazione dei cann. 749-54, accompagnata da chiarimenti e istituzione di procedure per la gestione del dissenso rispetto agli insegnamenti di per sé non irreformabili.

[20]  Cfr. S. Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposte alla Conferenza episcopale nordamericana in materia di sterilizzazione, 13 marzo 1975.

[21]  Contra, Y. Congar, Le droit au désaccord, in L'Année canonique 1981, pagg. 277-86.