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MES o EUROBOND contro CORONAVIRUS? La sfida delle sfide per l’Italia

Il valore d’interdipendenza dei paesi nell’Europa sul piatto della bilancia mondiale.
MES o eurobond
MES o eurobond

Secondo stime realizzate dall’OEC (Osservatorio della complessità economica), nell’ultimo triennio di valutazione antecedente al 2020, le esportazioni totali del sistema di scambio mondiale ammontano a 16,3 trilioni di dollari: il famoso “greggio” è il primo bene, in termini merceologici.

La Cina, tanto per prendere un paese del podio, è al primo posto tra gli esportatori con un + 2,41 trilioni.

L’Italia, nella geografia appena accennata, è al settimo posto (dopo anche Germania, Usa, Giappone, Corea del Sud, Francia) con 482 miliardi di export e, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale di fine anno 2019, con il sesto debito pubblico più alto al mondo pari al 133% del Pil.

Chiaro è che più alto è il debito pubblico più significativo è lo stock dei titoli governativi in circolazione.

Tuttavia, non per forza un debito pubblico altissimo sta a significare incapacità ad essere competitivi come economia, ma soprattutto come sistema: si consideri, ad esempio, il Giappone (primo debito pubblico al mondo e quarto esportatore del globo).

In questo panorama di interazioni umane, prima ancora che economiche, c’è una buona componente (se non addirittura preponderante) di strategie politiche che ogni paese, in un certo senso, pone in essere mediante la produzione normativa complessiva unita alla intessitura di una tela di relazioni con altri paesi.

Dopo la seconda guerra mondiale il sogno di una Europa unita ha rappresentato (e rappresenta tutt’ora) qualcosa che, in termini di valore storico e sociale, va certamente preservato, curato, protetto, ottimizzato.

Ma a quale costo?

Non può certo negarsi che grazie all’Europa, non specificamente riferendosi al quadro istituzionale ma alle relazioni tra paesi accordatisi per rafforzare rapporti di scambio e interazioni umane, si è potuti diventare una forza “alla pari” interposta tra occidente ed oriente.

Facendo due calcoli, tenendo ancora in considerazione i dati OEC in merito ad esportazioni mondiali all’ultimo triennio, non può che riscontrarsi con tutta evidenza che le dieci potenze si suddividono l’emisfero così:

  • il blocco europeo vale in totale 2,79 trilioni di dollari (capofila la Germania con 1,33 ed a scalare Francia con soli 516 miliardi, l’Italia con 482 miliardi ed i Paesi Bassi con 461 miliardi);
  • la Gran Bretagna, autonomamente dal quadro europeo, vale 395 miliardi di dollari;
  • il continente americano formato dal connubio Usa e Messico vale 1,67 trilioni (di cui 1,25 attribuiti agli statunitensi e soli 418 miliardi al paese messicano);
  • il trio d’Oriente costituito da Cina, Giappone, Corea del Sud vale 3,7 trilioni di dollari (di cui 2,41 di spettanza cinese, residui 694 miliardi di riferibilità nipponica nonché 596 della corea meridionale);
  • la Russia, in tutto ciò, è solo al 14° posto come potenza mondiale in termini di export, valendo in soldoni 341 miliardi.

Ora, già solamente a naso, può dedursi che se la Gran Bretagna fosse considerata nel blocco europeo nonostante la recente Brexit non altro si assisterebbe ad un gioco bilanciato con il mostro sacro dell’export orientale.

Tutto ciò non è che il risultato bifacciale della stessa medaglia perché se è vero che ci sono valori di export così forti, stadiati nel perimetro costituito da blocco europeo e trio orientale, è anche vero che ci sono paesi del globo che alimentano il proprio mercato interno (in equilibrio o meno) mediante importazioni.

La Cina, 33° paese al mondo quanto a grado di complessità economica sistemica, è il paese che esporta quasi il doppio rispetto a quanto importi (con un differenziale di +0,87 rispetto al dato in precedenza riportato in dollari) rendendosi, quindi, abbastanza autosufficiente facendo salvo qualche aspetto merceologico ed energetico. Altresì, va tenuto conto che gli Usa sono la prima destinazione delle esportazioni cinesi nonché quarto paese da cui essa stessa importa; a livello europeo, invece, la Germania è quarto paese per esportazioni e quinto per importazioni nei confronti della Cina.

Da quanto appena riportato, pertanto, è evidente che vi sia una interdipendenza economica su base intercontinentale (con tutta probabilità sviluppata maggiormente da quando caduto il muro di Berlino e da quando la Cina ha aperto massicciamente l’incoming di capitali esteri unitamente allo spostamento europeo delle produzioni).

Interdipendenza che, specie negli ultimi decenni, ha generato quei giochi di forza in termini di potere contrattuale, su un piano di politica economica, che inevitabilmente hanno consacrato Usa, Cina e Germania sul podio delle leadership mondiali (così ponendo a livello verticistico inferiore, quasi dipendente, tutti gli altri paesi).

Questa rappresentazione dello scenario legato ad import-export globale non altro si traduce anche, per certi versi, in relazioni di debito pubblico funzionale a finanziarie le economie di quei paesi (non in via di sviluppo) ma che sono già potenze o che presumono di esserlo in via indipendente ed autonoma.

L’Italia è un caso particolare, dati alla mano, poiché a luglio 2019 i depositi di conto estero, stando al rapporto dell’Agenzia delle Entrate (aggiornato anche grazie agli ultimi accordi OCSE in merito alla caduta del segreto bancario), ammontavano a circa 85 miliardi di euro su un campione di circa 1 milione di censiti; ciò facendoci intendere che la fuga monetaria è implicitamente indice di scarsa competitività anzitutto in termini di rendimento a cui si collega, indissolubilmente, una incidenza tributaria superiore rispetto ad altre piazze.

Si badi bene che non per forza deve trattarsi di paradisi fiscali ben potendo, invece, riguardare alcune consorelle Europee (come Lussemburgo, Belgio, Olanda, ecc.).

La dimensione europea unita a quella internazionale fanno dell’Italia, certamente, un paese ad alto tasso di appetibilità finanziaria.

Tratterebbesi, però, di appetibilità “a contrario”: in poche parole abbiamo per anni esportato fuori continente, tra l’altro a basso costo, tanta ricchezza (non c’entrando molto il fatto che l’unità di valore fosse espressa in euro o meno), di contro importando “fatalmente”, ad alti costi sociali, tanta povertà (si ribadisce che il riferimento è solo economico e non umano).

All’interno del perimetro europeo, contrariamente a quanto possa immaginarsi comunemente, l’Italia ha consolidato una crescita basata su fronti commerciali ed industriali alquanto merceologicamente insoliti; ciò soprattutto rispetto alla naturale e presunta maggiore trazione turistico-culturale ed anche del mercato agro-alimentare che, mediamente, si pensa siano predominanti rispetto ad altri asset.

In verità le prime esportazioni dell’Italia sono in materia di medicinali confezionati, automobilistica, raffinazioni di petrolio, ricambi e valvole.

I dati OEC sembrano chiarire meglio il quadro: il primo paese verso cui esportiamo è la Germania con 58 miliardi circa di valore mercato ed a seguire Francia, Usa, Regno Unito e Spagna (quindi paesi per 4/5 di matrice europea benché vi sia stata ultimamente la Brexit).

Logica vuole che, quindi, il pilastro della forza economico-attrattiva attuale per lo stivale si fonda proprio nella sicurezza di valore e di scambio espressa e garantita dall’interazione consolidata maggiormente su scala europea; non dovendo trascurarsi di considerare l’incidenza che hanno i rapporti di importazione (che in un certo senso rappresentano, in maniera quasi basilare, il grado di non autosufficienza interna di un paese).

D’altronde, a scanso di facili equivoci, l’Italia importa maggiormente proprio dallo stesso soggetto verso cui esporta di più ovvero la Germania con 72 miliardi circa di valore mercato (ed a seguire Francia, Cina, Paesi Bassi e Spagna).  

Il differenziale del bel paese è presto che tratto con un + 41 miliardi tra export ed import che, in realtà, è ben più alto sia di quello tedesco che di quello francese e, addirittura, molto più alto di quello statunitense.

Eppure l’Italia arranca terribilmente sul piano della virtuosità. Domanda spontanea a questo punto. Il debito pubblico è una zavorra o semplicemente è mal ottimizzato? Il caso Giappone può essere di riferimento o di paragone? Certo che no.

Il Giappone, con un grado di complessità economica stimato al 2,31, ha anzitutto una autonomia monetaria che solleva la virtuosità interna quando necessario (frustrando di contro quella esterna tanto che i paesi verso cui esporta sono quasi tutti di prossimità asiatica) garantendo direttamente i debiti con una Banca di ultima istanza (che, sostanzialmente, farebbe risultare in un certo senso come se i debiti interni dello Stato non esistessero stando anche a quanto affermato da alcuni illustri economisti).

L’Italia, invece, ha un sistema burocratico, fiscale, finanziario più ingarbugliato e quindi meno snello. Tuttavia, il grado di complessità economica italiano pari al 1,12 risulta molto inferiore come dato rispetto al parametro sia nipponico che tedesco.

Non a caso la burocrazia e l’incidenza del rapporto fiscale incitano la fuga di imprese e di capitali così come le persone che, essendo primo motore di scelta, cercano un equilibrio di sistema per investire: in Europa, tra i 20 paesi presi a campione nel rapporto della Commissione Europea all’ultimo triennio 2017, l’Italia è al penultimo posto per indice di qualità determinato, grossomodo, da una scarsa imparzialità amministrativa (tra cui anche quella di giustizia) ed elevata corruzione.

Ciò si traduce in incertezza complessiva del sistema paese che non fa altro che alimentare la poca credibilità, non tanto come popolo in quanto tale, ma come capacità riformatrice e migliorativa degli standard di competitività proprio in ordine alla famosa questione dell’ottimizzazione del debito pubblico.

Sicché specialmente l’Italia non potrebbe fare a meno di tre cose (urgenti) sul piano della credibilità anzitutto politica:

riequilibrare l’assetto normativo interno al fine di limitare il più possibile le interferenze di potere non funzionale (come ad esempio accade tra politica e magistratura);

evitare che il cittadino inciampi nei meandri della burocrazia (il più delle volte conditi di passaggi procedimentali sovrabbondanti) limando al massimo i tempi amministrativi la cui traduzione diretta è denaro spedibile prontamente per le imprese in termini di investimento e riflesso occupazionale;

in ultimo riequilibrare lo spazio di discrezionalità decisionale amministrativa, a seconda della complessità delle materie, al fine di evitare quanto più possibilmente fenomeni di corruttela.

Ecco che, fatta la cernita di alcuni punti da tenere in considerazione, si innesca oggi la “questione delle questioni” ovvero capire come l’Italia possa far fronte al meglio in ordine all’emergenza sia umana, sia sanitaria, sia economica che il coronavirus sta generando.

MES si o MES no, Eurobond si od Eurobond no. Essere Europa o non esserlo?

Non si risponde ad una domanda con un’altra, ma rende forse meglio l’idea di quanto approssimativa e superficiale sia stata la politica italiana da tangentopoli in poi.

Occorre proprio una “Trojka” dettata dall’esterno per rammodernare e riformare il paese?  

Germania e Co., a prescindere dalla storia degli abbuoni dei debiti dell’ultima guerra che alcuni Stati (tra cui l’Italia) hanno applicato e concesso nel tempo in particolare al paese tedesco, sono di fatto parametro d’efficienza sul piano della lotta agli sprechi nell’impegno finanziario di cui necessita il settore pubblico: in primis per quanto attiene alle occupazioni pubbliche per funzioni amministrative non necessarie o non funzionali.

Gli ultimi dati dell’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) confermano che il differenziale di garanzia di tenuta del posto di lavoro (sia esso pubblico o privato) tra Germania e Italia è di ben oltre 10 punti percentuali.

A ciò si aggiunga che Eurostat nel 2018 ha pubblicato i dati del tasso di occupazione risultando oggettivo che la Germania (con indice al 79,9%) supera l’EU28 (la quale rimane al 73,2%) nonché l’Italia (stadiatasi al 63%).

Ora, il paese deve sicuramente far fronte all’emergenza coronavirus che sta ammorbando sia il fronte sanitario che economico: mancherebbe a breve, praticamente, la liquidità necessaria a far fronte alla spesa pubblica corrente nonché a garantire nel breve-medio periodo i privati (soprattutto piccole-medio imprese e professionisti) e le casse integrazioni normate con decreti.

Motivi, quest’ultimi, per cui l’Italia dovrebbe sfruttare il MES o spingere per l’emissione di Eurobond?

Le due misure, tuttavia, sono radicalmente diverse:

quanto al primo, l’Italia è già contributore del fondo (Salva Stati) cosicché l’eventuale utilizzo è un debito di c.d. “condizionalità” in relazione ad obiettivi che il sistema nazionale dovrà perseguire e raggiungere (così recita l’art. 136 del TFUE modificato a seguito della decisione del Consiglio Europeo 2011/199/UE) ovviamente impiegando le risorse sbloccate in sede europea;

quanto al secondo, trattasi di emissione di titoli europei garantiti da tutti gli Stati membri al fine di supportare le economie di quegli Stati sensibilmente toccate dagli effetti del COVID-19.

Un dato per l’Italia è assodato: non avendo un sistema bancario interno di ultima istanza (stile Giappone) così come tutti gli altri di Eurozona, occorre confortarsi a livello europeo e capire quale strumento, alla fine dei conti, faccia meno male tenuto che abbiamo da fare ammenda, con tutta onestà, della nostra decennale o forse più che ventennale trascuratezza di sistema. Troppi sprechi, troppo tartassamento, troppa incertezza quanto a tempi di affermazione dei diritti accompagnati dall’altalenante pianificazione industriale e del lavoro.

Altro ciò non è che un forte deterrente per chi ha volontà di creare valore nel nostro paese a prescindere se si tratti di investitore italiano o straniero.

Attendisticamente, di fronte all’emergenza coronavirus che sta coinvolgendo tutto il mondo, il Governo italiano ha perplessità, condivisibili o meno, in merito all’efficacia risolutiva del MES: una ragione su tutte (a parer dello scrivente) par essere l’art. 4, co. 8, del trattato su Meccanismo predetto il quale sancisce che In caso di mancato pagamento, da parte di un membro del MES, di una qualsiasi parte dell’importo da esso dovuto a titolo degli obblighi contratti in relazione a quote da versare o a richiami di capitale ai sensi degli articoli 8, 9 e 10, o in relazione al rimborso dell’assistenza finanziaria concessa ai sensi dell’articolo 16 o 17, detto membro del MES non potrà esercitare i propri diritti di voto per l’intera durata di tale inadempienza. Le soglie di voto sono ricalcolate di conseguenza”.

Cioè significa che l’Italia, ove mai non fosse più in grado di pagare quanto sopra, sarebbe declassata e privata del diritto di voto che nel MES si tradurrebbe nel “non contare alcunché”: per non parlare delle conseguenze sul piano di credibilità politica, di comando collettivo (di prima linea) dell’Europa e di spendibilità sul piano internazionale.

Come entra in gioco la credibilità internazionale del nostro paese in questa dinamica? Da una parte il rapporto intrinseco con la BCE (la quale dovrebbe a sua volta, comunque, emettere titoli di debito europei, ove in facoltà, per ripianare le perdite di ricapitalizzazione eventualmente causate dall’Italia e chiudere i rubinetti della liquidità in termini di moneta reale), dall’altra parte la possibilità di partecipazione interessata del Fondo Monetario Internazionale (tra i cui membri permanenti l’Italia non siede) al MES predetto.   

La scelta degli Eurobond potrebbe essere altrettanto nefasta atteso che, ove mai altri Stati dell’Unione non fossero in grado di ripagare pro-quota, l’Italia dovrebbe a sua volta pagare insieme ad altri i debiti di questi paesi inadempienti finendo per essere il tutto una sorta di “vaso comunicante” in cui perde solo chi ha da perdere. Si aprirebbe, quindi, pur alla lunga la stessa strada di prima, ovvero il MES, sempreché l’Italia non faccia ciò che deve da tanto tempo: stringendo la cinghia internamente e dando maggiore slancio alle attività economiche le quali, di riflesso, creeranno occupazione, lavoro e crescita.   

Allora all’Italia, da questa drammatica vicenda del coronavirus, non resterebbe che cogliere un primo insegnamento: darsi da fare a riformare il paese con serietà al fine di renderlo altamente competitivo.

Magari tra 50 o 100 anni saremo in grado di non puntare più il dito verso altri popoli, di cui pensiamo peste e corna, se inizieremo ad imparare a lavare i panni sporchi in casa.

Ma per far questo occorre ritrovare una Politica (come classe dirigente in quanto tale e non tanto come appartenenza partitica) capace di indirizzare un paese, anche in maniera impopolare, assumendosi la responsabilità.

Non rimarranno parole retoriche, quest’ultime, se il popolo italiano ripenserà la politica stessa come valore e come primo ed ultimo confine della libertà di autodeterminazione.

Nell’epoca del coronavirus questa è la sfida più importante che ci attende per il dopo.

Prima però occorre fare tutti gli sforzi possibili, nazionali, europei e/o mondiali che siano, per salvare la vita delle persone.

Grecia docet.