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Mobbing - Cassazione: nessun danno alla professionalità se il lavoratore ha un nuovo impiego ugualmente qualificante

La Corte di Cassazione, in una recente sentenza, ha stabilito che il datore di lavoro che sia stato condannato per mobbing ai danni di un suo dipendente non è tenuto a risarcire il danno alla professionalità se questo ha trovato un nuovo impiego ugualmente qualificante rispetto al precedente.

Nel caso esaminato dalla Corte di legittimità, una lavoratrice, con incarico manageriale, rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa, in conseguenza di trattamenti vessatori posti in essere dal proprio datore di lavoro, e, ricorrendo in giudizio, otteneva dal giudice la condanna dello stesso al risarcimento del danno subito (in particolare, danno alla salute, accertato da un consulente tecnico d’ufficio, e indennità di preavviso).

Ottenuto nelle more del giudizio un nuovo impiego con trattamento economico e inquadramento contrattuale non deteriori rispetto a quelli goduti presso l’azienda della parte soccombente, non le era riconosciuto alcun danno alla professionalità.

La lavoratrice proponeva ricorso avverso la pronuncia del giudice di merito innanzi alla Corte di Cassazione, deducendo vizio di motivazione, per non aver il giudice riconosciuto un danno alla professionalità medio tempore tra il momento delle dimissioni e il nuovo impiego e di non aver tenuto conto dell’impiego immediatamente successivo a quello dal quale si era dimesso, nel quale era stata costretta a svolgere mansioni di livello inferiore al precedente inquadramento professionale.

La Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato. I giudici di legittimità hanno affermato che il comportamento vessatorio del datore di lavoro ai danni del dipendente non determina necessariamente una lesione dei diritti della personalità, lesione che deve essere allegata e provata da chi denuncia di averla subita. Questo in quanto il danno non è in re ipsa alla condotta vessatoria, ma deve essere denunciato e provato in giudizio.

Constatando che il danno alla professionalità sussiste nel caso in cui il superiore gerarchico, con proprie condotte, lede il novero delle competenze, capacità e abilità possedute dal proprio dipendente (tipico esempio è il demansionamento), questo non si determina se il lavoratore, a conclusione del precedente rapporto di lavoro, ottiene un nuovo impiego non meno qualificante del precedente.

In questo caso, il novero delle competenze e delle capacità, dunque la professionalità, non sono state in alcun modo intaccate dalla condotta vessatoria della controparte, dato che il nuovo datore di lavoro, nell’attribuire l’incarico, ha ritenuto le stesse sussistenti.

In sostanza, secondo la Cassazione, l’aver ottenuto, in un arco temporale di breve durata, un nuovo impiego con trattamento economico e inquadramento contrattuale non inferiore al precedente ha permesso alla lavoratrice di “evitare” un danno alla propria professionalità, ragion per cui non esistendo alcun danno non può essere richiesto alcun risarcimento.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 11 agosto 2015, n. 16690)

La Corte di Cassazione, in una recente sentenza, ha stabilito che il datore di lavoro che sia stato condannato per mobbing ai danni di un suo dipendente non è tenuto a risarcire il danno alla professionalità se questo ha trovato un nuovo impiego ugualmente qualificante rispetto al precedente.

Nel caso esaminato dalla Corte di legittimità, una lavoratrice, con incarico manageriale, rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa, in conseguenza di trattamenti vessatori posti in essere dal proprio datore di lavoro, e, ricorrendo in giudizio, otteneva dal giudice la condanna dello stesso al risarcimento del danno subito (in particolare, danno alla salute, accertato da un consulente tecnico d’ufficio, e indennità di preavviso).

Ottenuto nelle more del giudizio un nuovo impiego con trattamento economico e inquadramento contrattuale non deteriori rispetto a quelli goduti presso l’azienda della parte soccombente, non le era riconosciuto alcun danno alla professionalità.

La lavoratrice proponeva ricorso avverso la pronuncia del giudice di merito innanzi alla Corte di Cassazione, deducendo vizio di motivazione, per non aver il giudice riconosciuto un danno alla professionalità medio tempore tra il momento delle dimissioni e il nuovo impiego e di non aver tenuto conto dell’impiego immediatamente successivo a quello dal quale si era dimesso, nel quale era stata costretta a svolgere mansioni di livello inferiore al precedente inquadramento professionale.

La Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato. I giudici di legittimità hanno affermato che il comportamento vessatorio del datore di lavoro ai danni del dipendente non determina necessariamente una lesione dei diritti della personalità, lesione che deve essere allegata e provata da chi denuncia di averla subita. Questo in quanto il danno non è in re ipsa alla condotta vessatoria, ma deve essere denunciato e provato in giudizio.

Constatando che il danno alla professionalità sussiste nel caso in cui il superiore gerarchico, con proprie condotte, lede il novero delle competenze, capacità e abilità possedute dal proprio dipendente (tipico esempio è il demansionamento), questo non si determina se il lavoratore, a conclusione del precedente rapporto di lavoro, ottiene un nuovo impiego non meno qualificante del precedente.

In questo caso, il novero delle competenze e delle capacità, dunque la professionalità, non sono state in alcun modo intaccate dalla condotta vessatoria della controparte, dato che il nuovo datore di lavoro, nell’attribuire l’incarico, ha ritenuto le stesse sussistenti.

In sostanza, secondo la Cassazione, l’aver ottenuto, in un arco temporale di breve durata, un nuovo impiego con trattamento economico e inquadramento contrattuale non inferiore al precedente ha permesso alla lavoratrice di “evitare” un danno alla propria professionalità, ragion per cui non esistendo alcun danno non può essere richiesto alcun risarcimento.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 11 agosto 2015, n. 16690)