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Pianto d'Italia

Presagi…
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Pianto d'Italia

Due di questi colonnini, in successione piuttosto umorale che intenzionale, mi stanno scaricando sulla scrivania una mappa di nuova specie: un pianto d’Italia, inventario dei dolori delle cento città, descritti dagli abitanti. Ricapitolo un momento. Ai primi di giugno, di fronte alla fotografia d’una navicella che, a Venezia, era andata a cozzare contro la riva dei giardini, confessai un mio antico terrore, che un giorno si ripeta con una petroliera. Due decine di lettere ora mi incitano a continuare, per “smuovere l’opinione pubblica italiana” e, chissà perché, “americana”. Due settimane più tardi tentai di visitare la mostra medicea di Palazzo Vecchio a Firenze, e me ne venne un’invettiva contro le volgarità, la sporcizia, la degradazione urbanistica e morale cui soccombe la povera città, percossa dal flagello turistico.

Ed ora, ecco una alluvione di consensi, incitamenti, denunce, suppliche, esortazioni. Dovrei fare una campagna, trasferirmi da una città all’altra, visitare questo, rendermi conto di quello. Ecco descrizioni, fotografie. Un’impressione curiosa è che, mentre alcune di queste lettere, da centri minori, lamentano che s’incoraggi abbastanza il turismo, quelle che giungono dalle città prese d’assalto dalle orde sudicie, rumorose, ignoranti, che devastano Piazza San Marco, lordano Piazza della Signoria, invadono con la schifosa ressa dei pullman tutto il perimetro di Santa Maria del Fiore, invocavo protezione e leggi, che “scoraggino il turismo”.

Non mi sembra facile, ma basterebbe, se fosse applicata, la copiosa legislazione esistente, che colpisce chi insudicia, chi fa rumore, ed anche chi occupa abusivamente il suolo pubblico, come le torme cenciose che vi stanno distese. C’è, ma non si applica, ecco tutto. Perché? Per paura e incuria.

Registro l’ingresso del turismo, uno dei miti del dopoguerra, nell’inventario delle pubbliche calamità.

Quelle davanti a cui si alzano le mani inermi, gli occhi al cielo, per non vedere. Così come di fronte ai guasti della natura, quando si mette in funzione la macchina retorica del piagnisteo televisivo di Stato, s’incolpano gli elementi “impazziti”, il “fiume rivoltato”, l’acqua “scatenata” e così via, invece di ricercare colpe riconoscibili di imprevidenza, incompetenza e incoscienza.

Chi conosca appena la storia di Venezia, sa la lotta prudente, assidua, oculata, che il suo Governo condusse contro le acque, dolci e salate. Fiumi vennero deviati a monte, per allontanare il flusso dei detriti se minacciava d’interrare la laguna. Ma potevano anche essere riavvicinati, se l’equilibrio liquido richiedeva l’apporto di masse di terra.

Forti immensi vennero eretti contro le acque, prima ancora che contro le flotte dei nemici: i “murazzi”, che la repubblica veneta alzò a sfida dei secoli, e che restano le sole difese, mentre i tramezzi di cartone della repubblica italiana cadono a pezzi. L’Italia, che pretendeva di metter becco e denari nelle piene del Nilo, e si scoprì indifesa da quelle dell’Arno. Che non sa proibire alle petroliere di passare tra San Marco e San Giorgio Maggiore. Pronta, al momento buono, a buttarsi alle lacrime e berciare d’imprevedibili catastrofi contro cui è impossibile lottare.

Quando l’ondata d’acqua e nafta invase il “bel San Giovanni” caro ai fiorentini dai tempi di Dante, si disse che nessuno poteva prevedere il disastro. Ma poi si scopri che montagne di quadri e manoscritti, libri e pergamene erano perdute perché si conservavano in sotterranei e cantine. Ma chi, tra i privati di Firenze, e di tutto il mondo, conserva manoscritti e tele nelle cantine? Solo lo Stato, e allora il piagnisteo ufficiale intonò che lo Stato non aveva posto. Invece ne ha, fin troppo, solo che nessuno s’era preso il disturbo di andarlo a cercare. Osservò un giornale svizzero che l’allarme sarebbe bene darlo prima che i disastri avvengano, e non dopo. E’ vero che un’inondazione come quella che colpì Firenze viene ogni trecento anni. Ma è anche vero che cantine e sotterranei non furono mai posti adatti per conservarvi tesori archivistici e opere d’arte. Così, una catastrofe come quella d’una petroliera che si mette a versare il suo lurido e costoso contenuto in bacino di San Marco, “è un’ipotesi allucinante, a cui la fantasia arretra”, scrive un lettore. Ma è un’ipotesi reale, e non fantastica. Eppure, nessuno provvederà.

Ci dissero, dopo la guerra, che la nostra vocazione non era di conquistare l’umana grandezza con le armi nel pugno. L’Italia è un giardino, dissero, e noi siamo i giardinieri. Facessimo i giardinieri, pacifici e tranquilli e, e semmai anche gli albergatori e gli osti. E invece, abbiamo dovuto scoprire a nostre spese che la pace richiede a un popolo impegni diversi, ma non minori, della guerra. Che al giardiniere occorrono doti di preveggenza, energia, patriottismo, senso civico, e coraggio, non meno che al soldato. Altrimenti, le fiumane allagano il giardino, le erbacce lo sgretolano come a Pompei, le lagune lo sommergono, i petroli lo sconciano, i turisti lo scacazzano e gli speculatori se lo mangiano.

La pace può fare (e fa) guasti peggiori di qualsiasi guerra. Il conto delle rovine della “guerra fascista” è stato fatto e rifatto mille volte. Ma il conto delle rovine e delle distruzioni di trentacinque anni di pace democratica, fondata sul ladrocinio e sull’incuria, chi lo stenderà mai?

Articolo di Piero Santerno, da “Il Giornale”, 4 luglio 1980