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Processo tributario: appello valido anche se con lacune

Corte di Cassazione, ordinanza n. 3124 del 2 febbraio 2022
Processo tributario
Ph. Antonio Zama / Processo tributario

Processo tributario: appello valido anche se con lacune

Indice:

Il principio di diritto 

Il caso

La motivazione della sentenza

 

Il principio di diritto

La Suprema Corte di Cassazione con la recente ordinanza n. 3124 del 2 febbraio 2022, ha affermato che nel processo tributario l’appello è da ritenersi valido anche se difetti di un requisito formale che, tuttavia, non è così rilevante da incidere e rendere illegittimo il ricorso.

Nel dettaglio, i giudici di legittimità hanno chiarito che, nel contenzioso tributario, l’atto con cui si propone l’impugnazione deve essere interpretato nel suo complesso, affinché si possa verificare la presenza di tutti gli elementi della domanda che siano prescritti sotto comminatoria di nullità o di inammissibilità.

 

Il caso

La quaestio iuris in esame trae origine da una pronuncia della CTR della Campania che ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la pronuncia della CTP di Salerno con cui era stata accolta l’opposizione al silenzio rifiuto all’istanza di rimborso presentata da un contribuente per gli anni 2007, 2008, 2009, 2010 e 2011 per la mancata deduzione Irap relativamente alle spese del personale dipendente ed assimilato.

I giudici di seconde cure hanno rilevato che l’appellante si era limitato a ripetere pedissequamente le ragioni poste a fondamento del ricorso di primo grado chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata senza contestare in alcun modo le ragioni poste a fondamento della decisione gravata.

Avverso predetta sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 del Decreto Legislativo n. 546/1992, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR ritenuto inammissibile l’appello per difetto di specificità (nonostante le puntuali censure proposte dall’Ufficio avverso la decisione impugnata in ordine al difetto dei presupposti del diritto al rimborso e all’intervenuta decadenza per l’annualità 2007 e 2008).
 

La motivazione della sentenza

Ebbene, la Corte di Cassazione, investita dalla controversia, con l’ordinanza 2 febbraio 2022 n. 3124, ha ritenuto fondato l’unico motivo dedotto dall’Agenzia delle Entrate, in cui ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Dlgs n.546/1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n.3.

Specificamente, a parere dei giudici di legittimità, l’Ufficio ha correttamente denunciato un vizio di violazione di legge ritenendo che la CTR non abbia fatto esatta applicazione dei principi individuati nell’art. 53 del Decreto Legislativo n.546/1992.

A tal proposito, la Suprema Corte ha rammentato che “L’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, né determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato” (Cass. n. 26310/2017).

Tanto chiarito, il Supremo Consesso ha, inoltre, osservato che nel processo tributario l’atto con cui si propone l’impugnazione deve essere interpretato nel suo complesso, al fine di verificare la presenza di tutti gli elementi della domanda che siano prescritti sotto comminatoria di nullità o di inammissibilità (Cass. n. 687/07; Cass. n. 19639/08).

Nel loro iter logico, i giudici di legittimità, hanno precisato che, in un’ottica di conservazione degli atti processuali, la mancanza di un requisito formale dell’atto di appello non può, di per sé, equivalere a difetto di impugnazione, se dal contesto dell’atto risulti, sia pur in termini non formali, una univoca manifestazione di volontà di proporre il gravame per quello specifico motivo o nei confronti di un determinato soggetto (Cass. n. 7585/03; n. 25751/13, n. 20418/14).

In particolare, il Supremo Collegio, in riferimento al processo tributario, in via  preliminare ha sottolineato che il dato normativo, di cui all’art. 53 Decreto Legislativo n. 546/1992, stabilisce infatti che l’appello è da considerarsi “inammissibile” solo quando manchi del tutto, o sia “assolutamente incerto” uno dei seguenti elementi: “l’indicazione della commissione tributaria cui è diretto, dell’appellante e delle altre parti nei cui confronti è proposto, gli estremi della sentenza impugnata, l’esposizione sommaria dei fatti, l’oggetto della domanda ed i motivi specifici dell’impugnazione”, ovvero quando l’atto stesso “non è sottoscritto”.

Tanto premesso, in riferimento alla specificità dei motivi di impugnazione, la Suprema Corte ha affermato che: “In tema di contenzioso tributario, la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione, le quali, ai sensi del Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 53, comma 1, determinano l’inammissibilità del ricorso in appello, non sono ravvisabili qualora il gravame, benché formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità dei motivi essere ricavati, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni” (Cass., Ordinanza n. 20379 del 24/08/2017; Cass. sentenza n. 6473 del 06/05/2002).

La predetta interpretazione, a parere dei giudici di legittimità, è valida anche per altri elementi quali: gli estremi della sentenza, l’esposizione sommaria dei fatti e l’oggetto della domanda,  indicati dal citato articolo 53; tant’è, come recentemente sottolineato dalla Corte di Cassazione in una recente pronuncia (Cass., sez. 5, Sentenza n. 707 del 15/01/2019) tanto “Nel processo tributario la sanzione di inammissibilità dell’appello (per difetto di specificità dei motivi), prevista dal Decreto Legislativo n. 546 del 1992, articolo 53, comma 1, deve essere interpretata restrittivamente, in conformità all’articolo 14 preleggi, trattandosi di disposizione eccezionale che limita l’accesso alla giustizia, (dovendosi consentire, ogni qual volta nell’atto sia comunque espressa la volontà di contestare la decisione di primo grado, l’effettività del sindacato sul merito dell’impugnazione)”.

Dopo tale excursus giurisprudenziale, la Suprema Corte, venendo al caso di specie, ha ritenuto fondato il motivo di doglianza dell’Ufficio di violazione dell’art. 53 Decreto Legislativo n. 546/1992, atteso che la sentenza impugnata, con decisione apodittica, ha ritenuto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate privo di specificità, in quanto fondato “su una generica richiesta di riforma della sentenza di primo grado, senza però proporre a supporto delle ragioni che invece avrebbero dovuto accompagnare il giudizio presso questa Commissione regionale”.

Difatti, secondo il Supremo Consesso, la specificità dei motivi di appello richiesta da tale norma non impone rigidi formalismi sicché i singoli motivi, come precedentemente esplicato, non devono necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica indicazione, ma possono essere ricavati anche per implicito purché in maniera univoca, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso, comprese le premesse in fatto, la parte espositiva e le conclusioni purché vi sia un’esposizione chiara ed univoca anche se sommaria (Cass. 18455 del 21/09/2016; Cass. n. 1224 del 19/01/2007).

Per di più, in un’altra pronuncia (Cass. n. 24641 del 2018), la Corte di Cassazione ha evidenziato che nel processo tributario, anche nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e a riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato già dedotte in primo grado, deve ritenersi assolto l’onere d’impugnazione richiesto dall’art. 53 del Decreto Legislativo n. 546/1992, che costituisce norma speciale rispetto all’articolo 342 c.p.c.

Alla luce di tanto, i giudici di legittimità, hanno dedotto che l’Agenzia dell’Entrate, come si evince dall’esame delle doglianze debitamente trascritte in ossequio al principio di autosufficienza, ha contestato la decisione di primo grado sia con riferimento alla carenza dei presupposti del diritto al rimborso sia per l’intervenuta decadenza per i versamenti relativi agli anni 2007-2008.

Pertanto, allorché come nel caso de quo, il dissenso della parte soccombente investa la decisione impugnata nella sua interezza e si sostanzi proprio in quelle argomentazioni che suffragavano la domanda disattesa dal primo giudice, la sottoposizione al giudice d’appello delle medesime argomentazioni formulate in primo grado adempie pienamente l’onere di specificità dei motivi (Cass. n. 8185/15; Cass. n. 14908/2014).

In definitiva, i giudici di legittimità hanno concluso che, ai sensi dell’art. 53 cit.: l’appello è da considerare inammissibile solo quando manchi del tutto o sia assolutamente incerto:

1) l’indicazione della commissione tributaria cui il ricorso è diretto;

2) estremi della sentenza impugnata;

3) l’esposizione sommaria dei fatti;

4) l’oggetto e i motivi specifici dell’impugnazione;

5) quando l’atto stesso non risulti sottoscritto.

Conseguentemente, la mancanza o l’assoluta incertezza dei motivi specifici dell’impugnazione non sono ravvisabili qualora il gravame, seppur formulato in modo sintetico, contenga una motivazione interpretabile in modo inequivoco, potendo gli elementi di specificità essere ricavati, anche per implicito, dall’intero atto di impugnazione considerato nel suo complesso.