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Profili storici e giuridici del fenomeno dell’usura

natura
Ph. Simona Loprete / natura

Abstract

Il fenomeno dell’usura, da qualsiasi ambito di indagine lo si voglia considerare, ha rappresentato una fonte inesauribile di questioni che hanno attratto più attenzioni.

Accese dispute e dibattiti, mai effettivamente sopiti nel corso dei secoli, nonostante il progresso della scienza giuridica e l’evolversi delle concezioni dottrinali sulla liceità del prestito ad interesse, spiegano facilmente la immanente attualità di questo delitto e, più in generale, della sua dinamica fattuale.

Un viaggio storico cercando di scoprire e di capire perché l’usura e l’usurario hanno sempre ricevuto, fin dall’antichità, disprezzo e rancore.

 

Historia magistra vitae.
Cicerone

 

Il fenomeno dell’usura, da qualsiasi ambito di indagine lo si voglia considerare, ha rappresentato una fonte inesauribile di questioni che hanno attratto più attenzioni.

Accese dispute e dibattiti, mai effettivamente sopiti nel corso dei secoli, nonostante il progresso della scienza giuridica e l’evolversi delle concezioni dottrinali sulla liceità del prestito ad interesse, spiegano facilmente la immanente attualità di questo delitto e, più in generale, della sua dinamica fattuale.

La recente relazione per l’anno 2020 dell’Ufficio del Commissario straordinario del Governo per il coordinamento  delle iniziative antiracket e antiusura – che trova la sua genesi istitutiva nell’articolo 2, comma 10 del d.p.r. 19 febbraio 2014,n. 60 – fotografa in modo esaurente come gli effetti della pandemia ovvero i mesi appena trascorsi segnati dall’emergenza sanitaria non abbiano condotto ad un aumento delle domande delle istanze al Fondo di solidarietà, ex articolo 14 della legge 108//96; anzi, con un certo stupore, assai gradito in verità, questo numero è diminuito rispetto agli anni precedenti[1].

Le ragioni che possono essere addotte per spiegare questo andamento negativo sono molteplici e la Relazione pone e offre diversi profili in cui si rinvengono e traggono alcune matrici di tale statistica.

Intanto, il modello di solidarietà, offerto dalle leggi n. 108/1996 e n. 44/1999, unico in Europa, ha dato risultati importanti a sostegno delle vittime[2].

Tuttavia, dalla relazione stessa emerge come si renda ormai indifferibile intervenire – con una debita revisione – sulle disposizioni in tema di usura.

È ormai noto come un imprenditore che decida di ricorrere agli usurai si trovi già in una condizione economica disperata e quindi, per garantire una maggiore incisività all’azione solidale, contrastare con una draconiana “vitalità” tutti i commerci usurari, illegali e criminali, aiutando al contempo colui che denuncia.

Tralasciando ogni analisi o riflessione sulle varie fasi che connotano le vicende usurarie, laddove quella ricompresa tra la concessione del contributo economico da parte del Fondo e il reinserimento, il ritorno dell’imprenditore alla sua attività è certamente la più critica e delicata, è invece sempre più immanente la necessità di svolgere un’attività di ricostruzione, non solo da un punto di vista penalistico, criminologico e commerciale.

Non mancano gli studi in tal senso; l’ultimo, assai autorevole, è quello dei ricercatori dell’Università Commerciale “L. Bocconi” che alla data del 15 settembre 2020, attraverso il modello teorico microeconomico, abbia esplorato il contenuto dei 235 fascicoli presenti nell’arco temporale tra il 2000 e il 2020, elaborando una vera definizione dei “profili” delle vittime di usura e sui benefici ottenuti dal Fondo di Solidarietà.       

La crescita impressionante del fenomeno dell'usura negli ultimi anni spinge a interrogarsi sull'origine, sull'evoluzione e sulle caratteristiche di una pratica millenaria e straordinariamente diffusa.

La storia dell’odio e del disprezzo che ha accompagnato tale piaga è tanto antica quanto lo è il denaro.

I primi riferimenti alla pratica dell'usura si rinvengono nei testi dell'India antica (dal 2000 a.C. in poi), nei quali ripetutamente si definisce usuraio chiunque presta denaro contro un interesse, evidenziando un radicato disprezzo per una tale prassi.

Si noti come non si faccia riferimento all’entità degli interessi stessi, ma semplicemente alla loro richiesta, già da subito evidenziando la sostanziale differenza con il concetto moderno di usura.

Anche nella cultura classica della Grecia Antica, sommi filosofi, quali Platone ed Aristotele, condannarono esplicitamente nei propri scritti l'usura, largamente diffusa nella polis greca. Ad es. Aristotele nell’Etica Nicomachea considerava l’usura come una categoria morale negativa, affermando senza mezzi termini come solo dal lavoro umano o dal suo intelletto potesse nascere la ricchezza, mentre quella prodotta dal denaro fosse solo dannosa (“nummus nummum parere non potest” ovvero “il denaro non può generare denaro”).

È innegabile che alla vicenda dell’usura siano anche indissolubilmente legate le concezioni religiose dominanti: l’Ebraismo e l’Islam hanno da sempre dedicato molta attenzione a tale fenomeno, e il Cristianesimo, in particolare, non poteva che divenire il più acerrimo nemico e, come vedremo, il salvatore dell’usuraio. È proprio nella condanna religiosa che trova le basi l’ostilità che con cui la società, la politica e la legge da sempre trattano l’usura.

È nel Medioevo che la figura del usuraio si arricchisce di tratti che valgono a farne un vero mostro: basti pensare alle raffigurazioni scultoree della dannazione dell’usuraio presenti in molte chiese di quel periodo, così come viene accomunato nella condanna a prostitute e giocolieri, si vide negata anche la sepoltura cristiana, ed il diritto di fare elemosine.

In più, l’usuraio ha il primato non solo perché pecca contro Dio violando la sua legge, ma lo offende andando contro natura, cioè facendo fare frutti a ciò che per natura è sterile.

Non a caso Dante mette gli usurai tra i sodomiti ed i bestemmiatori, altri peccatori contro natura (Inferno XVII canto. Ma anche Inferno XI, 94-111 “e perché l’usuriere altra via tiena, per sé natura e per la sua seguace/dispregia poi che in altro pon la speme”).

Nella tradizione cristiana la problematica dell'usura era in effetti sempre stata presente, ereditata tanto dalla cultura ebraica quanto da quella classica, assorbita e quindi rielaborata dai dottori della Chiesa cattolica.

Essa fu inoltre proibita già nei canoni dei primi concili di Elvira (300), Nicea (325) e Clichy (626), e poi affrontata soprattutto da quasi tutti i grandi concili ecumenici del Medioevo che vanno dal 1123 al 1311-1312[3].

Dai sermoni dei tre famosi predicatori (san Bernardino da Siena, san Giacomo della Marca, ed il beato Bernardino da Feltre, tutti francescani dell’Osservanza) trapela in effetti una coscienza antica e comune, ma anche tipicamente "popolare" nei confronti della piaga feneratizia.

In particolare, quest'ultimo aspetto si poteva manifestare più chiaramente quando nei discorsi dei predicatori si voleva soprattutto difendere i poveri dall'attività illecita dell'usuraio.

In realtà, questa attenzione non era rivolta solo ai "veri" poveri, quelli che avevano già diritto all'elemosina e al sostentamento diretto da parte del prossimo facoltoso (costoro, essendo poveri, avevano ben poco da portare in pegno agli usurai); ma era rivolta anche all'indigente potenziale, agli artigiani, ai contadini, ai piccoli professionisti che per impellenti difficoltà economiche potevano trovarsi nel baratro dell'indebitamento perdendo i loro beni, e soprattutto gli stessi strumenti con i quali essi lavoravano, trovandosi così costretti ad "abbandonare l'esercizio del mestiere o della professione" .

Dunque, tra i mille motivi di dannazione il più grave è certo violare con la propria attività le leggi della natura consentendo al denaro di produrre altro denaro.

Può sembrare assai difficile comprendere, oggi, in un’epoca in cui la fruttuosità del denaro è un dato acquisito in maniera stabile alla coscienza sociale, come per l’uomo del Medioevo il denaro non potesse dar frutti.

Ad ogni modo, le fonti di questo divieto non potevano che essere autorevoli: si trattava, come tutti sanno, di pagine bibliche.

Nell’Antico Testamento, in quello che gli esegeti chiamano Codice dell’Alleanza – un complesso normativo, insieme giuridico e morale, in cui furono segnate le clausole del patto stipulato tra Yahweh ed il popolo ricondotto dall’Egitto alla Terra promessa – il divieto delle usure si trova chiaramente e ripetutamente formulato. Nel libro dell’Esodo (XXII, 24-26) si legge “se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse…”, nel libro del Deutoronomio “non farai al tuo fratello prestiti ad interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta ad interesse. Allo straniero potrai prestare ad interesse, ma non al tuo fratello”.

Senza che ci sia bisogno di andare a leggere altri passi vetero-testamentari, nei quali al divieto delle usure si fanno riferimenti puramente “sapienzali”, possiamo senz’altro constatare come il divieto delle usure trovasse nell’Antico Testamento una connessione evidente con la strutturale povertà del popolo d’Israele.

Ma non è soltanto nella tradizione biblica che troviamo affermato tale divieto: non è da meno il Corano – nato tanto tempo dopo rispetto al Codice biblico dell’Alleanza, ma in contesti per più di un verso non molto dissimili -, il quale contiene norme singolarmente assonanti con quelle che abbiamo appena letto.    

Ciò detto, agli occhi della cristianità medievale era un altro il testo che appariva ancora più cogente di quelli finora accennati.

Era il passo del Vangelo di Luca nel quale si leggeva “date a mutuo senza sperarne nulla” (Luca, VI, 35).[4] Da questa massima, così lapidaria nella forma e (secondo lo spirito tipico del terzo vangelo sinottico) così “estremistica” nella sostanza, parve che all’interprete non fosse lasciato alcun spazio, che fosse per lui giocoforza riconoscere che il mutuo non poteva che essere gratuito, che ogni usura – per quanto tenue – fosse irrimediabilmente da condannare come illecita.

La versione latina che Girolamo fece dell’originale greco di Luca diceva mutuum date nihil inde sperantes. Si trattò di una scelta precisa, che dava al testo latino un significato rigoroso: giacché nel mutuo romano non vi poteva essere differenza quantitativa tra pecunia data e pecunia restituta, sicché quel nihil che Girolamo scrisse non poteva riguardare l’usura ma afferiva alla stessa pecunia mutuata.

Del resto, poche righe prima, Luca aveva scritto “se date a mutuo a coloro da cui sperate di ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori danno a mutuo ai peccatori per ricevere altrettanto in restituzione.

Il senso del divieto evangelico è, a questo punto, chiarissimo: si deve essere disposti a dare mutuo senza sperare di ricevere nulla in restituzione, ma nulla davvero, nemmeno la somma prestata.   

In quel passo del Vangelo di Luca non c’era affatto scritto un precetto giuridico: l’evangelista non aveva voluto scrivere che il ricevere un’usura fosse cosa oggettivamente illecita.

D’altronde, se lo avesse scritto, sarebbe caduto in contraddizione con se stesso, se vero è che nella parabola detta “dei talenti” il servo infingardo viene condannato dal suo padrone proprio per non avergli consentito, al suo ritorno, di esigere dal banchiere la restituzione cum usuris  del talento depositato.

Resta tuttavia certo che la lettura divulgata per secoli di questo passo di Luca fu quella che abbiamo detto, che riduceva un precetto così delicato a semplice divieto delle usure.

In tutto questo ragionare, a parte qualche errore di lettura, l’immagine del povero, e di colui che approfitta della sua miseria per trarne un utile a proprio vantaggio rendendola ancora più disperata, è apparsa a tutti sintomo intollerabile di una situazione totalmente immorale.

All’epoca di Giustiniano invece vi fu una vera e propria regolamentazione del prestito ad interesse, con una suddivisione dei prestiti in civili, commerciali e marittimi.

In età del Principato, poi, si affermo il divieto delle “usurae supra duplum”allo scopo di impedire, l’ulteriore decorso degli interessi allorchè questi, con il loro decorrere, avessero raggiunto l’ammontare del capitale dovuto. Anche Giustiniano confermò tale divieto imponendolo a tutti i casi in cui erano dovuti interessi legali.[5]

Nel diritto canonico del Medioevo, il termine usura indicava semplicemente “il compenso dovuto per l’uso di capitale altrui, consistente generalmente nel pagamento, a termini periodici, di una somma di denaro quale corrispettivo per l’uso di una prestazione in denaro o di un altro bene immobile redditizio”[6].

Se in origine, quindi, non si trattava di un termine usato con significato spregiativo, successivamente divenne, anche per la legislazione secolare, un fenomeno oggetto di condanna e di restrizioni severe.

Fu Carlo Magno mediante i Capitolari (anno 779) e poi l’Admonitio generalis (anno 789), a d introdurre nella legislazione statuale il divieto dell’usura, senza tuttavia intervenire efficacemente sotto il profilo sanzionatorio, per cui l’usuraio rimaneva unicamente soggetto alla scomunica, all’obbligo di restituzione, all’infamia e alla pena arbitraria[7]

Certo, il passaggio da un mondo “feudale” ad uno “mercantile” di considerare il denaro, e il conseguente rinnovamento delle regole giuridiche, furono facilitati e resi possibili dalla riflessione, per tanti versi nuova e spregiudicata, avviata dagli Ordini mendicanti, in primo luogo dei Francescani.

Essi fecero, è vero, della povertà intransigentemente e professata la loro bandiera, operando la loro scelta ben consci di quello che intorno a loro era, nella società mercantile, lo “spirito del secolo”: lo stesso Francesco era figlio di un mercante, e certamente prese radicalmente le distanze dai modelli di vita paterni.

Proprio nel XV secolo vengono creati in Italia, su iniziativa di alcuni religiosi[8], mediante le offerte delle comunità, i cd. Monti di pietà che ben presto la Chiesa legittimò e regolamentò[9], prescrivendo che a tali prestiti fossero dovuti semplicemente applicati dei modestissimi tassi dovuti al sostenimento delle spese.

Proprio questo sforzo di liberazione rese possibile, almeno sotto il profilo teorico, una spregiudicatezza di pensiero e una capacità di nuova elaborazione di principi, tali da portare a soluzioni atte a fondare una moderna dottrina del capitale.

Proprio in chi aveva scelto la povertà come radicale stato di vita nacque l’idea moderna di proprietà privata, così come, dalla stessa matrice spirituale, si intese una nuova visione dei traffici aperta ai problemi che il mercato quotidianamente poneva.

Tale nuova concezione, portò ad intendere il denaro in un duplice modo: laddove il denaro non può generare denaro perché questo si risolverebbe nello sfruttamento di un bisogno, sarà automaticamente usura, laddove il denaro è capitale di rischio, mezzo d’investimento, strumento d’impresa, il divieto stesso può non funzionare.

Un non dimenticabile storico italiano, Gioacchino Volpe, ha parlato del secolo undicesimo come di un tempo “ricco di origini”. Frase felice e suggestiva ma che reca il rischio di avvalorare l’idea dell’avvio sostanziale di un tempo nuovo con la conseguenza di insistere su un divenire discontinuo ponendo la cesura tra il prima e il poi.

Il passaggio agrario di buona parte dell’Europa, la crescita demografica, la migliore circolazione della moneta, l’affermarsi del mercante professionista sono solo alcuni indici di quel “tempo nuovo” e, tuttavia, il fenomeno usurario non scompare.

L'usura si sviluppa sempre là dove i commerci sono fiorenti, ma anche là dove i rapporti di classe sono molto antagonistici, dove l'individualismo dei proprietari (fondiari o di capitali) è molto accentuato.

L'usuraio infatti è un individuo che si pone contro dei legami comunitari indeboliti, insinuandosi nelle debolezze di un sistema sociale dominante e portandole a completa rovina. E' come un virus in un corpo che si trascura, di un malato che s'illude di poter guarire senza medicine, che sottovaluta la gravità della propria patologia.

Il capitalismo nasce quando da un lato il borghese poteva chiaramente differenziare la propria attività da quella usuraria, facendola in un certo senso passare per un'alternativa legittima, convincente, adeguata, e dall'altro quando la pratica dell'usura, legalizzata nelle forme del moderno credito, si trasformava in una forma incentivante a sviluppare rapporti di sfruttamento di lavoro, in cui le parti contraenti erano giuridicamente e formalmente libere. Cosa che il cattolicesimo-romano, essendo una religione feudale, impostata sul rapporto personale di soggezione e quindi sulla rendita, non avrebbe potuto accettare sino in fondo, senza prima trasformarsi in una religione protestante, adatta a un credente di tipo borghese e imprenditoriale.

La teoria del "giusto prezzo" in tal senso è molto eloquente per spiegare i limiti di un'impostazione cattolico-romana in materia di economia politica.

Detta teoria (anche nel teologo più "oggettivo" come Tommaso d'Aquino) ha sempre avuto per tutto il Medioevo uno sfondo prettamente moralistico, in quanto ci si affidava alla buona volontà dei contraenti (venditore ed acquirente), i quali avrebbero dovuto evitare iniziative commerciali intenzionalmente fraudolenti o tali da favorire forme di monopolio.

La massima apertura circa la liceità della pratica del prestito ad interesse si registra con l’Illuminismo, basti pensare al pamphlet di Bentham del 1787[10] .

Non può sottacersi che la tesi della difesa del prestito ad interesse e del “non intervento” dello Stato nella fissazione di un tasso massimo praticabile, viene supportata anche da studiosi del pensiero economico, quali Marx e Weber[11].

Il ricorso al credito non viene più guardato con diffidenza ma si intensifica.

Tali principi furono ben presto recepiti dalle legislazioni europee, laddove in Francia dove già con una legge del 3 ottobre 1789 era stato abolito il tasso legale degli interessi, il codice civile napoleonico del 1804 lasciò alle parti piena facoltà di stipulare interessi sul prestito; in Inghilterra, venne abolito definitivamente il tasso minimo degli interessi nel 1854; in Italia, l’usura come reato prevista del codice del Regno di Sardegna, fu abolito da una legge del 5 giugno 1857.

In precedenza, in piena legislazione preunitaria, erano frequenti le misure, anche penali, contro la pratica usuraria.

Esse furono però in seguito eliminate sotto l’influenza della legislazione francese e con il diffondersi dei principi liberali di completa libertà di pattuizione.

In Sardegna, per esempio, fu vietata la convenzione di interesse eccedenti la misura legale, salvo i casi espressamente previsti dalla legge, e la arte eccedente venne imputata al capitale in forza dell’articolo 1936 del Codice Albertino[12].

Successivamente l’usura non venne prevista come fattispecie delittuosa dal codice penale sardo del 1859, né dal codice Zanardelli del 1889.

Non diversamente accadde in Toscana, dove, sebbene non vigesse una legge limitatrice dell’interesse convenzionale, la giurisprudenza dichiarava usurari gli interessi eccedenti il 12% in materia civile, mentre si rispettava la libertà di pattuizione in materia commerciale.

Infine, il codice civile del 1865, non conteneva alcuna disposizione esplicita per reprimere l’usura “reale” essendo dominante l’idea liberale contraria a porre ostacoli alla dinamica delle operazioni commerciali.

Nel codice penale Zanardelli, come detto, scomparve la fattispecie dell’usura come delitto.

Tuttavia, nei decenni successivi ed, in particolare negli anni a cavallo tra le fine del 1800 e l’inizio del 1900, a causa del dilagante fenomeno dell’usura in un contesto socio-economico di elevata criticità, si iniziò ad avvertire la necessità di modificare la legislazione vigente.

Si arrivò, quindi, alla fissazione per legge del tasso massimo di interesse, prevedendo anche poteri discrezionali del giudice, contemplando, nei casi più gravi, anche una sanzione penale.

Si giunse all’articolo 644, comma primo, del codice penale italiano del 1930- nella sua formulazione antecedente l’entrata in vigore della l. 108/1996, che puniva come usura il fatto di “chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, approfittando dello stato di bisogno di una persona, si fa da questa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra osa mobile, interessi o altri vantaggi usurari”.

Per completare il quadro il codice civile del 1942 interviene sul fenomeno mediante una strategia repressiva articolata in una pluralità di disposizioni, in particolare quelle di cui agli articoli 1448 e 1815.

Possiamo brevemente accennare che il legislatore del 1942 preferisce non vietare totalmente la pattuizione degli interessi ultralegali, ammettendoli qualora risultino da atto scritto, limitando l’interesse a quello legale sia qualora gli interessi ultralegali non risultassero da atto scritto che nell’ipotesi in cui fossero pattuiti interessi usurari.

In Italia, comunque, l’usura in concreto, così come previsto dal legislatore del 1930 non avendo dato buona prova di sé, specie a causa del dilagare del mercato dell’usura, con la ripresa economica e l’esplosione dei consumi nel dopoguerra e l’inevitabile anomalo indebitamento portò il legislatore nel 1992di interviene inasprendo il reato di usura di cui all’articolo 644 codice penale , per poi giungere alla legge 7 marzo 1996, n. 108, recante “Disposizioni in materia di usura” che ha dato ingresso e cittadinanza, tra gli latri, all’istituzione del fondo di garanzia per le vittime dell’usura, alla previsione del Taeg (tasso effettivo globale), all’aumento del tasso usurario ad un livello superiore a ben otto volte il tasso ufficiale di scontro(TUS) fissato dalla Banca d’Italia, ad una rivisitazione del dettato di cui all’articolo 1815 codice civile.

In conclusione di questa trattazione che ha aveva come scopo, essenzialmente, quello di ricostruire sommariamente i lineamenti e tratteggiare storicamente la vicenda dell’usura – per una più adeguata analisi, attesa la sconfinatezza dell’argomento, si rinvia ai diversi contributi di alto profilo e qualificato contributo scientifico che si sono alternati negli anni, di recente di veda, per tutti, P. DAGNA, Profili Civilistici dell’Usura, Cedam, 2008 - tra tanti passaggi legislativi, altrettanti radicali mutamenti di prospettive e termini di riferimento, il problema è che ancora oggi, purtroppo, riecheggia il quesito che Ludovico Antonio Muratori nel 1742, si chiedeva se  “sarebbe poi da desiderare che si desse ancora qualche nuovo stabile regolamento alla tanto imbrogliata materia delle usure, dibattuta fin qui con diverse opinioni tra i teologi e giuristi, dichiarando in quali casi s’abbia o non s’abbia a permettere che il danaro frutti a chi ne accomoda altrui”.  

Ognuno, in coscienza, dia una risposta.

 

[1] Per una lettura più ampia si rimanda a www.interno.gov.it/it/ministero/dipartimento-liberta-civili-e -immigrazione/commissario-straordinario-governo-coordinamento-iniziative-antiracket-ed-antiusura.

[2] Nel 1996, di fronte al dilagare di fenomeni criminosi connessi a fenomeni di tipo usurario, il legislatore ha dato un volto nuovo all’usura decidendo di combattere in modo più severo gli spostamenti di ricchezza caratterizzati dalla sproporzione delle controprestazioni, così da rispondere in modo congruo all’esigenza costituzionalmente garantita di salvaguardia dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Così la legge 7 marzo 1996, n. 108 ha ridisegnato il delitto di usura novellando l’articolo 644 codice penale

[3] Sino alla riforma di Giustiniano il livello massimo degli interessi risultava fisato nel dodici per cento annuo ovvero l’uno per cento al mese, sul punto cfr. CERVENCA, v. Usura (diritto romano), in Enc. Dir.. Milano, 1982, XLV, 1125.

[4] Per avere una valutazione globale e completa, si può vedere, per tutti, U. SANTARELLI, Mercanti e Società tra Mercanti,  Giappicchelli, 1998, p. 163 ss.

[5] BIANCHINI, La disciplina degli interessi convenzionali, 391.

[6] CARON, v. Usura (diritto canonico), in Noviss. Dig. It., Torino, 1957, XX, 378-381.

[7] Cfr. BOARI, v. Usura, (diritto intermedio), in Enc. Dir., Milano, 1992, XLV, 1135 ss.

[8] I due ordini maggiormente impegnati in questa iniziativa furono i Domenicani e i Francescani, e tra loro primeggia l’opera di Bernardino da Siena (1380-1444) .

[9] L’istituto dei Monti di Pietà divenne ecclesiastico a tuti gli effetti con il V Concilio Lateranense del 1512, ma fu il papa Leone X, tre anni dopo, con la bolla inter Multiplices, a darvi una regolamentazione.

[10] Jeremy Bentham, il migliore esponente del pensiero sul tema dell’usura durante l’Illuminismo, convinto seguace delle teorie economiche di Adam Smith, nel suo documento Defency of usury, espose sistematicamente le ragioni a favore della praticabilità del prestito ad interessi sostenendo l’inutilità di provvedimenti normativi tesi a fissare per legge un tasso massimo nel mercato finanziario.   

[11] Per un’analisi dell’argomento, v. MANZIONE, Usura e mediazione creditizia – Aspetti sostanziali e processuali, Milano, 1998, 11 ss.

[12] Il codice civile sardo del 1837 consentiva la stipulazione degli interessi nel mutuo di denaro, di derrate e di alte cose mobili (articolo 1933) e il mutuatario che aveva pagato gli interessi non convenuti, non poteva ripeterli, né imputarli sul capitale.