Abuso d’ufficio: una nuova lettura
La recente riforma del delitto di abuso di ufficio ha stimolato e continuerà a stimolare l’attenzione della dottrina e degli operatori della giustizia laddove l’incessante esigenza di fornire risposte a problemi di diritto transitorio non potrà che imporre alla giurisprudenza di affrontare tutti gli aspetti ermeneutici che la portata della norma ha sempre accompagnato, fin dal suo nascere.
Ora, non può rimanere negletta una circostanza che, in qualche modo, ha scosso gli “ambienti giudiziari” costituta dalla recentissima sentenza del Corte di Cassazione n. 442 del 2021 - Sezione Sesta Penale, Pres. Fidelbo, Rel Giorgi, dal cui contenuto si rinviene la genesi di questo contributo che non ha alcuna ambizione di competere con i diversi – a dir poco – qualificati e qualificanti studi che in dottrina si sono enucleati negli ultimi decenni.
La necessità di svolgere un commento alla sentenza 442/21 mi esonera, pertanto, dalla facile tentazione di svolgere una lunga e approfondita analisi di tutti quei profili che la norna in esame, ossia l’articolo 323 Codice Penale, ha offerto nel tempo, anche con una certa generosità dogmatica attesa la immensa latitudine applicativa che discendeva dal testo che, via via nel tempo, ha subito nel suo contenuto.
Ciò detto, non è pleonastico tuttavia dare uno sguardo, fugace ma inclusivo di tutti i più grandi ritocchi che la norma ha subito, ai precedenti normativi che hanno portato all’evoluzione della formulazione dell’articolo 323 Codice Penale.
Nel Codice Rocco, il delitto in esame – denominato in rubrica “abuso di ufficio in casi non previsti specificamente dalla legge, ma più comunemente noto come “abuso innominato” (o generico) di ufficio – rivestiva una funzione sussidiaria o residuale di tutela, nel senso che ricorreva soltanto in quei casi nei quali l’abuso del pubblico ufficiale non fosse in modo specifico preveduto come reato da una particolare norma di legge.
Nonostante i gravi profili di indeterminatezza della fattispecie che da subito la norma rigurgitava, deve essere registrato come la Corte Costituzionale, investita della questione, non intese intervenire. Come noto, la riforma del 1990 stravolse completamente la norma trasformando l’abuso di ufficio in una figura di ampio raggio, idonea ad inglobare un numero indeterminato di condotte. Più segnatamente, quelle dinamiche fattuali che prima erano inglobate nella figura criminosa del peculato per distrazione, della malversazione a danno di privati, con novella venivano fatte confluire nel nuovo articolo 323 Codice Penale che qualcuno, diremmo giustamente, definì come un gigantesco contenitore[1].
Erano i tempi della norma “grimaldello”; l’articolo 323 Codice Penale, nel testo del 1990 presentava tre ordini di novità: l’ampliamento della cerchia dei soggetti attivi – ai pubblici ufficiali infatti si affiancavano le persone incaricate di un pubblico servizio; l’apposizione del limite dell’ingiustizia al danno o al vantaggio oggetto del fine che doveva animare la condotta del soggetto attivo; una differenziazione quod peanam tra vantaggio patrimoniale e vantaggi non patrimoniale, nel primo caso prevedendo una sanzione più elevata.
Un’impostazione avanzata, più matura, sicuramente.
Nel 1997 – cfr. l. 234/1997 – il volto dell’articolo 323 Codice Penale venne caratterizzato dalla necessaria violazione di legge o di regolamento e dalla illiceità intrinseca del danno o del vantaggio patrimoniale (sul punto, T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in www.giurisprudenzapenale.com).
Infine, con il Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, la fattispecie di cui all’articolo 323 Codice Penale subiva un nuovo intervento di riforma laddove si è voluto ancorare la condotta tipica alla violazione di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e a dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Tuttavia, ancora albergano diverse autorevoli voci che invocano una draconiana reazione a una norma che presenta, tutt’oggi, dei contorni troppo indeterminati.
Si pensi – da ultimo – alla voce del Prof. Cassese, uno dei massimi esperti in pubblica amministrazione – che in una recente intervista rilasciata al giornale Il Messaggero – Cfr. 20 febbraio 2021 – ravvisava, nei possibili abusi che si potevano avere nella sua interpretazione, la soppressione della norma in esame e la sua sostituzione con fattispecie più determinate e precise.
Tali riflessioni erano – e sono – rese ancor più attuali ed indifferibili dalla cd. “fuga dalla firma” dei dirigenti pubblici i quali dinanzi alla necessità di dover spendere gli ingentissimi fondi di derivazione europea legati e connessi al Recovery Fund, manifestano fondati timori nell’integrare il reato in parola si anella fase prodromica alla manifestazione di volontà della P.A. sia, e soprattutto, in tutta quella attività di scelta del contraente e dei successivi atti negoziali.
Del resto, l’articolo 323 Codice Penale è da sempre un crocevia tra il diritto penale e il diritto amministrativo e la sentenza 442/21 si pone perfettamente in questo crinale.
Diciamo questo perché secondo i giudici della Corte di Cassazione, “In tema di abuso di ufficio, la nuova formulazione dell’articolo 323 Codice Penale, introdotta dal Decreto Legge n. 76/2020, convertito dalla Legge n. 120/2020 con la sostituzione delle parole "di norme di legge o di regolamento" con quelle "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità", pretende che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Ne deriva un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità di condotta punibile, che sottrae al giudice sia l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare, sia il sindacato del mero cattivo uso della discrezionalità amministrativa”.
Nella fattispecie, alla luce della sopravvenuta modifica normativa, la Corte ha ritenuto di non poter confermare l’affermazione della responsabilità dell’imputato per il reato di abuso d’ufficio, risultando assente, nella sua condotta, la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità.
La sentenza è certamente interessante e foriera di alcuni aspetti che non possono rimanere negletti.
Primo fra tutti, la palese restrizione del suo ambito di operatività.
Sebbene sia stata constatata estinzione del reato per l’intervenuta prescrizione, i giudici di Piazza Cavour hanno esaminato la questione circa la rilevanza, nel caso in esame, della recente formulazione dell’articolo 323 Codice Penale, a seguito della novella introdotta dal Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha modificato il reato di abuso di ufficio, sostituendo le parole “di norme di legge o di regolamento” con quelle “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
La sentenza è ed appare interessante perché la figura di reato delineata da una norma di chiusura, come appunto l’articolo 323 Codice Penale, è ravvisata nell’obiettivo di tutelare i valori fondanti dell’azione della Pubblica Amministrazione, che l’articolo 97 Costituzione indica nel buon andamento e nella imparzialità fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante – introdotti dalla più recente riforma – sono costituiti dalle "specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione "di norme di legge o di regolamento", si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali.
Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito – effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
Il ragionamento dei Giudici di legittimità ha tuttavia un preciso limite: “l’esercizio del potere discrezionale” non deve trasmodare “in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto, i nuovi elementi di interessi”.
Ne consegue che “la nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” – la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa”.
Conseguenza indefettibile di un così ragionare è che la nuova formulazione della fattispecie dell’abuso di ufficio, restringendone l’ambito di operatività con riguardo al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta, determina all’evidenza serie questioni di diritto intertemporale.
Non solo.
Secondo la Corte di Cassazione, “non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis” in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’articolo 323 Codice Penale, siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità.
Corollario di tale percorso motivazionale è quello che, nei processi in corso, del proscioglimento dell’imputato, con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.
Punctum dolens dell’intero impianto motivazionale è il concetto di discrezionalità amministrativa.
Il caso affrontato dalla Corte di Legittimità verteva su una vicenda assai chiara: veniva contestato all’imputato di aver posto in essere una condotta amministrativa quale Commissario straordinario e Direttore Generale di un’azienda ospedaliera, laddove aveva demansionato la posizione giuridica ed economica del responsabile di una struttura organizzativa che aveva mutato da “complessa a semplice”.
All’imputato era stato riconosciuto un dolo intenzionale consistito nell’aver voluto destrutturare l’organigramma così da danneggiare la posizione del direttore della struttura stessa, laddove una serie di “indici sintomatici” quali la l’assenza di una seria ed urgente finalità organizzativa dell’Azienda, il difetto del necessario presupposto del c.d. atto aziendale, il persistente diniego di incontri per chiarimenti richiesti dal soggetto interessato alla destrutturazione.
La Corte di Cassazione rinviene nel “margine consentito di discrezionalità amministrativa” – oggi sottratto al sindacato di rilievo penale – che era attribuito all’imputato nella veste di commissario Straordinari e Direttore Generale la decisone di in questione ossia di riorganizzare la struttura e i servizi dell’Azienda Ospedaliera laddove non si palesava alcun conflitto di interesse, alcuna oggettiva distorsione dai fini pubblici di buon andamento, efficienza ed economicità perseguito dallo stesso ente, così da rientrare nel novero di quelle scelte di merito che, appunto, nel contesto “della discrezionalità amministrativa” la nuova formulazione dell’articolo 323 codice penale sottrae al sindacato del giudice penale.
Non rimane altro che provvedere, quanto prima, a trovare una soluzione politica, prima che legislativa.
[1] L’espressione è di PAGLIARO, Cotnrubuto al dibattito sull’abuso d’uffico, in Dir. Pen e proc., 1996, p. 1405.