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Riaffermata l’unitarietà della categoria dei dirigenti

1. Le recenti statuizioni

Con le sentenze n. 897 del 17 gennaio 2011[1] (est. Curzio) e n. 25145 del 13 dicembre 2010[2] (est. Ianniello), la Cassazione ha affermato di voler dare continuità all’orientamento asserito – anche al massimo livello di esercizio della funzione nomofilattica – da Cass. SU n. 7880/2007[3] (seguita da Cass. 24/6/2009 n. 14835) assertrice dell’unitarietà della categoria dirigenziale e negatrice di rilevanza giuridica alle diversificazioni interne alla categoria, di natura meramente sociologica e descrittiva, fra dirigente apicale, medio e minore, inidonee a conferire al middle e al low manager le garanzie contro il licenziamento accordate dalla legislazione (l. n. 604/66 e art. 18, l. n. 300/70) alle sottordinate categorie dei quadri, impiegati e operai; riconoscendone l’estensibilità solo ai c.d. «pseudo-dirigenti», cioè a coloro che della categoria hanno solo il nomen ma, in concreto, sono privi delle attribuzioni di potere e di mansioni, tali da farli ricondurre tra gli impiegati.

La riaffermazione dei principi espressi lucidamente da Cass. SU n. 7880 nel 2007 è avvenuta (nel caso deciso da Cass. n. 897/2011) nell’esame di un licenziamento disciplinare di un dirigente disposto da un’azienda senza l’applicazione della procedura di contestazione degli addebiti e del diritto di difesa ex art. 7 Statuto del lavoratori – contraddittorio asserito da Corte cost. n. 309/1992 e da Corte cost. n 427/2009 quale «imprescindibile principio di civiltà giuridica» -, licenziamento quindi dichiarato, per tale vizio, illegittimo dal giudice di secondo grado, congiunto all’obbligo per l’azienda della reintegrazione e del risarcimento di danno. Nella fattispecie decisa da Cass. n. 25145/2010, invece, la riaffermazione delle statuizioni di Cass. SU n. 7880/2007 è stata esplicitata a seguito dell’esame di un ricorso avanzato da una Società nei confronti di un mini dirigente, cui la Corte d’appello di Sassari aveva accordato, dietro affermazione di illegittimità del licenziamento, la reintegra ex art. 18 Statuto dei lavoratori. Ai giudici di merito la difesa della società imputava, tra l’altro – come nella fattispecie decisa da Cass. n. 897/2011 - di avere dato spazio a una distinzione tra dirigenti apicali e dirigenti minori che non trova invece riscontro nella legislazione in vigore. Per i giudici di merito, invece, la persona interessata sarebbe stato un dirigente minore e quindi il suo licenziamento poteva essere motivato solo con una giusta causa.

In entrambe le decisioni la Cassazione ha, in gran parte, accolto le ragioni delle Aziende ricorrenti, precisando innanzitutto - dopo avere passato in rassegna la più recente giurisprudenza in materia - che la qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopre un ruolo di vertice nell’organizzazione, ma anche a coloro che, per qualificazione professionale o responsabilità minori nell’organizzazione aziendale, rivestono di fatto una posizione di autonomia, tale per cui la contrattazione collettiva (cioè la specifica “convenzione” categoriale) riconosca la qualifica dirigenziale, così da essere pertanto denominati “dirigenti convenzionali”, cioè a seguito di convenzione o pattuizione contrattuale.

Ad essere esclusi dalla disciplina prevista per la categoria dei dirigenti – riconfermano entrambe le sentenze nn. 897/2011 e 25145/2010 della Suprema corte - sono «unicamente i cosiddetti pseudo-dirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome e il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quello dei cosiddetti dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva».

Conseguentemente viene statuito il seguente principio di diritto: «La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi nn. 604 del 1966 e 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi dell’articolo 10 della prima delle leggi citate, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente» (così Cass. n. 25145/2010).

Al tempo stesso vengono riprecisate le differenze sussistenti – in ordine alle causali del licenziamento del dirigente quali introdotte dalla contrattazione collettiva – tra la cd. «giustificatezza» e il «giustificato motivo» quale codificato nell’art. 3 della l. n. 604/1966. Asserendosi che l’asimmetria sussistente tra le due nozioni è riconducibile alla specificità e maggiore intensità e pregnanza del rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, in dipendenza delle mansioni, delle responsabilità e prerogative di autonomia conferitegli per la realizzazione degli obbiettivi aziendali. Ne consegue che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili in via preventiva oppure una deviazione dalle direttive assegnate dal datore di lavoro o un comportamento extralavorativo che incide sull’immagine aziendale, possono giustificare una rottura del rapporto di fiducia e condurre al licenziamento. Questo per quanto attiene al piano soggettivo, ma possono verificarsi anche ragioni oggettive per l’interruzione del rapporto di lavoro, quando, per esempio, la concreta posizione assegnata al dirigente nell’organizzazione aziendale non è più pienamente adeguata allo sviluppo delle strategie d’impresa del datore di lavoro. Una situazione che può condurre all’«espulsione del dirigente nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell’impresa sul mercato» (ancora, Cass. n. 25145/2010).

2. La continuità con Cass. SU n. 7880/2007

Le statuizioni delle due sentenze sinteticamente sopra riferite costituiscono espressa riaffermazione dei principi, statuiti nel 2007, dalle Sezioni unite della Cassazione[4]. La quale aveva asserito:

a)l’unitarietà della categoria dirigenziale, a prescindere dai livelli sociologico-organizzativi in cui, di fatto, si distingue ed articola (top, middle, low managers), irrilevanti ai fini della fruizione contro il licenziamento della garanzia del contraddittorio, della contestazione e del diritto alle controdeduzioni ex art. 7, l. n. 300/70, che la pregressa giurisprudenza aveva riservato ai soli medi e mini dirigenti, e che Cass. SU n. 7880/2007 (in armonia con la Corte costituzionale) affermò recisamente essere estensibili anche ai dirigenti apicali, senza interne differenziazioni a livello della normativa legale. Allo scopo osservando che: «...se il tratto caratterizzante dell’articolo 7 stat. lav. va individuato, come emerge, dunque, dai ricordati interventi della Corte Costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore ‑ nel momento in cui gli si addebitano condotte con finalità sanzionatorie ‑ il diritto di difesa, e se non è, come si è visto, di certo estranea alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali ‑ specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale ‑ possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo»;

b)la conseguente uniformità – a livello normativo (convenzionalmente derogabile dagli agenti contrattuali firmatari dei ccnl, come riscontrato esemplificativamente in passato nel settore bancario) - del regime di risoluzione del rapporto, ove il riscontro della cd. «non giustificatezza» conferisce a “tutti” loro (non già le tutele ex art. 18, l. n. 300/70 ma esclusivamente) le tutele convenzionali previste pattiziamente nei ccnl. Ribadendo che la cd. «giustificatezza» che legittima e condiziona la risoluzione ex art. 2118 e 2119 c.c. per la categoria della dirigenza, è concetto diverso dal «giustificato motivo» ex l. n. 604/66 e dalla «giusta causa». Infatti ha, a più riprese, asserito la S. corte che: «... la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento della L. n. 604 del 1966, ex art. 1; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. La valutazione dell’idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione»(così Cass. 2/3/2006 n. 4614 e Cass. 19/8/ 2005 n. 17039).

3. La figura dello «pseudo dirigente»

Le sezioni unite n. 7880/2007, infine, una volta effettuata l’operazione di uniformità, per l’intera categoria dirigenziale, del regime di risoluzione del rapporto, compirono una conseguente operazione di uniformità definitorio-terminologica, non priva di effetti sostanziali, ora ripresa, con chiarimenti specificativi, sia da Cass. n. 897/2011 sia da Cass. n. 25145/2010.

Assodato che nell’attuale periodo post-corporativo, non è dato riscontrare nella nostra normativa di diritto positivo una definizione ontologica del dirigente, la definizione dello stesso (per effetto di declaratorie ed esemplificazioni, in atti negoziali) consegue esclusivamente da assetti contrattuali, cioè dai ccnl, quindi da “convenzioni” raggiunte tra gli agenti negoziali.

Ne consegue che tutti i dirigenti, siano essi apicali, medi o mini, vanno qualificati – in difformità dal precedente orientamento – «dirigenti convenzionali», distinguendosi soltanto dallo «pseudo dirigente», al quale soltanto pregressi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, confermati dalle SU nella decisione n. 7880/2007, riconoscono le tutele per il licenziamento rinvenibili nella necessità di riscontro del «giustificato motivo» e «giusta causa» ex art. 3, l. n. 604/66 e nell’art. 18, Statuto dei lavoratori.

La categoria dello “pseudo dirigente” – da altri qualificato emblematicamente come dirigente “apparente”[5] – è costituita da coloro che del dirigente possiedono solo il nomen senza che ad esso corrisponda un sostrato mansionistico e di responsabilità decisorie tipiche della qualifica dirigenziale. Situazione che si verifica – nelle realtà aziendali – da un lato, e meno frequentemente, per effetto di demansionamento in compiti impiegatizi o di quadro verificatosi nel tempo a danno e con acquiescenza del dirigente originario (che non ha reagito all’inadempienza contrattuale e legale, per violazione dell’art. 2103 c.c., mediante azione giudiziaria) ovvero, dall’altro e più massicciamente, per effetto di attribuzione all’impiegato o al quadro della qualifica dirigenziale per premiazione del merito o accondiscendenza (inclusa la motivazione clientelare), senza corrispondenza delle mansioni pertinenti alla categoria.

Spesso l’iniziativa dell’azienda risulta in ciò favorita dalla facoltà contrattuale, riscontrabile – esemplificativamente, quanto isolatamente, nel settore del credito - di designare il dirigente con atto di investitura formale per effetto di quelle singolari pattuizioni contrattuali (modificate da poco tempo solo nella “forma”) per cui «sono dirigenti coloro i quali, in relazione al grado gerarchico, alla natura ed importanza delle funzioni effettivamente svolte, siano dalle rispettive aziende cui appartengono, come tali qualificati» (così emblematicamente tutti gli articoli afferenti alla qualifica del dirigente del credito contemplati nei ccnl precedenti quello del 22.11.1990 e sostanzialmente rimasti invariati, salvo modifiche formali, nei successivi fino al rinnovo del 19 aprile 2005).

Alla nostra stessa interpretazione giunge un altro giuslavorista, secondo il quale «la dizione di dirigente convenzionale (rectius, di “pseudoririgente” ora, n.d.r.) concerne il soggetto investito di un “nomen” (quello di dirigente) cui non corrispondono le specifiche mansioni attribuite, e che pertanto si fregia di tale qualifica per ragioni di condiscendenza, favor o altro»[6] ; dizione che è ben nota in dottrina ed in giurisprudenza ove, sin dagli anni ’80, ci si è dovuti occupare [7] della problematica del mantenimento, in capo allo «pseudo dirigente», delle garanzie avverso il regime di libera recedibilità (cd. licenziamento ad nutum, ex art. 2118 c.c.), giungendo, in maniera prevalente, alla conclusione dell’applicabilità al licenziamento dello «pseudo dirigente» delle garanzie previste per i lavoratori rivestenti qualifica impiegatizia. Garanzie notoriamente introdotte dalla legge n. 604/66 sui licenziamenti individuali (sostanziantesi nella ricorrenza della «giusta causa e giustificato motivo») e, successivamente, dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, introduttivo del regime di stabilità reale (tramite la sanzione per il datore di lavoro della "reintegrazione" nel posto di lavoro del prestatore ingiustificatamente licenziato).

La fattispecie dello pseudodirigente – patologicamente connotata – fruirà, anche ad avviso delle SU, della tutela e sottrazione al regime del licenziamento discrezionale aziendale (nella stragrande maggioranza dei settori merceologici, condizionato a riscontro di «giustificatezza»), costituito dal recesso con preavviso ex art. 2118 c.c. Sulla qualificazione convenzionale o "nomen", prevale – ai fini dell’individuazione del regime regolante la risoluzione del rapporto - l’effettività delle mansioni disimpegnate ai fini dell’adozione aziendale dell’atto rescissorio. Se così non fosse, il datore di lavoro possederebbe una formidabile arma per privare i lavoratori (meno graditi o di cui intende disfarsi) delle garanzie avverso il licenziamento discrezionale costituite dal riscontro della «giusta causa» o del «giustificato motivo» ex lege n. 604/66: quella del conferimento della qualifica di dirigente (non accompagnata dalle mansioni di pertinenza) onde portarli sotto un regime di minor tutela normativa in ordine alla risoluzione del rapporto.

Va subito precisato tuttavia che questa conclusione attinente al mantenimento delle tutele proprie della categoria impiegatizia o dei quadri direttivi di cui, in realtà si disimpegnano in concreto le mansioni, se appare eticamente condivisibile nei confronti dei dirigenti dequalificati (ma vedremo come vi sia giurisprudenza contraria al riguardo) – in quanto sottoposti ad un processo di erosione mansionistica che li degrada a livello impiegatizio, grazie anche a ben conosciute pratiche di mobbing aziendale[8] – è del tutto priva di tale carattere etico nella misura in cui il "beneficio" della sottrazione dal "recesso ad nutum" viene garantito allo «pseudorigente» titolare dell’avanzamento alla qualifica per motivi tutt’altro che riposanti sul merito quanto, invece, sulla condiscendenza, sul mero favoritismo o sul vero e proprio clientelismo.

Peraltro va detto che, a parte la difficoltà, in linea di principio, di operare diversamente - una volta che si sia scelto come “criterio guida” per il mantenimento delle garanzie contro il licenziamento quello delle effettive mansioni disimpegnate ex art. 2103 c.c. e ripudiato il criterio meramente nominalistico - se la garanzia può apparire un «doppio premio» per colui che è stato clientelarmente elevato alla dirigenza - l’impossibilità per l’azienda di privarsi di quello «pseudo dirigente», ricorrendo al recesso discrezionale, costituisce una indubbia sanzione per la stessa, in quanto costretta ad accollarsene perpetuamente la presenza e il costo in ragione ed a causa di un atto di scorrettezza, in assoluto e comparativamente. La costrizione al mantenimento in organico e con gli oneri di costo del lavoro da "dirigente", potrebbe – quindi – risolversi per una “sana” azienda ispirata ad efficienza, produttività e competitività, in una remora per la reiterazione, in futuro, del comportamento moralmente riprovevole. Tuttavia, in fatto la remora è da considerarsi meramente virtuale, data l’eccezionalità delle aziende del nostro Paese a non praticare il “clientelismo (familiare, nepotistico, politichese e via dicendo).

Come anticipato, va sottolineato che, in giurisprudenza, si registrano – allo stato – due decisioni di Cassazione[9] che inducono a riflessione, secondo le quali il regime di risoluzione del rapporto di «pseudo dirigenti» per demansionamento dovrebbe seguire l’inquadramento “formale” iniziale nella qualifica di dirigente, con la conseguenza che il dirigente che è stato demansionato sarebbe assoggettabile al recesso ad nutum (o quanto meno per cd. «giustificatezza», laddove contrattualmente prevista) giacché una pattuizione iniziale per la qualifica di dirigente non può essere vanificata da un atto nullo ex art. 2103 c.c., ai fini della disciplina applicabile per la risoluzione del rapporto, cioè a dire da un inadempimento datoriale, cui si può reagire con le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c., congiunte a richiesta risarcitoria di danni (professionali, da perdita di chance, esistenziali e morali).

Come ci sembra abbia avuto modo di precisare, in senso implicitamente correttivo, Cass. n. 897/2011 – nell’esame della fattispecie di declassamento del dirigente apicale o medio al rango di dirigente minore e con l’espresso richiamo di Cass., 8 novembre 2005, n. 21673, in cui il demansionamento si attualizzava tramite degrado da ruolo di dirigente apicale in incombenze di dirigente minore – il diniego di applicabilità della disciplina attinente alla cd. reintegra appare corretto giustappunto qualora la dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, attenga al dirigente apicale o medio scaduto in dirigente riconducibile alla media o bassa dirigenza, non già al dirigente demansionato in compiti tipicamente impiegatizi o di quadro. Infatti, in questo caso, l’iniziale formale riconoscimento o investitura come dirigente cede a fronte del prevalente riscontro delle effettive mansioni impiegatizie in cui si è stati degradati e che legittimano oltre al risarcimento del danno da dequalificazione anche la tutela reale. Infatti tale massiccia e umiliante dequalificazione fa sì che il dirigente demansionato ricada nella fattispecie dello pseudodirigente, con mansioni impiegatizie e trattamento retributivo sostanzialmente non molto dissimile da quello di un quadro o impiegato con sostanzioso superminimo.

E’ pertanto inapplicabile a quest’ultima fattispecie il brocardo «ubi commoda, ibi eius et incommoda» - espressivo di un principio giustizialista finalizzato a non consentire, da un lato, di fruire dei vantaggi (economici e di status ricollegabili alla qualifica dirigenziale) e, dall’altro, di sottrarsi agli svantaggi della posizione (quali il recesso discrezionale aziendale) utilizzabile solo per demansionamenti all’interno dell’unitaria, seppur articolata, categoria dirigenziale – giacché lo scadimento a ruolo di pseudodirigente in ragione del confinamento in compiti impiegatizi (e a maggior ragione in inattività) richiama l’applicazione di quel corretto principio di diritto, affermato da Cass. SU n. 7880/2007, che preclude che per gli pseudodirigenti sia «…praticabile uno scambio tra pattuizione dei benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata, al momento del recesso datoriale, dalla legge n. 604 del 1966 e dalla legge n. 300 del 1970».

Del tutto diversa dalla fattispecie dello «pseudo dirigente» è – come correttamente evidenziato dalle SU n. 8870/207 nonché da Cass. nn. 25145/2010 e 897/2011- la figura del “medio” (middle manager) e “mini dirigente” (low manager), che sono «dirigenti reali», seppure con poteri più circoscritti, e con la cui nozione - come è stato notato - si «intende descrivere la posizione di un soggetto che, pur investito di specifiche funzioni dirigenziali, non rivestirebbe gli attributi propri di un dirigente a tutto tondo (...). Se questa premessa è vera, si deve rilevare come la figura del dirigente convenzionale (rectius, pseudodirigente, ora, ndr.) non abbia mai incontrato soverchie difficoltà interpretative, essendosi usualmente ritenuta per esso operante la tutela ordinaria (e, cioè, quella propria della categoria impiegatizia), in ragione delle caratteristiche oggettive della prestazione; tale soluzione trovando intrinseco supporto nel rilievo di fondo secondo il quale sarebbe altrimenti risultato possibile aggirare la garanzia della stabilità semplicemente ricorrendo a qualificazioni convenzionali» [10].



[1] In Not. giurisp. lav. 2011, 371.

[2] In Not. giurisp. lav. 2011, 224.

[3] In Not. giurisp. lav 2007, 77.

[4] Da noi, a suo tempo evidenziati e commentati in La disciplina del licenziamento dei dirigenti (ricondotta ad unitarietà), nel nostro volume “Il rapporto di lavoro in azienda”, Ediesse, Roma 2008, 481 e ss.

[5] Così Liso F., in Il licenziamento del dirigente "apparente", in Giur. lav. 1981, II, 773.

[6] Così Papaleoni M., nella nota a Cass. n. 1434/1998, dal titolo "La frontiera mobile del licenziamento disciplinare del dirigente, ecc.", cit., 266. Per la legittimità dell’attribuzione convenzionale, quale trattamento di favore, della qualifica di dirigente a soggetto svolgente mansioni impiegatizie inferiori, vedi Cass. 5/2/1997, n. 1068, in Mass. giur. lav., "Mass. Cass." 1997, n.70, p. 23. Conf. Pera G., Manuale di diritto del lavoro, Padova 1996, 411, secondo cui: «Niente impedisce invero che un superiore inquadramento sia attribuito, anche se non propriamente corrispondente alle mansioni, solo per valutazioni soggettive, in considerazione altamente positiva della collaborazione del dipendenti, per particolare condiscendenza, ecc.».

[7] Vedi Vallebona A., La distinzione tra il dirigente e lo pseudo-dirigente per l’applicabilità della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato, in Foro. it. 1981, I, 832, che si è espresso a favore delle garanzie contro il licenziamento ad nutum per lo pseudodirigente. Conf. in giurisprudenza: Cass. 15 febbraio 1992, n. 1836, in Riv. giur. lav. 1992, II, 457; Cass. 5 gennaio 1983, n. 47, in Foro it. 1983, I, 31; Cass. 21 marzo 1980, n. 1922 (leading case), in Foro it. 1981, I, 832, con nota di Vallebona; Pret. Roma 20 gennaio 1981, in Riv. giur. lav. 1981, II, 761; Pret. Genova 15 giugno 1974, in Foro it. 1974, II, 2855. Contra: Liso F., Il licenziamento del dirigente "apparente", cit.; Mannacio G., Ha una qualifica di dirigente, ma se arriva il benservito può trasformarsi in impiegato, in Espansione, febbraio 1977.

[8] Sul tema ci sia consentito rinviare al nostro volume, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma (Ediesse ed.) 2006.

[9] Trattasi di Cass. 18/10/1997 n. 10627, in Not. giurisp. lav. 1997, 783, concernente il licenziamento di un dirigente apicale-direttore generale di banca dequalificato, a suo dire, in dirigente minore o al limite in funzionario, nonché di Cass.8/11/2005, n. 21673, ivi 2006, 34, parimenti attinente a demansionamento di dirigente apicale in dirigente minore.

[10] Così, del tutto condivisibilmente, invero solo sul punto specifico, Papaleoni M., op. cit., 266.

1. Le recenti statuizioni

Con le sentenze n. 897 del 17 gennaio 2011[1] (est. Curzio) e n. 25145 del 13 dicembre 2010[2] (est. Ianniello), la Cassazione ha affermato di voler dare continuità all’orientamento asserito – anche al massimo livello di esercizio della funzione nomofilattica – da Cass. SU n. 7880/2007[3] (seguita da Cass. 24/6/2009 n. 14835) assertrice dell’unitarietà della categoria dirigenziale e negatrice di rilevanza giuridica alle diversificazioni interne alla categoria, di natura meramente sociologica e descrittiva, fra dirigente apicale, medio e minore, inidonee a conferire al middle e al low manager le garanzie contro il licenziamento accordate dalla legislazione (l. n. 604/66 e art. 18, l. n. 300/70) alle sottordinate categorie dei quadri, impiegati e operai; riconoscendone l’estensibilità solo ai c.d. «pseudo-dirigenti», cioè a coloro che della categoria hanno solo il nomen ma, in concreto, sono privi delle attribuzioni di potere e di mansioni, tali da farli ricondurre tra gli impiegati.

La riaffermazione dei principi espressi lucidamente da Cass. SU n. 7880 nel 2007 è avvenuta (nel caso deciso da Cass. n. 897/2011) nell’esame di un licenziamento disciplinare di un dirigente disposto da un’azienda senza l’applicazione della procedura di contestazione degli addebiti e del diritto di difesa ex art. 7 Statuto del lavoratori – contraddittorio asserito da Corte cost. n. 309/1992 e da Corte cost. n 427/2009 quale «imprescindibile principio di civiltà giuridica» -, licenziamento quindi dichiarato, per tale vizio, illegittimo dal giudice di secondo grado, congiunto all’obbligo per l’azienda della reintegrazione e del risarcimento di danno. Nella fattispecie decisa da Cass. n. 25145/2010, invece, la riaffermazione delle statuizioni di Cass. SU n. 7880/2007 è stata esplicitata a seguito dell’esame di un ricorso avanzato da una Società nei confronti di un mini dirigente, cui la Corte d’appello di Sassari aveva accordato, dietro affermazione di illegittimità del licenziamento, la reintegra ex art. 18 Statuto dei lavoratori. Ai giudici di merito la difesa della società imputava, tra l’altro – come nella fattispecie decisa da Cass. n. 897/2011 - di avere dato spazio a una distinzione tra dirigenti apicali e dirigenti minori che non trova invece riscontro nella legislazione in vigore. Per i giudici di merito, invece, la persona interessata sarebbe stato un dirigente minore e quindi il suo licenziamento poteva essere motivato solo con una giusta causa.

In entrambe le decisioni la Cassazione ha, in gran parte, accolto le ragioni delle Aziende ricorrenti, precisando innanzitutto - dopo avere passato in rassegna la più recente giurisprudenza in materia - che la qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopre un ruolo di vertice nell’organizzazione, ma anche a coloro che, per qualificazione professionale o responsabilità minori nell’organizzazione aziendale, rivestono di fatto una posizione di autonomia, tale per cui la contrattazione collettiva (cioè la specifica “convenzione” categoriale) riconosca la qualifica dirigenziale, così da essere pertanto denominati “dirigenti convenzionali”, cioè a seguito di convenzione o pattuizione contrattuale.

Ad essere esclusi dalla disciplina prevista per la categoria dei dirigenti – riconfermano entrambe le sentenze nn. 897/2011 e 25145/2010 della Suprema corte - sono «unicamente i cosiddetti pseudo-dirigenti, cioè quei lavoratori che seppure hanno di fatto il nome e il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quello dei cosiddetti dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva».

Conseguentemente viene statuito il seguente principio di diritto: «La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi nn. 604 del 1966 e 300 del 1970 non è applicabile, ai sensi dell’articolo 10 della prima delle leggi citate, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente» (così Cass. n. 25145/2010).

Al tempo stesso vengono riprecisate le differenze sussistenti – in ordine alle causali del licenziamento del dirigente quali introdotte dalla contrattazione collettiva – tra la cd. «giustificatezza» e il «giustificato motivo» quale codificato nell’art. 3 della l. n. 604/1966. Asserendosi che l’asimmetria sussistente tra le due nozioni è riconducibile alla specificità e maggiore intensità e pregnanza del rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, in dipendenza delle mansioni, delle responsabilità e prerogative di autonomia conferitegli per la realizzazione degli obbiettivi aziendali. Ne consegue che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili in via preventiva oppure una deviazione dalle direttive assegnate dal datore di lavoro o un comportamento extralavorativo che incide sull’immagine aziendale, possono giustificare una rottura del rapporto di fiducia e condurre al licenziamento. Questo per quanto attiene al piano soggettivo, ma possono verificarsi anche ragioni oggettive per l’interruzione del rapporto di lavoro, quando, per esempio, la concreta posizione assegnata al dirigente nell’organizzazione aziendale non è più pienamente adeguata allo sviluppo delle strategie d’impresa del datore di lavoro. Una situazione che può condurre all’«espulsione del dirigente nel quadro di scelte orientate al miglior posizionamento dell’impresa sul mercato» (ancora, Cass. n. 25145/2010).

2. La continuità con Cass. SU n. 7880/2007

Le statuizioni delle due sentenze sinteticamente sopra riferite costituiscono espressa riaffermazione dei principi, statuiti nel 2007, dalle Sezioni unite della Cassazione[4]. La quale aveva asserito:

a)l’unitarietà della categoria dirigenziale, a prescindere dai livelli sociologico-organizzativi in cui, di fatto, si distingue ed articola (top, middle, low managers), irrilevanti ai fini della fruizione contro il licenziamento della garanzia del contraddittorio, della contestazione e del diritto alle controdeduzioni ex art. 7, l. n. 300/70, che la pregressa giurisprudenza aveva riservato ai soli medi e mini dirigenti, e che Cass. SU n. 7880/2007 (in armonia con la Corte costituzionale) affermò recisamente essere estensibili anche ai dirigenti apicali, senza interne differenziazioni a livello della normativa legale. Allo scopo osservando che: «...se il tratto caratterizzante dell’articolo 7 stat. lav. va individuato, come emerge, dunque, dai ricordati interventi della Corte Costituzionale, nell’esigenza di garantire ad ogni lavoratore ‑ nel momento in cui gli si addebitano condotte con finalità sanzionatorie ‑ il diritto di difesa, e se non è, come si è visto, di certo estranea alla ratio della norma in esame l’intento di tutelare la “persona” del lavoratore nella professionalità, nel decoro e nella sua stessa immagine, tutto ciò attesta che non risponde a consequenzialità logica una lettura restrittiva del dato normativo che finisca per penalizzare i dirigenti, i quali ‑ specialmente se con posizioni di vertice e se dotati di più incisiva autonomia funzionale ‑ possono subire danni, con conseguenze irreversibili per la loro futura collocazione nel mercato del lavoro, da un licenziamento, che non consentendo loro una efficace e tempestiva difesa, può lasciare ingiuste aree di dubbio sulla trasparenza del comportamento tenuto e sulla capacità di assolvere a quei compiti di responsabilità correlati alla natura collaborativa e fiduciaria caratterizzante il rapporto lavorativo»;

b)la conseguente uniformità – a livello normativo (convenzionalmente derogabile dagli agenti contrattuali firmatari dei ccnl, come riscontrato esemplificativamente in passato nel settore bancario) - del regime di risoluzione del rapporto, ove il riscontro della cd. «non giustificatezza» conferisce a “tutti” loro (non già le tutele ex art. 18, l. n. 300/70 ma esclusivamente) le tutele convenzionali previste pattiziamente nei ccnl. Ribadendo che la cd. «giustificatezza» che legittima e condiziona la risoluzione ex art. 2118 e 2119 c.c. per la categoria della dirigenza, è concetto diverso dal «giustificato motivo» ex l. n. 604/66 e dalla «giusta causa». Infatti ha, a più riprese, asserito la S. corte che: «... la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del licenziamento della L. n. 604 del 1966, ex art. 1; conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente. La valutazione dell’idoneità del fatto materiale ad integrare la giustificatezza è rimessa al giudice di merito ed in sede di legittimità resta sindacabile solo per vizi di motivazione»(così Cass. 2/3/2006 n. 4614 e Cass. 19/8/ 2005 n. 17039).

3. La figura dello «pseudo dirigente»

Le sezioni unite n. 7880/2007, infine, una volta effettuata l’operazione di uniformità, per l’intera categoria dirigenziale, del regime di risoluzione del rapporto, compirono una conseguente operazione di uniformità definitorio-terminologica, non priva di effetti sostanziali, ora ripresa, con chiarimenti specificativi, sia da Cass. n. 897/2011 sia da Cass. n. 25145/2010.

Assodato che nell’attuale periodo post-corporativo, non è dato riscontrare nella nostra normativa di diritto positivo una definizione ontologica del dirigente, la definizione dello stesso (per effetto di declaratorie ed esemplificazioni, in atti negoziali) consegue esclusivamente da assetti contrattuali, cioè dai ccnl, quindi da “convenzioni” raggiunte tra gli agenti negoziali.

Ne consegue che tutti i dirigenti, siano essi apicali, medi o mini, vanno qualificati – in difformità dal precedente orientamento – «dirigenti convenzionali», distinguendosi soltanto dallo «pseudo dirigente», al quale soltanto pregressi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, confermati dalle SU nella decisione n. 7880/2007, riconoscono le tutele per il licenziamento rinvenibili nella necessità di riscontro del «giustificato motivo» e «giusta causa» ex art. 3, l. n. 604/66 e nell’art. 18, Statuto dei lavoratori.

La categoria dello “pseudo dirigente” – da altri qualificato emblematicamente come dirigente “apparente”[5] – è costituita da coloro che del dirigente possiedono solo il nomen senza che ad esso corrisponda un sostrato mansionistico e di responsabilità decisorie tipiche della qualifica dirigenziale. Situazione che si verifica – nelle realtà aziendali – da un lato, e meno frequentemente, per effetto di demansionamento in compiti impiegatizi o di quadro verificatosi nel tempo a danno e con acquiescenza del dirigente originario (che non ha reagito all’inadempienza contrattuale e legale, per violazione dell’art. 2103 c.c., mediante azione giudiziaria) ovvero, dall’altro e più massicciamente, per effetto di attribuzione all’impiegato o al quadro della qualifica dirigenziale per premiazione del merito o accondiscendenza (inclusa la motivazione clientelare), senza corrispondenza delle mansioni pertinenti alla categoria.

Spesso l’iniziativa dell’azienda risulta in ciò favorita dalla facoltà contrattuale, riscontrabile – esemplificativamente, quanto isolatamente, nel settore del credito - di designare il dirigente con atto di investitura formale per effetto di quelle singolari pattuizioni contrattuali (modificate da poco tempo solo nella “forma”) per cui «sono dirigenti coloro i quali, in relazione al grado gerarchico, alla natura ed importanza delle funzioni effettivamente svolte, siano dalle rispettive aziende cui appartengono, come tali qualificati» (così emblematicamente tutti gli articoli afferenti alla qualifica del dirigente del credito contemplati nei ccnl precedenti quello del 22.11.1990 e sostanzialmente rimasti invariati, salvo modifiche formali, nei successivi fino al rinnovo del 19 aprile 2005).

Alla nostra stessa interpretazione giunge un altro giuslavorista, secondo il quale «la dizione di dirigente convenzionale (rectius, di “pseudoririgente” ora, n.d.r.) concerne il soggetto investito di un “nomen” (quello di dirigente) cui non corrispondono le specifiche mansioni attribuite, e che pertanto si fregia di tale qualifica per ragioni di condiscendenza, favor o altro»[6] ; dizione che è ben nota in dottrina ed in giurisprudenza ove, sin dagli anni ’80, ci si è dovuti occupare [7] della problematica del mantenimento, in capo allo «pseudo dirigente», delle garanzie avverso il regime di libera recedibilità (cd. licenziamento ad nutum, ex art. 2118 c.c.), giungendo, in maniera prevalente, alla conclusione dell’applicabilità al licenziamento dello «pseudo dirigente» delle garanzie previste per i lavoratori rivestenti qualifica impiegatizia. Garanzie notoriamente introdotte dalla legge n. 604/66 sui licenziamenti individuali (sostanziantesi nella ricorrenza della «giusta causa e giustificato motivo») e, successivamente, dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, introduttivo del regime di stabilità reale (tramite la sanzione per il datore di lavoro della "reintegrazione" nel posto di lavoro del prestatore ingiustificatamente licenziato).

La fattispecie dello pseudodirigente – patologicamente connotata – fruirà, anche ad avviso delle SU, della tutela e sottrazione al regime del licenziamento discrezionale aziendale (nella stragrande maggioranza dei settori merceologici, condizionato a riscontro di «giustificatezza»), costituito dal recesso con preavviso ex art. 2118 c.c. Sulla qualificazione convenzionale o "nomen", prevale – ai fini dell’individuazione del regime regolante la risoluzione del rapporto - l’effettività delle mansioni disimpegnate ai fini dell’adozione aziendale dell’atto rescissorio. Se così non fosse, il datore di lavoro possederebbe una formidabile arma per privare i lavoratori (meno graditi o di cui intende disfarsi) delle garanzie avverso il licenziamento discrezionale costituite dal riscontro della «giusta causa» o del «giustificato motivo» ex lege n. 604/66: quella del conferimento della qualifica di dirigente (non accompagnata dalle mansioni di pertinenza) onde portarli sotto un regime di minor tutela normativa in ordine alla risoluzione del rapporto.

Va subito precisato tuttavia che questa conclusione attinente al mantenimento delle tutele proprie della categoria impiegatizia o dei quadri direttivi di cui, in realtà si disimpegnano in concreto le mansioni, se appare eticamente condivisibile nei confronti dei dirigenti dequalificati (ma vedremo come vi sia giurisprudenza contraria al riguardo) – in quanto sottoposti ad un processo di erosione mansionistica che li degrada a livello impiegatizio, grazie anche a ben conosciute pratiche di mobbing aziendale[8] – è del tutto priva di tale carattere etico nella misura in cui il "beneficio" della sottrazione dal "recesso ad nutum" viene garantito allo «pseudorigente» titolare dell’avanzamento alla qualifica per motivi tutt’altro che riposanti sul merito quanto, invece, sulla condiscendenza, sul mero favoritismo o sul vero e proprio clientelismo.

Peraltro va detto che, a parte la difficoltà, in linea di principio, di operare diversamente - una volta che si sia scelto come “criterio guida” per il mantenimento delle garanzie contro il licenziamento quello delle effettive mansioni disimpegnate ex art. 2103 c.c. e ripudiato il criterio meramente nominalistico - se la garanzia può apparire un «doppio premio» per colui che è stato clientelarmente elevato alla dirigenza - l’impossibilità per l’azienda di privarsi di quello «pseudo dirigente», ricorrendo al recesso discrezionale, costituisce una indubbia sanzione per la stessa, in quanto costretta ad accollarsene perpetuamente la presenza e il costo in ragione ed a causa di un atto di scorrettezza, in assoluto e comparativamente. La costrizione al mantenimento in organico e con gli oneri di costo del lavoro da "dirigente", potrebbe – quindi – risolversi per una “sana” azienda ispirata ad efficienza, produttività e competitività, in una remora per la reiterazione, in futuro, del comportamento moralmente riprovevole. Tuttavia, in fatto la remora è da considerarsi meramente virtuale, data l’eccezionalità delle aziende del nostro Paese a non praticare il “clientelismo (familiare, nepotistico, politichese e via dicendo).

Come anticipato, va sottolineato che, in giurisprudenza, si registrano – allo stato – due decisioni di Cassazione[9] che inducono a riflessione, secondo le quali il regime di risoluzione del rapporto di «pseudo dirigenti» per demansionamento dovrebbe seguire l’inquadramento “formale” iniziale nella qualifica di dirigente, con la conseguenza che il dirigente che è stato demansionato sarebbe assoggettabile al recesso ad nutum (o quanto meno per cd. «giustificatezza», laddove contrattualmente prevista) giacché una pattuizione iniziale per la qualifica di dirigente non può essere vanificata da un atto nullo ex art. 2103 c.c., ai fini della disciplina applicabile per la risoluzione del rapporto, cioè a dire da un inadempimento datoriale, cui si può reagire con le dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c., congiunte a richiesta risarcitoria di danni (professionali, da perdita di chance, esistenziali e morali).

Come ci sembra abbia avuto modo di precisare, in senso implicitamente correttivo, Cass. n. 897/2011 – nell’esame della fattispecie di declassamento del dirigente apicale o medio al rango di dirigente minore e con l’espresso richiamo di Cass., 8 novembre 2005, n. 21673, in cui il demansionamento si attualizzava tramite degrado da ruolo di dirigente apicale in incombenze di dirigente minore – il diniego di applicabilità della disciplina attinente alla cd. reintegra appare corretto giustappunto qualora la dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, attenga al dirigente apicale o medio scaduto in dirigente riconducibile alla media o bassa dirigenza, non già al dirigente demansionato in compiti tipicamente impiegatizi o di quadro. Infatti, in questo caso, l’iniziale formale riconoscimento o investitura come dirigente cede a fronte del prevalente riscontro delle effettive mansioni impiegatizie in cui si è stati degradati e che legittimano oltre al risarcimento del danno da dequalificazione anche la tutela reale. Infatti tale massiccia e umiliante dequalificazione fa sì che il dirigente demansionato ricada nella fattispecie dello pseudodirigente, con mansioni impiegatizie e trattamento retributivo sostanzialmente non molto dissimile da quello di un quadro o impiegato con sostanzioso superminimo.

E’ pertanto inapplicabile a quest’ultima fattispecie il brocardo «ubi commoda, ibi eius et incommoda» - espressivo di un principio giustizialista finalizzato a non consentire, da un lato, di fruire dei vantaggi (economici e di status ricollegabili alla qualifica dirigenziale) e, dall’altro, di sottrarsi agli svantaggi della posizione (quali il recesso discrezionale aziendale) utilizzabile solo per demansionamenti all’interno dell’unitaria, seppur articolata, categoria dirigenziale – giacché lo scadimento a ruolo di pseudodirigente in ragione del confinamento in compiti impiegatizi (e a maggior ragione in inattività) richiama l’applicazione di quel corretto principio di diritto, affermato da Cass. SU n. 7880/2007, che preclude che per gli pseudodirigenti sia «…praticabile uno scambio tra pattuizione dei benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata, al momento del recesso datoriale, dalla legge n. 604 del 1966 e dalla legge n. 300 del 1970».

Del tutto diversa dalla fattispecie dello «pseudo dirigente» è – come correttamente evidenziato dalle SU n. 8870/207 nonché da Cass. nn. 25145/2010 e 897/2011- la figura del “medio” (middle manager) e “mini dirigente” (low manager), che sono «dirigenti reali», seppure con poteri più circoscritti, e con la cui nozione - come è stato notato - si «intende descrivere la posizione di un soggetto che, pur investito di specifiche funzioni dirigenziali, non rivestirebbe gli attributi propri di un dirigente a tutto tondo (...). Se questa premessa è vera, si deve rilevare come la figura del dirigente convenzionale (rectius, pseudodirigente, ora, ndr.) non abbia mai incontrato soverchie difficoltà interpretative, essendosi usualmente ritenuta per esso operante la tutela ordinaria (e, cioè, quella propria della categoria impiegatizia), in ragione delle caratteristiche oggettive della prestazione; tale soluzione trovando intrinseco supporto nel rilievo di fondo secondo il quale sarebbe altrimenti risultato possibile aggirare la garanzia della stabilità semplicemente ricorrendo a qualificazioni convenzionali» [10].



[1] In Not. giurisp. lav. 2011, 371.

[2] In Not. giurisp. lav. 2011, 224.

[3] In Not. giurisp. lav 2007, 77.

[4] Da noi, a suo tempo evidenziati e commentati in La disciplina del licenziamento dei dirigenti (ricondotta ad unitarietà), nel nostro volume “Il rapporto di lavoro in azienda”, Ediesse, Roma 2008, 481 e ss.

[5] Così Liso F., in Il licenziamento del dirigente "apparente", in Giur. lav. 1981, II, 773.

[6] Così Papaleoni M., nella nota a Cass. n. 1434/1998, dal titolo "La frontiera mobile del licenziamento disciplinare del dirigente, ecc.", cit., 266. Per la legittimità dell’attribuzione convenzionale, quale trattamento di favore, della qualifica di dirigente a soggetto svolgente mansioni impiegatizie inferiori, vedi Cass. 5/2/1997, n. 1068, in Mass. giur. lav., "Mass. Cass." 1997, n.70, p. 23. Conf. Pera G., Manuale di diritto del lavoro, Padova 1996, 411, secondo cui: «Niente impedisce invero che un superiore inquadramento sia attribuito, anche se non propriamente corrispondente alle mansioni, solo per valutazioni soggettive, in considerazione altamente positiva della collaborazione del dipendenti, per particolare condiscendenza, ecc.».

[7] Vedi Vallebona A., La distinzione tra il dirigente e lo pseudo-dirigente per l’applicabilità della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato, in Foro. it. 1981, I, 832, che si è espresso a favore delle garanzie contro il licenziamento ad nutum per lo pseudodirigente. Conf. in giurisprudenza: Cass. 15 febbraio 1992, n. 1836, in Riv. giur. lav. 1992, II, 457; Cass. 5 gennaio 1983, n. 47, in Foro it. 1983, I, 31; Cass. 21 marzo 1980, n. 1922 (leading case), in Foro it. 1981, I, 832, con nota di Vallebona; Pret. Roma 20 gennaio 1981, in Riv. giur. lav. 1981, II, 761; Pret. Genova 15 giugno 1974, in Foro it. 1974, II, 2855. Contra: Liso F., Il licenziamento del dirigente "apparente", cit.; Mannacio G., Ha una qualifica di dirigente, ma se arriva il benservito può trasformarsi in impiegato, in Espansione, febbraio 1977.

[8] Sul tema ci sia consentito rinviare al nostro volume, Danni da mobbing e loro risarcibilità, Roma (Ediesse ed.) 2006.

[9] Trattasi di Cass. 18/10/1997 n. 10627, in Not. giurisp. lav. 1997, 783, concernente il licenziamento di un dirigente apicale-direttore generale di banca dequalificato, a suo dire, in dirigente minore o al limite in funzionario, nonché di Cass.8/11/2005, n. 21673, ivi 2006, 34, parimenti attinente a demansionamento di dirigente apicale in dirigente minore.

[10] Così, del tutto condivisibilmente, invero solo sul punto specifico, Papaleoni M., op. cit., 266.