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Rider: Dipende da voi! Le piattaforme digitali obbligate ad assumere dai tribunali italiani ed europei

Scorci
Ph. Arbër Arapi / Scorci

Abstract

La Procura di Milano chiude la maxi-inchiesta sui rider imponendo 60.000 assunzioni agli imprenditori delle piattaforme digitali. Ma sono diversi i tribunali che in Europa abbattono il mito dell’autonomia del lavoratore delle piattaforme a suon di sentenze che riconoscono la sussistenza di rapporti di lavoro dipendente. Così la Commissione Ue avvia le prime consultazioni delle parti sociali con l’obiettivo di migliorare le condizioni del lavoro per le piattaforme digitali.

 

Indice:

1. Cittadini e non schiavi: la Procura di Milano chiude la maxi-inchiesta sui rider;

2. Dipendenti e non autonomi: le pronunce di alcuni tribunali europei e le consultazioni della Commissione UE sul lavoro digitale.

 

1. Cittadini e non schiavi: la Procura di Milano chiude la maxi-inchiesta sui rider

«Non è più il tempo di dire che sono schiavi, ma che sono cittadini» e, come tali, meritano diritti e tutele. Invocando un approccio giuridico e non più solo morale al tema, il procuratore di Milano Francesco Greco chiude la maxi-indagine sulle condizioni di lavoro dei rider iniziata nell’estate 2019 a seguito di una serie di incidenti stradali che avevano coinvolto ciclofattorini.

L’indagine, nata a Milano, si è poi estesa in tutta Italia grazie alla collaborazione del Nucleo tutela lavoro dei carabinieri, dell’Inps e dell’Inail, abbracciando un arco temporale che va da gennaio 2017 a ottobre 2020.

Non siamo ancora di fronte ad una sentenza, probabilmente solo all’inizio di una lunga e difficile battaglia legale, ma il quadro emerso dall’indagine è quello di condizioni di lavoro assolutamente inaccettabili: turni massacranti, geolocalizzazione continua del lavoratore, nessuna tutela sul piano della sicurezza sul lavoro, sistemi di assegnazione delle corse basati su puntualità, rapidità e accettazione degli ordini, con conseguente cessione degli account a terzi per non perdere posizioni nel ranking; impossibile, di fatto, usufruire di ferie o periodi di malattia per il rischio di perdere il lavoro.

Quattro le aziende nel mirino della Procura: Just Eat Italy srl, Glovo-Foodinho srl, Deliveroo Italy srl e Uber Eats srl; quest’ultima già finita in amministrazione giudiziaria lo scorso anno per aver agevolato la realizzazione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (Link).

Le aziende in questione rischiano di pagare ammende per complessivi 733 milioni di euro per il mancato rispetto della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ma non dovrebbe finire qui poiché Inps e Inail stanno procedendo ai conteggi per determinare l’importo di contributi e versamenti assicurativi mancanti.

L’indagine si è sviluppata su un doppio binario: non solo la verifica delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, ma anche il corretto inquadramento lavorativo dei ciclofattorini. A tal proposito la Procura ha imposto la trasformazione dei contratti dei rider: da lavoratori autonomi a parasubordinati con contratto di lavoro coordinato e continuativo.

Parliamo di 60.000 assunzioni ma non con contratti di lavoro subordinato: la Procura ha richiesto l’applicazione dell’articolo 2 del decreto legislativo 81/2015, quindi l’assunzione tramite contratti di collaborazione cui andrebbero comunque applicate condizioni e tutele proprie del lavoro subordinato (fra cui il divieto di retribuzione a cottimo).

Le aziende di food delivery (che hanno già annunciato ricorso) hanno 90 giorni di tempo per provvedere ad adempiere a tutti gli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro e alla riqualificazione delle posizioni lavorative.

Secondo la Procura di Milano «il rider non è affatto un lavoratore occasionale che svolge prestazione in autonomia e a titolo accessorio. Al contrario è inserito nell’organizzazione d’impresa ed opera nel ciclo produttivo del committente che coordina il suo lavoro a distanza attraverso un’applicazione digitale preinstallata su smartphone o tablet». È quanto sostengono i rider ormai da anni. Ma è anche un colpo durissimo alla retorica dei “capitalisti digitali” sulla piena autonomia dei lavoratori e sull’attività di mero incontro fra domanda e offerta che svolgerebbero le piattaforme.

Va detto che qualcosa si era già mosso lo scorso novembre con l’uscita da Assodelivery (associazione di categoria degli imprenditori digitali) della danese Just Eat, che ha annunciato 3.000 assunzioni a tempo indeterminato. Comunque troppo poco e troppo tardi per un settore in continua espansione e che, proprio durante la pandemia, ha conosciuto una crescita fortissima delle consegne e dei fatturati.

D’altronde sarà proprio di natura fiscale l’annunciata nuova inchiesta su Uber Eats; la Procura vuole verificare l’esistenza di una «stabile organizzazione occulta» sconosciuta al fisco poiché, come ha spiegato il procuratore, «i pagamenti dei clienti vengono effettuati online, ma non sappiamo dove vengono percepiti questi pagamenti e, nel frattempo, il rapporto di lavoro dei rider è strutturato in Italia».

                                                                 

2. Dipendenti e non autonomi: le pronunce di alcuni tribunali europei e le consultazioni della Commissione UE sul lavoro per le piattaforme digitali

Ma non sono solo i tribunali italiani a occuparsi dei lavoratori delle piattaforme digitali. Lo scorso 19 febbraio la Corte Suprema del Regno Unito ha stabilito che gli autisti di Uber devono essere trattati come lavoratori dipendenti e non come autonomi, con conseguente diritto allo stipendio, al pagamento delle ferie e alla tutela in caso di malattia.

Il caso è nato nel 2016 da una denuncia di due autisti, cui la giustizia britannica ha sempre dato ragione nonostante i molti ricorsi di Uber.

Nella sentenza, definitiva e non più impugnabile, si evidenzia il ruolo punitivo e disciplinante di alcuni comportamenti aziendali.

Difatti anche oltre Manica i giudici hanno rilevato forme di “sorveglianza algoritmica” della condotta dei lavoratori. Gli autisti di Uber non sarebbero realmente liberi di scegliere quando e dove lavorare e di accettare o meno le richieste di passaggio da parte dei clienti: in caso di rifiuto il rischio di essere “sloggati” dalla piattaforma digitale limiterebbe pesantemente, nei fatti, le loro scelte.

Così, se in Italia la Procura di Milano impone 60.000 assunzioni, 60.000 sono anche gli autisti di Uber nel Regno Unito (45.000 nella sola Londra) che dovrebbero diventare a tutti gli effetti dipendenti dell’azienda secondo questa storica pronuncia dei giudici inglesi.

Ma anche in Spagna sono già 41 le sentenze che stabiliscono che il rapporto di lavoro che lega i ciclofattorini alle rispettive piattaforme deve essere ricondotto al lavoro dipendente e non a quello autonomo, come avvenuto finora. L’ultima sentenza risale a circa un mese fa: a Barcellona, secondo i magistrati, i 748 rider di Deliveroo devono essere considerati lavoratori dell’impresa a tutti gli effetti.

È grazie a queste pronunce e alla volontà di regolamentare il lavoro dei rider della ministra spagnola del lavoro Yolanda Díaz che, dopo mesi di negoziato, un testo di legge ha recentemente visto la luce nel Paese iberico. Ma la Spagna resta un’eccezione.

L’impressione, infatti, è che in Europa la battaglia per i diritti e le tutele dei lavoratori delle piattaforme si stia combattendo perlopiù nelle aule di Tribunale.

Grande assente la politica, incapace di predisporre norme realmente in grado di combattere le logiche di occultamento e sfruttamento del lavoro che da anni le piattaforme digitali adottano (con grande beneficio in termini di fatturato).

Tuttavia le svariate sentenze pronunciate in Europa sul tema sembrano aver messo spalle al muro le istituzioni UE. La Commissione europea ha avviato pochi giorni fa una prima fase di consultazione delle parti sociali sulla questione delle condizioni di lavoro delle persone che lavorano tramite piattaforme digitali. Questo dopo aver riconosciuto che «alcuni tipi di lavoro tramite piattaforme sono anche associati a condizioni di lavoro precarie, che si manifestano nell'assenza di trasparenza e prevedibilità degli accordi contrattuali, in problemi di salute e sicurezza e nell' insufficiente tutela sociale».

Nel frattempo la Ces (Confederazione europea dei sindacati) chiede alla Commissione europea di fronteggiare «i nuovi cinici sforzi delle società delle piattaforme per evitare i loro obblighi più elementari nei confronti dei lavoratori».

Ad ogni modo è ormai evidente che i lavoratori delle piattaforme digitali attendono da troppo il riconoscimento dei diritti e delle tutele che meritano. Bisogna fare in fretta. Ma il tempo continua a correre e il suono delle lancette non sembra il solito tic-tac… Assomiglia sempre più ad un “clic”.

 

Sentenza Corte Suprema Regno Unito del 19 febbraio 2021:

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Comunicato stampa Procura di Milano 24 febbraio 2021:

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Comunicato stampa Ispettorato Nazionale del Lavoro 24 febbraio 2021:

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