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Registrazione dei colleghi... di nascosto

Tra privacy e diritto di difesa
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L’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e, pertanto, di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.

È quanto ha stabilito la Cassazione con la sentenza 28398 del 29 settembre 2022.

 

Il fatto

La Cassazione nella sentenza in esame non fornisce una ricostruzione analitica dei fatti che hanno originato il caso di specie, limitandosi a riportare gli elementi su cui ha ritenuto soffermare la propria attenzione e che vengono di seguito riportati.

La Corte d’appello di Salerno ha respinto il reclamo principale della società datrice di lavoro e il reclamo incidentale proposto dalla lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato l’8.2.2016 e aveva condannato la società datoriale alla reintegra nel posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria.

La Corte territoriale, mediante ampi rinvii all’ordinanza e alla sentenza emesse nel giudizio di primo grado, ha rilevato come gli addebiti contestati alla dipendente fossero privi di riscontro e, comunque, relativi a condotte di inefficienza o negligenza, conosciute e tollerate da parte datoriale ed anzi conformi alla prassi aziendale praticata fin da epoca anteriore all’inizio del rapporto di lavoro; che tali addebiti non avessero carattere di gravità e non giustificassero l’irrogazione della sanzione espulsiva, essendo al più sanzionabili con una misura conservativa, secondo le previsioni del contratto collettivo.

Ha quindi ritenuto che il carattere ritorsivo del licenziamento non potesse considerarsi provato in base alle deposizioni testimoniali raccolte né attraverso le “abusive, illegittimamente captate e registrate conversazioni” tra la lavoratrice e un collega, considerate dai giudici di appello non idonee a costituire fonte di prova.

Avverso tale sentenza, la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi. La dipendente ha resistito con controricorso e ricorso incidentale articolato in due motivi. In particolare con il primo motivo la dipendente ha censurato la sentenza impugnata per avere escluso la ritorsività del licenziamento muovendo da un presupposto errato e cioè la non utilizzabilità delle registrazioni dei colloqui tra presenti, in contrasto con l’orientamento di legittimità e sebbene controparte non avesse in alcun modo contestato lo svolgimento dei colloqui registrati e il relativo contenuto.

La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso principale, accogliendo invece il primo motivo di ricorso incidentale e quindi cassato con rinvio la sentenza impugnata.

 

La registrazione dei colleghi di nascosto tra privacy e diritto di difesa. La giurisprudenza

La Suprema Corte, dopo aver respinto i sei motivi di impugnazione del ricorso principale e prima di esaminare nel dettaglio il caso di specie, ripercorre la propria giurisprudenza in merito alla possibilità di registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi al fine di precostituirsi una prova per il successivo giudizio.

La Suprema Corte ricorda in primis il proprio indirizzo che afferma che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione può costituire fonte di prova alle seguenti condizioni:

  • che, ai sensi dell’art. 2712 c.c., colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti né che la conversazione sia realmente avvenuta, né il tenore della stessa risultante dal nastro;
  • che almeno uno dei soggetti, tra cui la conversazione si svolge, sia parte in causa.

La Corte ha poi precisato che il disconoscimento deve effettuarsi nel rispetto delle preclusioni processuali degli artt. 167 e 183 c.p.c. e deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito. In particolare, si deve concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta (Cass. n. 1250 del 2018; n. 5259 del 2017; n. 27424 del 2014).

Una volta individuati i caratteri che rendono lecita la registrazione di una conversazione anche senza il consenso delle parti interessate, passa ad affrontare il tema delle registrazioni sui luoghi di lavoro.

In particolare, ricorda come nel valutare se la registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all’insaputa dei conversanti, potesse integrare una grave violazione del diritto alla riservatezza che giustifica il licenziamento, questa Corte ha chiarito (tra le altre Cass. n. 11322 del 2018; Cass. n. 12534 del 2019 e Cass. n. 31204 del 2021) che l’art. 24, d.lgs. 196 del 2003 permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612).

E continua la Corte di Cassazione “sicché, l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio”.

La Cassazione ha quindi affermato la legittimità (inidoneità all’integrazione di un illecito disciplinare) della condotta del lavoratore che abbia effettuato le registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova. Tale condotta infatti risponde, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

Ma la Suprema Corte precisa ulteriormente che “il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso. Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento”.

Da tali premesse si è tratta la conseguenza che la condotta di registrazione d’una conversazione tra presenti, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa, e quindi “essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’art. 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico”, non può di per sé integrare illecito disciplinare (Cass. n. 27424 del 2014), esigendosi un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall’altra (così Cass. n. 31204 del 2021)”.

 

La decisione

In conclusione, pertanto la Suprema Corte, rileva come la sentenza impugnata, pur avendo ricordato i precedenti di legittimità che consentiva le registrazioni, se n’è discostata sul presupposto che tali registrazioni fossero abusive e illegittimamente captate. Secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello di Salerno ha errato perché non ha minimamente verificato la sussistenza dei requisiti che, alla luce della giurisprudenza di legittimità, a fini di prova, rendono legittima la registrazione di conversazioni senza il consenso degli interessati. E la Corte d’Appello non si è neppure preoccupata di valutare il contemperamento dei due diritti in contrasto. E tale fatto risulta ancora più censurabile in una circostanza come quella oggetto del caso di specie, dove il lavoratore aveva l’onere di provare la natura ritorsiva del licenziamento subito.

Alla luce di tutto quanto sopra, pertanto la Cassazione cassa la sentenza impugnata rinviando alla Corte d’Appello in diversa composizione perché decida la causa alla luce dei principi di diritto affermati dalla Suprema Corte.

 

La registrazione dei colleghi di nascosto tra privacy e diritto di difesa. Un breve commento

Le conclusioni a cui giunge la sentenza, nel caso in esame, appaiono condivisibili anche alla luce delle disposizioni del Regolamento UE 679/2016 cosiddetto GDPR. Infatti, il principio cardine del GDPR è che il trattamento dei dati per essere lecito deve trovare fondamento in una base giuridica.

E in particolare l’art. 6 comma 1 lett. f) del Regolamento UE 679/2016 stabilisce che il trattamento dei dati è lecito, anche senza consenso dell’interessato, se “il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi, a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato che richiedono la protezione dei dati personali, in particolare se l’interessato è un minore”.

Nel caso di specie, infatti siamo sicuramente in presenza del trattamento di un dato (la registrazione di una conversazione rientra nella nozione di “dato”) che avviene al fine di tutelare un diritto del lavoratore. E la Cassazione, nella propria motivazione, argomenta ampiamente sulla sussistenza del diritto del lavoratore che prevale sull’interesse dei colleghi a non essere registrati senza il proprio consenso.

Peraltro, sempre in conformità alle disposizioni del GDPR, la Cassazione stabilisce che la registrazione deve essere trattata esclusivamente per la finalità difensiva del lavoratore e per il tempo necessario alla finalità stessa.

In presenza di tali condizioni, conclude la Cassazione, il comportamento del lavoratore è disciplinarmente lecito: la condotta infatti risponde, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto.