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Riflessioni in materia di favoreggiamento della prostituzione a partire dalla recente giurisprudenza della Corte costituzionale*

Reflections in the field of the abetment of prostitution starting from the recent jurisprudence of the Constitutional Court *
Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Abstract

L’autore riflette in chiave critica su due recenti decisioni della Corte costituzionale nella materia del favoreggiamento e dello sfruttamento della prostituzione.

The author critically reflects on two recent decisions of the Constitutional Court in the matter of aiding and abetting and exploitation of prostitution.

 

Sommario

1. Introduzione

2. L’individuazione del diritto fondamentale in gioco

3. I (mancati) bilanciamenti della Corte costituzionale

4. Note minime su un possibile diverso approccio alla questione in esame

 

Summary

1. Introduction

2. The identification of the fundamental right at stake

3. The (missed) balances of the Constitutional Court

4. Minimum notes on a possible different approach to the issue under consideration

 

1. Introduzione

Due recenti sentenze della Corte costituzionale hanno riportato al centro della discussione giuridica e sociale il tema, quantomai classico della regolamentazione della prostituzione[1].

Come è noto, il giudice costituzionale è stato chiamato ad esprimersi sulla legittimità costituzionale di alcune fattispecie incriminatrici in materia di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione previste dall’art. 3 della legge 75 del 1958 (c.d. legge Merlin). In particolare, la prima questione di costituzionalità riprendeva un autorevole percorso argomentativo già proposto in dottrina [2], relativo alla legittimità di tali fattispecie incriminatrici anche nei confronti di fenomeni di prostituzione esercitata liberamente e volontariamente, senza alcuna forma di costrizione esterna; infatti, qualora si ritenga che il divieto di tale forma di prostituzione sia incostituzionale, in quanto irragionevolmente lesiva del diritto fondamentale all’autodeterminazione sessuale, non può che derivarne, a cascata, l’illegittimità di tutte le fattispecie incriminatrici lato sensu agevolatrici di un’attività, a quel punto considerata dall’ordinamento come assolutamente lecita, se non addirittura socialmente apprezzabile [3]. L’accoglimento di tale percorso argomentativo non giunge dunque a contestare la ragionevolezza delle fattispecie incriminatrici di per sé considerate, ma a riperimetrarne in senso restrittivo l’ambito di applicazione, prevedendo quindi una differenziazione di disciplina tra prostituzione volontaria e coartata [4].

 

2. L’individuazione del diritto fondamentale in gioco

Il giudice costituzionale italiano ha invece seguito una ben diversa impostazione della questione, già a partire dall’individuazione del diritto fondamentale in gioco e della sua portata – elemento indubbiamente decisivo per le sorti di qualsiasi successivo giudizio di bilanciamento o di proporzionalità –, respingendo con nettezza che a venire in gioco potesse essere, come sostenuto da tale dottrina e ripreso dall’ordinanza del giudice a quo, l’autodeterminazione sessuale di coloro che esercitano volontariamente la prostituzione.

Decisiva, al fine di individuare il diritto fondamentale in esame, pare essere stata per la Corte costituzionale la presenza nell’attività prostituzionale di un fine di lucro [5], che ha determinato l’inquadramento della relativa attività nell’ambito di tutela ritagliato per le iniziative economiche, piuttosto che in quello sotteso al diritto all’autodeterminazione sessuale.

In altri termini, alla base del ragionamento svolto dalla Corte costituzionale pare esservi una generalizzazione per la quale lo scopo di lucro sarebbe idoneo a mutare il diritto fondamentale sotteso ad una medesima attività svolta dai consociati; infatti, la stessa Corte ha rigettato l’obiezione secondo la quale un diritto fondamentale non muti anche in caso di presenza di un corrispettivo, per gli esiti paradossali a cui tale impostazione condurrebbe [6].

Ciò che tuttavia la Corte costituzionale vede come un esito paradossale, pare, sommessamente, una logica conseguenza del disegno costituzionale dei diritti fondamentali [7]: qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo gode certamente anzitutto della tutela fornita dall’art. 41 Cost. ad ogni iniziativa economica privata; ciò non toglie, tuttavia, che alcune di esse godano di una difesa più intensa in virtù dei caratteri specifici dell’attività svolta concernente altri diritti fondamentali. Non è facile comprendere, in effetti, cosa vi sia di paradossale nell’affermare che l’attività giornalistica goda di una tutela costituzionale più intensa, essendo altresì tutelata dall’art. 21 Cost., rispetto all’attività di ristorazione, o che l’attività difensiva legale goda, ex art. 24 Cost., di una tutela costituzionale più intensa dell’attività ittica [8].

Dietro questa sentenza della Corte costituzionale vi è forse una tendenza, sempre riaffiorante nella sua giurisprudenza, ad un’impostazione monofasica dei giudizi sui diritti fondamentali. Anche il richiamo al termine ‘inviolabilità’ pare indicativo di un’attitudine ad equiparare la limitazione di un diritto fondamentale alla sua violazione [9]. Nulla vieta, tuttavia, di raggiungere il medesimo risultato senza alterare la mappatura degli interessi in gioco, riconoscendo in altri termini che la scelta legislativa limiti sì il diritto fondamentale, ma tale limitazione sia proporzionata rispetto al fine o ai fini perseguiti dal legislatore [10].

Pare dunque che questa decisione della Corte costituzionale potrebbe rappresentare un precedente rischioso sia nel caso di specie sia per i risvolti generali: quanto al caso di specie, la “fuga” verso il solo 41 Cost. potrebbe pure aver portato ad una decisione finale ragionevole nel caso di specie, ma potrebbe rilevarsi un problema laddove vengano in esame altri limiti legislativi all’attività di prostituzione volontaria, che potrebbero apparire ragionevoli di fronte alla “mera” libertà di iniziativa economica, ma ingiustificati rispetto ad un’attività in ogni caso attinente ad una delle sfere più intime della persona; soprattutto, in generale, appare rischioso il riconoscimento di un mutamento del diritto fondamentale sotteso all’attività posta in essere dal consociato a seconda o meno della presenza di uno scopo di lucro [11].

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