Risarcimento del danno, reversione degli utili e deterrence: il modello nord-americano e quello europeo
1.- Problematiche sottese all’approccio normativo civilian in tema di risarcimento da inadempimento contrattuale.
2.- Lo strumento rimediale del disgorgement nell’esperienza di common law.
2.1.- Il disgorgement e la sua progressiva applicazione come rimedio per fronteggiare le ipotesi di breach of contract.
2.2. - Prove di recepimento: la section 39 del del Restatement [Third] of Restitution and Unjust Enrichment .
3.- La retroversione degli utili ex art. 125 C.P.I.: il disgorgement italiano?
3.1.- Necessità di riconoscere una natura ‘polifuzionale’ alla responsablità civile?
4.- Considerazioni conclusive.
1.- Problematiche sottese all’approccio normativo civilian in tema di risarcimento da inadempimento contrattuale.
L’approccio tradizionalmente ricevuto all’articolata materia del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale ruota intorno all’idea che la parte responsabile sia obbligata a risarcire la vittima per il pregiudizio arrecatole[1]. Sennonché, la congruità,di tale impostazione viene seriamente messa in discussione dalla constatazione che non sempre il riferimento alle voci del danno emergente e del lucro cessante è in grado di risolvere appieno le questioni relative alla lesione subita dalla vittima dell’inadempimento: in talune ipotesi, ciò che rileva non è tanto il danno sofferto dal titolare del diritto, quanto il vantaggio economico conseguito da chi –violando l’impegno contrattuale assunto— abbia realizzato un risultato di gran lunga più vantaggioso (in termini di profitto) di quanto non sia il detrimento patito dal titolare del diritto.
Viene da chiedersi, allora, se sia sufficiente che l’autore dell’inadempimento contrattuale sia tenuto ‘soltanto’ al risarcimento dell’interesse positivo; o se non sia il caso di obbligarlo a corrispondere al titolare del diritto leso la maggior somma tra il danno e il profitto realizzato in virtù della sua condotta[2].
Sulla scorta di tali considerazioni, appare opportuno verificare quali indicazioni possano discendere dall’analisi delle soluzioni adottate da un’esperienza quale quella di common law, dove la quantificazione del danno, nel segno di un consapevole pragmatismo, non è mai stata relegata tra le questioni di mero fatto, per ciò stesso sottratte all’elaborazione di giurisprudenza e dottrina.
Del resto, in tale esperienza (e, più in particolare, nella realtà nord-americana) proprio la volontà di superare tali problematiche (strettamente connesse all’inidoneità degli strumenti rimediali classici di expectation, reliance e restitutory damages a fronteggiare talune ipotesi di arricchimento da fatto illecito)[3] ha spinto la dottrina e la giurisprudenza nordamericana a riconoscere l’applicabilità di uno strumento innovativo (perlomeno nell’ambito del breach of contract) in forza del quale alla vittima dell’inadempimento viene riconosciuta la possibilità di agire per ottenere un risarcimento basato non già sulla perdita subita ma sui profitti realizzati dalla parte inadempiente: il cd. disgorgement[4]. Cerchiamo, per quanto possibile, di fare chiarezza sulla natura di tale istituto e sui passaggi attraverso cui tale strumento ha ottenuto diritto di cittadinanza tra i rimedi da inadempimento contrattuale.
2.- Lo strumento rimediale del disgorgement nell’esperienza di common law
<<Disgorgement >>: termine alquanto oscuro (per il giurista di civil law abituato, tutt’al più, alla non certo equivalente figura dell’Eingriffskondiktion ex § 812 BGB)[5] che l’American Heritage assicura discendere dall’antico francese <<desorger>> e, per quanto qui interessa, potremmo tradurre con una circonlocuzione verbale: restituzione coattiva di quanto guadagnato illecitamente. Tale istituto —affermandosi nella realtà giuridica di common law come strumento idoneo a fronteggiare le ipotesi di arricchimento da fatto illecito (per intenderci, quelle in cui il vantaggio conseguito dall’autore della condotta illecita sia molto maggiore delle perdite subite dalla vittima)— presenta una duplice funzione: quella punitiva sanzionatoria (volta a colpire l’autore dell’illecito al suo tallone d’Achille ovvero privandolo dell’intero profitto per realizzare il quale ha posto in essere tale condotta contra legem) e quella preventiva/deterrente (ossia diretta ad impedire che altri soggetti siano incentivati al compimento di azioni della medesima portata).
Proprio siffatti profili funzionali, ben radicati nel DNA del disgorgement, lo hanno reso un strumento più che appetibile per far fronte alle inevitabili problematiche provenienti dalla tradizionale impostazione rimediale operante nel contract law. Queste difficoltà, peraltro, sono venute accentuandosi per via del successo arriso alla teoria dell’ “inadempimento efficiente”, uno fra gli apporti più significativi dell’analisi economica del diritto[6]. Tale doctrine si articola sul celebre monito di Oliver Wendell Holmes, a tenore del quale il dovere di rispettare il contratto significa pagare i danni se non lo si fa, e nulla più[7]. Prendendo le mosse dal presupposto per cui ogni bene dovrebbe approdare idealmente al soggetto che gli attribuisce il valore più elevato, la teoria in parola rileva che l’inadempimento della prestazione promessa può assicurare un risultato economicamente efficiente qualora il vantaggio conseguito dalla reluctant party risulti maggiore della perdita patita dalla controparte. Sotto il profilo economico, quindi, la problematica relativa al coordinamento tra restituzione e risarcimento sembrerebbe potersi risolvere nell’individuazione delle regole che assicurano un’adeguata internalizzazione dei costi proiettati all’esterno dall’inadempimento (ovvero nella possibilità che tali regole collochino i contraenti in una posizione di assoluta indifferenza tra adempimento e prestazione ineseguita).
La seducente linearità di tale approccio si misura con obiezioni nient’affatto marginali. Non è punto scontato che il risarcimento dei danni valga ad assicurare la benigna neutralità del promissario deluso; è vero, anzi, il contrario, perché la prassi della rilevazione oggettiva del pregiudizio finisce col sottostimarlo già per il fatto di ignorare sistematicamente i valori idiosincratici[8]. Nemmeno si può accedere a cuor leggero all’idea che il promittente abbia contezza dell’entità del vantaggio che controparte si aspetta dalla corretta esecuzione dell’impegno contrattuale (tanto più che la scelta consapevole di non adempiere rischia di declinarsi in chiave di dolo, facendo venir meno il limite della prevedibilità)[9]. Di là dai rilievi più tecnici, s’intravede comunque una più generale linea di resistenza, alimentata dal disagio nei confronti di quello che, per ogni altro verso, si presenta come premio paradossale ad un comportamento riprovevole. Gli interrogativi si moltiplicano: come assicurare la certezza e la stabilità degli scambi economici? come impedire il propagarsi di bad behaviours? in quale maniera disincentivare la tendenza –tra i ‘contraenti razionali’— a non adempiere in forza di un più allettante vantaggio? si può sacrificare la buona fede e la fiducia nell’adempimento dell’injured party in omaggio al fine ultimo del perseguimento dell’efficienza economica?
Se tutto questo non bastasse, il rilievo critico più assorbente andrebbe a radicarsi sullo stesso terreno da cui promana la teoria. L’EAL vuole che il valore del contratto, la sua efficienza tendenziale, stia nell’attitudine presuntiva a massimizzare, in assenza di fattori patologici, l’utilità congiunta delle parti. Ma c’è da credere che, se pienamente adottata, la doctrine dell’inadempimento efficiente metterebbe in crisi il postulato di partenza. Non solo e non tanto perché rischierebbe di alimentare un contenzioso gravido di costi, ma soprattutto perché metterebbe a repentaglio la stessa filosofia dell’impegno contrattuale. Non a caso, qualora il promissario dovesse rassegnarsi a considerare non vincolante (o vincolante solo in parte) l’impegno assunto da controparte, egli sarebbe indotto a scegliere tra la prospettiva di abbandonare l’affare, in ragione della sua inaffidabilità, o di ‘blindarlo’, attraverso una serie di accorgimenti, fra i quali figurerebbe l’imposizione dell’obbligo, per il promittente, di retrocedere i profitti ch’egli avesse a derivare da un eventuale inadempimento[10]. Nondimeno, ai nostri fini, sarà sufficiente osservare come anche in questa prospettiva emerga, per altra via, l’opportunità di imprimere al ristoro del danno contrattuale, quando le circostanze lo richiedano, una caratura diversa dalla mera compensation: “[r]ather than protecting the expectation interest of injured promisees, therefore, the law of contract remedies is better characterized as enforcing ‘promisor expectation’ or disgorgement, a regime that puts breaching promisors in the position they would have been in had they performed, even when that means overcompensating injured victims”. Per questa via, il promisor expectation/disgorgement diviene una sorta di antiremedy che, paradossalmente, in virtù della sua funzione punitiva/sanzionatoria, supporta gli interessi del promittente fornendo un prezioso “bonding mechanism” in grado di assicurare la controparte circa la reale intenzione (del promittente) di adempiere all’impegno contrattuale assunto: “the best remedy for breach is to prevent the breach in the first place, and promisor expectation does just that when performance is appropriate”[11].
2.1.- Il disgorgement e la sua progressiva applicazione come rimedio per fronteggiare le ipotesi di breach of contract
L’esigenza di replicare in maniera tangibile ai molti interrogativi prospettati ha spinto gli ambienti di common law ad intraprendere un processo quasi introspettivo, volto a saggiare la bontà di soluzioni alternative per mezzo delle quali affiancare, alla tradizionale triade dei remedies for breach of contracts, un istituto ‘forte’, in grado, in virtù della sua funzione punitivo-sanzionatoria, di garantire una tutela esposta, altrimenti, al rischio di andare ‘smarrita’. Lo spazio necessario a dare ingresso a tale innovativo strumento rimediale è stato rinvenuto a ridosso delle vicissitudini che hanno contraddistinto l’evoluzione dell’istituto della restitution[12]. Cerchiamo, per quanto possibile, di fare chiarezza sul punto: di là dall’importante constatazione che il passaggio dal Restatement [First] of Contracts al Restatement of Restitution aveva provveduto ad ampliare la portata di tale termine, da restoration a strumento idoneo per fronteggiare le ipotesi di unjust enrichment (ponendo, di fatto, le basi per l’affermazione, sul finire degli anni ’30, del modello di Leon Fuller, incentrato sulle figure innovative –almeno sotto il profilo strettamente positivo— dell’expectation, reliance e restitutory interest)[13], un decisivo momento di svolta si verificò, a partire dagli anni ’70, con l’elaborazione del Restatement [Second] of Contracts. Abbandonata la rigidità schematica del modello di Fuller, i tre rimedi vennero presentati –per la prima volta— come strumenti alternativi e concorrenti, in grado di sovrapporsi l’uno all’altro nella quantificazione dei danni derivanti dall’inadempimento. Come giustificare, dunque, la presenza di un ulteriore rimedio quale il restitution interest? La risposta fornita nei commenti al Restatement [Second] of Contracts sembrerebbe spingere nella direzione del riconoscimento di uno strumento rimediale in grado di garantire un risarcimento maggiore rispetto alla perdita dell’attore[14]. In questa ottica, quindi, il restitution interest –abbandonando la valenza di rimedio compreso nell’insieme del reliance interest— acquisterebbe una natura rimediale alternativa e concorrente che, consentendo “a ricovery in excess of the plaintiff’s loss”, potrebbe persuadere –come, del resto, hanno poi fatto alcune corti[15]— a qualificare lo stesso alla stregua di disgorgement[16].
Siffatto ragionamento, però, non ha depauperato il dibattito circa la possibilità di applicare lo strumento del disgorgement nell’ambito dei rimedi da inadempimento contrattuale. Prova ne sia la recente soluzione prospettata da Melvin Eisenberg attraverso una serrata critica verso la bontà delle indicazioni provenienti dalla section 344 del Restatement [Second] of Contracts[17]. In particolare, tale disposizione presterebbe il fianco ad una grave lacuna nella misura in cui non contempla –nel ventaglio degli interessi tutelati dal contract law— quello che, ponendosi come “immagine riflessa dell’expectation interest”, consentirebbe al promittente di restare indifferente “tra il provvedere all’esecuzione, da un lato, e il pagare i danni, dall’altro”: il disgorgement interest[18]. La stessa dottrina, rincarando la dose, ha evidenziato come l’assioma secondo cui “il diritto dei contratti non protegge il disgorgement interest” faccia il paio con quanto sostenuto nel passato dalla scuola classica che, facendo leva sulla section 326 del Restatement (First) of Contracts —nella quale venivano riconosciuti tre tipologie rimediali per fronteggiare le ipotesi di inadempimento contrattuale, ossia “i damages, che […,] implicano solo i danni da aspettativa, la restitution, che […] concerne solo i benefici conferiti; e l’esecuzione in forma specifica”—, escludeva il reliance interest dal novero degli interessi protetti dal contract law). Sicché, come accaduto per tale erroneo principio (che, grazie alle intuizioni di Fuller e Perdue, è stato scartato dal Restatement [Second] of Contracts per l’assenza sia di una casistica giurisprudenziale sia di dati normativi che ne supportassero la validità), “la supposizione che il disgorgement interest non sia protetto dal contract law resta tra le macerie di tali assiomi”[19]. Il dato merita di essere evidenziato: per questa via, il disgorgement interest non viene più visto come un interesse tutelabile attraverso la ‘plateale forzatura’ del concetto di restitution, ma assurge al rango di elemento intrinseco alla complessa realtà del breach of contract. In breve: expectation, reliance, restitution e, ora, disgorgement damages operano sullo stesso piano come elementi di un medesimo insieme (rimediale), consentendo alle corti di articolare la loro applicazione con una ricca gamma di sfumature. Ad ulteriore riprova di tali considerazioni la stessa dottrina richiama una serie di ipotesi pratiche (che in questa sede ci limiteremo solamente a citare brevemente) in cui l’applicazione dello strumento del disgorgement ha garantito (o avrebbe potuto garantire), per un verso, un efficiente incentivo all’adempimento contrattuale e, per l’altro, la prevenzione di un unjust enrichment. In questo insieme rientrano: I) i casi di inadempimento di un contratto di compravendita di un bene infungibile[20]; II) quelli in cui sia precluso ricorrere allo strumento dell’esecuzione in forma specifica[21]; III ) le negoziazioni concernenti interessi differenti dalla realizzazione di un profitto economico[22] e, infine, IV) i cd. casi dei costs saved by breach[23].
2.2.- Prove di recepimento: la section 39 del del Restatement [Third] of Restitution and Unjust Enrichment
Le preziose osservazioni di Melvin Eisenberg (ma, soprattutto, l’interrogativo posto in essere da Andrew Kull circa la possibilità che il disgorgement possa costituire un valido strumento per fronteggiare le ipotesi di inadempimento contrattuale)[24] sembrerebbero aver trovato una decisa conferma nel Restatement [Third] of Restitution and Unjust Enrichement recentemente elaborata dall’ALI[25]. In particolare, nelle pieghe di questo lavoro ricognitivo (condotto proprio da Andrew Kull e dal Restitution Working Group con l’obiettivo di sostituire l’originale Restatement of Restitution del 1937)[26], grande attenzione merita la Section 39, che espressamente prevede la concessione del rimedio del disgorgement per fronteggiare le ipotesi in cui si verifichi un “profit derived from opportunistic breach”[27]. In altre parole, questa nuova regola (“although not without precedent”)[28] cristallizza un bold remedy (da attuare in determinati casi di breach of contract) fissando tre punti di fondamentale importanza: 1) in primo luogo, propone una teoria generale del disgorgement in contract cases (“namely, that it is a remedy for opportunistic breach”); 2) in seconda battuta, fornisce una definizione concreta del valore da attribuire (in questo contesto) al termine opportunism (“deliberate and profitable breach where the promisee’s entitlementis inadequately protected by a damage remedy”); e, infine, 3) suggerisce un practical test per la definizione dell’inadequacy of damages (“that has traditionally been the most problematic”)[29].
Di là dall’approfondimento delle molteplici peculiarità che contraddistinguono la Section in oggetto[30], assoluto rilievo merita il concetto di opportunistic breach[31]: come cennato, i restaters hanno provveduto ad identificarlo nell’ipotesi di inadempimento deliberate (ossia intenzionale e ponderato) e profitable (ovvero in grado di assicurare alla parte inadempiente guadagni maggiori rispetto a quelli che avrebbe conseguito qualora avesse rispettato l’impegno contrattuale). Tuttavia, ciò non è sufficiente: non a caso, come si evince dalle parole di Kull, affinché si realizzi una opportunistic breach occorre che la posizione contrattuale del promissario sia “vulnerable to abuse” (ovvero quando una parte affronta le sfide “in recovering, as damages, a full equivalent of the performance for which the promisee has bargained”)[32]. Ne deriva che ricorrere ad uno strumento rimediale di tal fatta consente sia di rafforzare la posizione contrattuale della “vulnerable party”, sia di condannare “a form of conscious advantage-taking that is the equivalent, in the contractual context, of an intentional and profitable tort”[33].
Infine, un ulteriore profilo meritevole di approfondimento concerne la preoccupazione dei restaters di delimitare l’accesso a tale strumento rimediale. Non a caso, il comma 4 della Section 39 prevede due specifiche ipotesi in cui escluderne l’applicabilità: 1) la prima contempla i casi in cui il contratto fornisca una scelta tra l’esecuzione e un rimedio alternativo “such as liquidated damages”; 2) la seconda, invece, quelli in cui l’ampiezza del risarcimento conferito attraverso il disgorgement costituisca un ‘inopportuno colpo di fortuna’ per il promissario “or would otherwise be inequitable in a particular case”. Ora –muovendo dalla considerazione che nessun problema parrebbe porsi in relazione alla prima ipotesi (come evidenziato dalla migliore dottrina, si tratta di un’eccezione uncontroversial in quanto le parti sono libere di negoziare il rimedio del disgorgement al pari di quanto farebbero con gli expectation damages)[34]—, non poco discutibile sembrerebbe il secondo caveat. A ben vedere, infatti, sembrerebbe che i restaters abbiano fornito al defendant una formidabile argomentazione per respingere l’applicazione di tale strumento rimediale. Del resto, se l’inappropriato windfall caveat significasse semplicemente che il giudice conserva il potere discrezionale di negare tale relief, non sarebbe stato necessario ricorrere ad una siffatta impostazione in quanto il giudice, per un verso, possiede già tale potere discrezionale (“because the desing of disgorgement is equitable and thus parallel to specific performance and injunctive relief”) e, per l’altro, fronteggiando un inappropriate windfall, potrebbe limitarlo (o, addirittura, negarlo) sulla semplice considerazione che la “defendant’s retention of the profit would not constitute an unjust enrichment warranting this restitutionary relief”[35].
In questa prospettiva, pertanto, appare doveroso richiamare le
1.- Problematiche sottese all’approccio normativo civilian in tema di risarcimento da inadempimento contrattuale.
2.- Lo strumento rimediale del disgorgement nell’esperienza di common law.
2.1.- Il disgorgement e la sua progressiva applicazione come rimedio per fronteggiare le ipotesi di breach of contract.
2.2. - Prove di recepimento: la section 39 del del Restatement [Third] of Restitution and Unjust Enrichment .
3.- La retroversione degli utili ex art. 125 C.P.I.: il disgorgement italiano?
3.1.- Necessità di riconoscere una natura ‘polifuzionale’ alla responsablità civile?
4.- Considerazioni conclusive.
1.- Problematiche sottese all’approccio normativo civilian in tema di risarcimento da inadempimento contrattuale.
L’approccio tradizionalmente ricevuto all’articolata materia del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale ruota intorno all’idea che la parte responsabile sia obbligata a risarcire la vittima per il pregiudizio arrecatole[1]. Sennonché, la congruità,di tale impostazione viene seriamente messa in discussione dalla constatazione che non sempre il riferimento alle voci del danno emergente e del lucro cessante è in grado di risolvere appieno le questioni relative alla lesione subita dalla vittima dell’inadempimento: in talune ipotesi, ciò che rileva non è tanto il danno sofferto dal titolare del diritto, quanto il vantaggio economico conseguito da chi –violando l’impegno contrattuale assunto— abbia realizzato un risultato di gran lunga più vantaggioso (in termini di profitto) di quanto non sia il detrimento patito dal titolare del diritto.
Viene da chiedersi, allora, se sia sufficiente che l’autore dell’inadempimento contrattuale sia tenuto ‘soltanto’ al risarcimento dell’interesse positivo; o se non sia il caso di obbligarlo a corrispondere al titolare del diritto leso la maggior somma tra il danno e il profitto realizzato in virtù della sua condotta[2].
Sulla scorta di tali considerazioni, appare opportuno verificare quali indicazioni possano discendere dall’analisi delle soluzioni adottate da un’esperienza quale quella di common law, dove la quantificazione del danno, nel segno di un consapevole pragmatismo, non è mai stata relegata tra le questioni di mero fatto, per ciò stesso sottratte all’elaborazione di giurisprudenza e dottrina.
Del resto, in tale esperienza (e, più in particolare, nella realtà nord-americana) proprio la volontà di superare tali problematiche (strettamente connesse all’inidoneità degli strumenti rimediali classici di expectation, reliance e restitutory damages a fronteggiare talune ipotesi di arricchimento da fatto illecito)[3] ha spinto la dottrina e la giurisprudenza nordamericana a riconoscere l’applicabilità di uno strumento innovativo (perlomeno nell’ambito del breach of contract) in forza del quale alla vittima dell’inadempimento viene riconosciuta la possibilità di agire per ottenere un risarcimento basato non già sulla perdita subita ma sui profitti realizzati dalla parte inadempiente: il cd. disgorgement[4]. Cerchiamo, per quanto possibile, di fare chiarezza sulla natura di tale istituto e sui passaggi attraverso cui tale strumento ha ottenuto diritto di cittadinanza tra i rimedi da inadempimento contrattuale.
2.- Lo strumento rimediale del disgorgement nell’esperienza di common law
<<Disgorgement >>: termine alquanto oscuro (per il giurista di civil law abituato, tutt’al più, alla non certo equivalente figura dell’Eingriffskondiktion ex § 812 BGB)[5] che l’American Heritage assicura discendere dall’antico francese <<desorger>> e, per quanto qui interessa, potremmo tradurre con una circonlocuzione verbale: restituzione coattiva di quanto guadagnato illecitamente. Tale istituto —affermandosi nella realtà giuridica di common law come strumento idoneo a fronteggiare le ipotesi di arricchimento da fatto illecito (per intenderci, quelle in cui il vantaggio conseguito dall’autore della condotta illecita sia molto maggiore delle perdite subite dalla vittima)— presenta una duplice funzione: quella punitiva sanzionatoria (volta a colpire l’autore dell’illecito al suo tallone d’Achille ovvero privandolo dell’intero profitto per realizzare il quale ha posto in essere tale condotta contra legem) e quella preventiva/deterrente (ossia diretta ad impedire che altri soggetti siano incentivati al compimento di azioni della medesima portata).
Proprio siffatti profili funzionali, ben radicati nel DNA del disgorgement, lo hanno reso un strumento più che appetibile per far fronte alle inevitabili problematiche provenienti dalla tradizionale impostazione rimediale operante nel contract law. Queste difficoltà, peraltro, sono venute accentuandosi per via del successo arriso alla teoria dell’ “inadempimento efficiente”, uno fra gli apporti più significativi dell’analisi economica del diritto[6]. Tale doctrine si articola sul celebre monito di Oliver Wendell Holmes, a tenore del quale il dovere di rispettare il contratto significa pagare i danni se non lo si fa, e nulla più[7]. Prendendo le mosse dal presupposto per cui ogni bene dovrebbe approdare idealmente al soggetto che gli attribuisce il valore più elevato, la teoria in parola rileva che l’inadempimento della prestazione promessa può assicurare un risultato economicamente efficiente qualora il vantaggio conseguito dalla reluctant party risulti maggiore della perdita patita dalla controparte. Sotto il profilo economico, quindi, la problematica relativa al coordinamento tra restituzione e risarcimento sembrerebbe potersi risolvere nell’individuazione delle regole che assicurano un’adeguata internalizzazione dei costi proiettati all’esterno dall’inadempimento (ovvero nella possibilità che tali regole collochino i contraenti in una posizione di assoluta indifferenza tra adempimento e prestazione ineseguita).
La seducente linearità di tale approccio si misura con obiezioni nient’affatto marginali. Non è punto scontato che il risarcimento dei danni valga ad assicurare la benigna neutralità del promissario deluso; è vero, anzi, il contrario, perché la prassi della rilevazione oggettiva del pregiudizio finisce col sottostimarlo già per il fatto di ignorare sistematicamente i valori idiosincratici[8]. Nemmeno si può accedere a cuor leggero all’idea che il promittente abbia contezza dell’entità del vantaggio che controparte si aspetta dalla corretta esecuzione dell’impegno contrattuale (tanto più che la scelta consapevole di non adempiere rischia di declinarsi in chiave di dolo, facendo venir meno il limite della prevedibilità)[9]. Di là dai rilievi più tecnici, s’intravede comunque una più generale linea di resistenza, alimentata dal disagio nei confronti di quello che, per ogni altro verso, si presenta come premio paradossale ad un comportamento riprovevole. Gli interrogativi si moltiplicano: come assicurare la certezza e la stabilità degli scambi economici? come impedire il propagarsi di bad behaviours? in quale maniera disincentivare la tendenza –tra i ‘contraenti razionali’— a non adempiere in forza di un più allettante vantaggio? si può sacrificare la buona fede e la fiducia nell’adempimento dell’injured party in omaggio al fine ultimo del perseguimento dell’efficienza economica?
Se tutto questo non bastasse, il rilievo critico più assorbente andrebbe a radicarsi sullo stesso terreno da cui promana la teoria. L’EAL vuole che il valore del contratto, la sua efficienza tendenziale, stia nell’attitudine presuntiva a massimizzare, in assenza di fattori patologici, l’utilità congiunta delle parti. Ma c’è da credere che, se pienamente adottata, la doctrine dell’inadempimento efficiente metterebbe in crisi il postulato di partenza. Non solo e non tanto perché rischierebbe di alimentare un contenzioso gravido di costi, ma soprattutto perché metterebbe a repentaglio la stessa filosofia dell’impegno contrattuale. Non a caso, qualora il promissario dovesse rassegnarsi a considerare non vincolante (o vincolante solo in parte) l’impegno assunto da controparte, egli sarebbe indotto a scegliere tra la prospettiva di abbandonare l’affare, in ragione della sua inaffidabilità, o di ‘blindarlo’, attraverso una serie di accorgimenti, fra i quali figurerebbe l’imposizione dell’obbligo, per il promittente, di retrocedere i profitti ch’egli avesse a derivare da un eventuale inadempimento[10]. Nondimeno, ai nostri fini, sarà sufficiente osservare come anche in questa prospettiva emerga, per altra via, l’opportunità di imprimere al ristoro del danno contrattuale, quando le circostanze lo richiedano, una caratura diversa dalla mera compensation: “[r]ather than protecting the expectation interest of injured promisees, therefore, the law of contract remedies is better characterized as enforcing ‘promisor expectation’ or disgorgement, a regime that puts breaching promisors in the position they would have been in had they performed, even when that means overcompensating injured victims”. Per questa via, il promisor expectation/disgorgement diviene una sorta di antiremedy che, paradossalmente, in virtù della sua funzione punitiva/sanzionatoria, supporta gli interessi del promittente fornendo un prezioso “bonding mechanism” in grado di assicurare la controparte circa la reale intenzione (del promittente) di adempiere all’impegno contrattuale assunto: “the best remedy for breach is to prevent the breach in the first place, and promisor expectation does just that when performance is appropriate”[11].
2.1.- Il disgorgement e la sua progressiva applicazione come rimedio per fronteggiare le ipotesi di breach of contract
L’esigenza di replicare in maniera tangibile ai molti interrogativi prospettati ha spinto gli ambienti di common law ad intraprendere un processo quasi introspettivo, volto a saggiare la bontà di soluzioni alternative per mezzo delle quali affiancare, alla tradizionale triade dei remedies for breach of contracts, un istituto ‘forte’, in grado, in virtù della sua funzione punitivo-sanzionatoria, di garantire una tutela esposta, altrimenti, al rischio di andare ‘smarrita’. Lo spazio necessario a dare ingresso a tale innovativo strumento rimediale è stato rinvenuto a ridosso delle vicissitudini che hanno contraddistinto l’evoluzione dell’istituto della restitution[12]. Cerchiamo, per quanto possibile, di fare chiarezza sul punto: di là dall’importante constatazione che il passaggio dal Restatement [First] of Contracts al Restatement of Restitution aveva provveduto ad ampliare la portata di tale termine, da restoration a strumento idoneo per fronteggiare le ipotesi di unjust enrichment (ponendo, di fatto, le basi per l’affermazione, sul finire degli anni ’30, del modello di Leon Fuller, incentrato sulle figure innovative –almeno sotto il profilo strettamente positivo— dell’expectation, reliance e restitutory interest)[13], un decisivo momento di svolta si verificò, a partire dagli anni ’70, con l’elaborazione del Restatement [Second] of Contracts. Abbandonata la rigidità schematica del modello di Fuller, i tre rimedi vennero presentati –per la prima volta— come strumenti alternativi e concorrenti, in grado di sovrapporsi l’uno all’altro nella quantificazione dei danni derivanti dall’inadempimento. Come giustificare, dunque, la presenza di un ulteriore rimedio quale il restitution interest? La risposta fornita nei commenti al Restatement [Second] of Contracts sembrerebbe spingere nella direzione del riconoscimento di uno strumento rimediale in grado di garantire un risarcimento maggiore rispetto alla perdita dell’attore[14]. In questa ottica, quindi, il restitution interest –abbandonando la valenza di rimedio compreso nell’insieme del reliance interest— acquisterebbe una natura rimediale alternativa e concorrente che, consentendo “a ricovery in excess of the plaintiff’s loss”, potrebbe persuadere –come, del resto, hanno poi fatto alcune corti[15]— a qualificare lo stesso alla stregua di disgorgement[16].
Siffatto ragionamento, però, non ha depauperato il dibattito circa la possibilità di applicare lo strumento del disgorgement nell’ambito dei rimedi da inadempimento contrattuale. Prova ne sia la recente soluzione prospettata da Melvin Eisenberg attraverso una serrata critica verso la bontà delle indicazioni provenienti dalla section 344 del Restatement [Second] of Contracts[17]. In particolare, tale disposizione presterebbe il fianco ad una grave lacuna nella misura in cui non contempla –nel ventaglio degli interessi tutelati dal contract law— quello che, ponendosi come “immagine riflessa dell’expectation interest”, consentirebbe al promittente di restare indifferente “tra il provvedere all’esecuzione, da un lato, e il pagare i danni, dall’altro”: il disgorgement interest[18]. La stessa dottrina, rincarando la dose, ha evidenziato come l’assioma secondo cui “il diritto dei contratti non protegge il disgorgement interest” faccia il paio con quanto sostenuto nel passato dalla scuola classica che, facendo leva sulla section 326 del Restatement (First) of Contracts —nella quale venivano riconosciuti tre tipologie rimediali per fronteggiare le ipotesi di inadempimento contrattuale, ossia “i damages, che […,] implicano solo i danni da aspettativa, la restitution, che […] concerne solo i benefici conferiti; e l’esecuzione in forma specifica”—, escludeva il reliance interest dal novero degli interessi protetti dal contract law). Sicché, come accaduto per tale erroneo principio (che, grazie alle intuizioni di Fuller e Perdue, è stato scartato dal Restatement [Second] of Contracts per l’assenza sia di una casistica giurisprudenziale sia di dati normativi che ne supportassero la validità), “la supposizione che il disgorgement interest non sia protetto dal contract law resta tra le macerie di tali assiomi”[19]. Il dato merita di essere evidenziato: per questa via, il disgorgement interest non viene più visto come un interesse tutelabile attraverso la ‘plateale forzatura’ del concetto di restitution, ma assurge al rango di elemento intrinseco alla complessa realtà del breach of contract. In breve: expectation, reliance, restitution e, ora, disgorgement damages operano sullo stesso piano come elementi di un medesimo insieme (rimediale), consentendo alle corti di articolare la loro applicazione con una ricca gamma di sfumature. Ad ulteriore riprova di tali considerazioni la stessa dottrina richiama una serie di ipotesi pratiche (che in questa sede ci limiteremo solamente a citare brevemente) in cui l’applicazione dello strumento del disgorgement ha garantito (o avrebbe potuto garantire), per un verso, un efficiente incentivo all’adempimento contrattuale e, per l’altro, la prevenzione di un unjust enrichment. In questo insieme rientrano: I) i casi di inadempimento di un contratto di compravendita di un bene infungibile[20]; II) quelli in cui sia precluso ricorrere allo strumento dell’esecuzione in forma specifica[21]; III ) le negoziazioni concernenti interessi differenti dalla realizzazione di un profitto economico[22] e, infine, IV) i cd. casi dei costs saved by breach[23].
2.2.- Prove di recepimento: la section 39 del del Restatement [Third] of Restitution and Unjust Enrichment
Le preziose osservazioni di Melvin Eisenberg (ma, soprattutto, l’interrogativo posto in essere da Andrew Kull circa la possibilità che il disgorgement possa costituire un valido strumento per fronteggiare le ipotesi di inadempimento contrattuale)[24] sembrerebbero aver trovato una decisa conferma nel Restatement [Third] of Restitution and Unjust Enrichement recentemente elaborata dall’ALI[25]. In particolare, nelle pieghe di questo lavoro ricognitivo (condotto proprio da Andrew Kull e dal Restitution Working Group con l’obiettivo di sostituire l’originale Restatement of Restitution del 1937)[26], grande attenzione merita la Section 39, che espressamente prevede la concessione del rimedio del disgorgement per fronteggiare le ipotesi in cui si verifichi un “profit derived from opportunistic breach”[27]. In altre parole, questa nuova regola (“although not without precedent”)[28] cristallizza un bold remedy (da attuare in determinati casi di breach of contract) fissando tre punti di fondamentale importanza: 1) in primo luogo, propone una teoria generale del disgorgement in contract cases (“namely, that it is a remedy for opportunistic breach”); 2) in seconda battuta, fornisce una definizione concreta del valore da attribuire (in questo contesto) al termine opportunism (“deliberate and profitable breach where the promisee’s entitlementis inadequately protected by a damage remedy”); e, infine, 3) suggerisce un practical test per la definizione dell’inadequacy of damages (“that has traditionally been the most problematic”)[29].
Di là dall’approfondimento delle molteplici peculiarità che contraddistinguono la Section in oggetto[30], assoluto rilievo merita il concetto di opportunistic breach[31]: come cennato, i restaters hanno provveduto ad identificarlo nell’ipotesi di inadempimento deliberate (ossia intenzionale e ponderato) e profitable (ovvero in grado di assicurare alla parte inadempiente guadagni maggiori rispetto a quelli che avrebbe conseguito qualora avesse rispettato l’impegno contrattuale). Tuttavia, ciò non è sufficiente: non a caso, come si evince dalle parole di Kull, affinché si realizzi una opportunistic breach occorre che la posizione contrattuale del promissario sia “vulnerable to abuse” (ovvero quando una parte affronta le sfide “in recovering, as damages, a full equivalent of the performance for which the promisee has bargained”)[32]. Ne deriva che ricorrere ad uno strumento rimediale di tal fatta consente sia di rafforzare la posizione contrattuale della “vulnerable party”, sia di condannare “a form of conscious advantage-taking that is the equivalent, in the contractual context, of an intentional and profitable tort”[33].
Infine, un ulteriore profilo meritevole di approfondimento concerne la preoccupazione dei restaters di delimitare l’accesso a tale strumento rimediale. Non a caso, il comma 4 della Section 39 prevede due specifiche ipotesi in cui escluderne l’applicabilità: 1) la prima contempla i casi in cui il contratto fornisca una scelta tra l’esecuzione e un rimedio alternativo “such as liquidated damages”; 2) la seconda, invece, quelli in cui l’ampiezza del risarcimento conferito attraverso il disgorgement costituisca un ‘inopportuno colpo di fortuna’ per il promissario “or would otherwise be inequitable in a particular case”. Ora –muovendo dalla considerazione che nessun problema parrebbe porsi in relazione alla prima ipotesi (come evidenziato dalla migliore dottrina, si tratta di un’eccezione uncontroversial in quanto le parti sono libere di negoziare il rimedio del disgorgement al pari di quanto farebbero con gli expectation damages)[34]—, non poco discutibile sembrerebbe il secondo caveat. A ben vedere, infatti, sembrerebbe che i restaters abbiano fornito al defendant una formidabile argomentazione per respingere l’applicazione di tale strumento rimediale. Del resto, se l’inappropriato windfall caveat significasse semplicemente che il giudice conserva il potere discrezionale di negare tale relief, non sarebbe stato necessario ricorrere ad una siffatta impostazione in quanto il giudice, per un verso, possiede già tale potere discrezionale (“because the desing of disgorgement is equitable and thus parallel to specific performance and injunctive relief”) e, per l’altro, fronteggiando un inappropriate windfall, potrebbe limitarlo (o, addirittura, negarlo) sulla semplice considerazione che la “defendant’s retention of the profit would not constitute an unjust enrichment warranting this restitutionary relief”[35].
In questa prospettiva, pertanto, appare doveroso richiamare le