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Se prelevi un file commetti appropriazione indebita o furto

dati informatici
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Risponde di appropriazione indebita il lavoratore che si impossessi dei dati archiviati sui dispositivi aziendali utilizzati per motivi di lavoro, duplicandoli e cancellandoli da detti dispositivi, restituiti al datore di lavoro completamente formattati, in quanto i files sono qualificabili come cose mobili e, pertanto, le condotte di apprensione e sottrazione degli stessi possono integrare le fattispecie criminose a tutela del patrimonio.

Lo ha stabilito la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione con una recente e innovativa pronuncia (sentenza 13 aprile 2020, n. 11959) che, qualificando i files informatici come “cose mobili”, estende, di fatto, la configurabilità dei reati contro il patrimonio a tutte le condotte aventi ad oggetto i dati in questione.

Il giudizio di legittimità trae origine dal ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino che, per quanto di interesse in questa sede, aveva confermato la sentenza di condanna di un lavoratore per il reato di appropriazione indebita di cui all’articolo 646 Codice Penale, per aver duplicato e successivamente cancellato i dati informatici archiviati sul personal computer aziendale, affidatogli per motivi di lavoro, restituito al datore di lavoro completamente formattato.

Nel ricorso, la difesa aveva dedotto violazione di legge in riferimento all’articolo 646 Codice Penale, per aver erroneamente qualificato i dati informatici come cose mobili e, pertanto, ritenuto integrata la fattispecie di appropriazione indebita.

 

Il contrasto giurisprudenziale sul tema della qualificazione giuridica dei dati informatici

Al fine di dare soluzione alla questione giuridica prospettata nel ricorso, i giudici di legittimità hanno dato atto del contrasto interpretativo venutosi ad originare in ordine al tema in esame.

In particolare, la Cassazione ha evidenziato come in alcune pronunce sia stata esclusa la configurabilità del reato di furto in relazione alla condotta appropriativa di files informatici, osservandosi che “rispetto alla condotta tipica della sottrazione, la particolare natura dei documenti informatici rappresenta un ostacolo logico alla realizzazione dell’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice, ad esempio nel caso di semplice copiatura non autorizzata di “files” contenuti in un supporto informatico altrui, poiché in tale ipotesi non si realizza la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore” (Cass. n. 44840/2010; Cass. n. 3449/2004).

Con riferimento al delitto di appropriazione indebita, la Corte ha evidenziato come sia stato più volte affermato che “oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale” (Cass. n. 33839/2011), salvo che “la condotta abbia ad oggetto i documenti che rappresentino i beni immateriali” e sui quali siano stati trasfusi e incorporati i dati informatici (Cass. n. 47105/2014; Cass. n. 20647/2010; Cass. n. 21596/2016).

Ciò in quanto l’articolo 646 Codice Penale individua l’oggetto materiale della condotta appropriativa nel “denaro o altra cosa mobile”, nozione quest’ultima che in materia penale presuppone che la cosa sia suscettibile di “fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione” (Cass. n. 20647/2010), con conseguente esclusione delle entità immateriali – le opere dell’ingegno, le idee, le informazioni in senso lato – dal novero delle cose mobili suscettibili di appropriazione.

Di contro, secondo un diverso orientamento giurisprudenziale affermatosi in tempi recenti, i files possono formare oggetto di sottrazione e appropriazione, con conseguente configurabilità del reato di furto (Cass. n. 32383/2015, relativamente alla condotta di un avvocato che, dopo aver comunicato la propria volontà di recedere da uno studio associato, si era impossessato di alcuni “files”, cancellandoli dal “server” dello studio, oltre che di alcuni fascicoli processuali in ordine ai quali aveva ricevuto in via esclusiva dai clienti il mandato difensivo, al fine di impedire agli altri colleghi dello studio un effettivo controllo sulle reciproche spettanze).

 

Il dato informatico come “cosa mobile”

Nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione, pur rilevando “l’esistenza di ragioni di ordine testuale, sistematico e di rispetto dei principi fondamentali di stretta legalità e tassatività delle norme incriminatrici”, potenzialmente contrastanti con la possibilità di qualificare i files come beni suscettibili di rappresentare l’oggetto materiale dei reati contro il patrimonio, ha evidenziato la necessità di “interpretare talune categorie giuridiche che, coniate in epoche in cui erano del tutto sconosciute le attuali tecnologie informatiche, devono necessariamente esser nuovamente considerate, al fine di render effettiva la tutela cui mirano le disposizioni incriminatrici dei delitti contro il patrimonio”.

In particolare, i giudici di legittimità hanno osservato come il file, inteso quale insieme di dati numerici tra loro collegati, assume carattere materiale nella rappresentazione grafica, visiva e sonora e può essere trasferito tra diversi dispositivi e per mezzo della rete Internet, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali.

Tali elementi, pur non potendo essere materialmente percepibili dal punto di vista sensoriale, “non sono entità astratte, ma entità dotate di una propria fisicità: essi occupano fisicamente una porzione di memoria quantificabile, la dimensione della quale dipende dalla quantità di dati che in essa possono esser contenuti, e possono subire operazioni (ad esempio, la creazione, la copiatura e l’eliminazione) tecnicamente registrate o registrabili dal sistema operativo”.

Pertanto, secondo la Corte di legittimità, l’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e dottrinale, nel ritenere che il dato informatico non possieda i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile”, non può essere condiviso.

Se la ratio – osserva la Corte – sottesa alla selezione delle classi di beni suscettibili di formare oggetto delle condotte di reato di aggressione all’altrui patrimonio, è agevolmente individuabile nella prospettiva della correlazione delle condotte penalmente rilevanti (essenzialmente, quelle che mirano alla sottrazione della disponibilità di beni ai soggetti che siano titolari dei diritti di proprietà o di possesso sulle cose considerate) all’attività diretta a spogliare il titolare del bene dalla possibilità di esercitare i diritti connessi all’utilizzazione del bene, è chiaro che la sottrazione (violenta o mediante attività fraudolente o, comunque, dirette ad abusare della cooperazione della vittima) debba presupporre in via logica la disponibilità, da parte dei soggetti titolari, dei beni su cui cade la condotta penalmente rilevante.

Ecco che, a fronte della sussistenza dell’elemento della fisicità e della sua misurabilità, nonché della possibilità di compiere su detti elementi operazioni di modifica, distruzione e trasferimento (da un dispositivo su cui è custodito ad un altro, o per mezzo di Internet) e, dunque, di apprensione e sottrazione, “l’elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l’entità digitale è - irrimediabilmente - sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa”.

 

L’interpretazione della Suprema Corte e il principio di legalità

Nella pronuncia qui esaminata, per certi versi, storica, la Corte di Cassazione non sfugge a confrontarsi con il possibile contrasto dell’interpretazione, data in sentenza, del dato informatico come cosa mobile con il principio di legalità, nel suo principale corollario del rispetto del principio di determinatezza e tassatività.

A tal proposito, la Cassazione ha affermato che, con particolare riferimento al principio di determinatezza, da intendersi come “necessità che nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzazione sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili, non potendosi concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili” (Corte Costituzionale n. 96/1981), non si individuano criticità, non essendovi pericoli di compromissione.

A dover essere soppesato è, dunque, il rispetto del principio di tassatività, che governa l’attività interpretativa giurisdizionale affinché l’applicazione della fattispecie incriminatrice non avvenga al di fuori dei casi espressamente considerati. Tale principio è rispettato se il giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta è sorretto da un “fondamento ermeneutico controllabile”.

In particolare, la Corte ha osservato come “l’interpretazione della nozione di cosa mobile, agli effetti della legge penale, fondata sullo specifico carattere della cosa, che consente alla stessa di formare oggetto sia di condotte di sottrazione alla disponibilità del legittimo titolare, sia di impossessamento da parte del soggetto responsabile della condotta illecita, risulta in sintonia con l’unico dato testuale che la legge penale riproduce nella definizione della categoria dei beni suscettibili di costituire l’oggetto delle condotte tipiche dei delitti contro il patrimonio”.

Rimanendo indiscusso il valore patrimoniale che il dato informatico possiede, in ragione delle facoltà di utilizzazione e del contenuto specifico del singolo dato, i giudici di legittimità hanno rilevato come anche il denaro, equiparato alla cosa mobile in varie disposizioni incriminatrici, seppur tradizionalmente utilizzato nella forma di contante, fisicamente suscettibile di diretta apprensione materiale, può manifestarsi – e, in tempi recenti, ciò avviene sempre più frequentemente, anche in ragione dello sviluppo delle nuove tecnologie e dei limiti alla circolazione del contante – in dati informatici e trasferirsi per mezzo di operazioni bancarie o disposizioni impartite, anche telematicamente, senza alcun contatto fisico con denaro in forma contante.

Alla luce delle considerazioni espresse, la Suprema Corte di Cassazione, nel ritenere il motivo proposto infondato e nel rigettare il ricorso, ha enunciato il seguente principio di diritto: i dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi dì lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”.