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Se questa è l’Europa

La protezione dei confini esterni dei Paesi Schengen e le politiche di esternalizzazione
Volare sul mare
Ph. Cinzia Falcinelli / Volare sul mare

Abstract

Muri, fili spinati, gente che muore di fame e di freddo, giro colossale di denaro per difendersi da chi fugge da fame, guerre e persecuzioni. Ma la protezione dei confini degli Stati Europei è compatibile con il progetto stesso di Unione Europea?

Walls, barbed wires, people dying of hunger and cold, colossal turn of money to defend themselves from those fleeing from hunger, wars and persecutions. But is the protection of the borders of the European States compatible with the very project of the European Union?

 

Le emergenze umanitarie ai confini dell’Europa

La situazione di emergenza umanitaria che si è determinata ai confini della Polonia, dove attraverso la Bielorussia sono stati fatti arrivare numerosi migranti che fuggono da guerre e persecuzioni e che, pertanto, avrebbero diritto a protezione internazionale, la costruzione di muri per impedire l’ingresso di persone in Europa e la insistente richiesta da parte di alcuni Stati perché, addirittura, questi muri vengano finanziati dalla Unione Europea offre lo spunto per illustrare le azioni degli Stati europei e soprattutto dell’Italia a difesa dei loro confini esterni, oltre che per interrogarsi sulla compatibilità di tali condotte con i principi fondanti della Ue.

 

Lo spazio Schengen

L’Accordo di Schengen è stato sottoscritto il 14 giugno 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi e prevede la progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere interne e l’introduzione della libertà di circolazione per tutti i cittadini dei paesi firmatari, di altri paesi dell’Unione europea (UE) e di alcuni paesi terzi.

Successivamente, la Convenzione di Schengen, sottoscritta nel 1990 dai cinque Paesi sopra citati e entrata in vigore nel 1995, ha completato l’accordo e ha definito le condizioni e le garanzie relative allo spazio di libera circolazione.

Accordo, Convenzione e relativi accordi e regole connessi costituiscono l’«acquis di Schengen», diventato legislazione europea con il Trattato di Lisbona, che ha istituito lo «spazio (…) senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone».

Attualmente fanno parte dello spazio Schengen ventisei Paesi europei, di cui ventidue della UE.

Lo spazio Schengen costituisce dunque un territorio dove è garantita la libera circolazione delle persone attraverso l’abolizione di tutte le frontiere interne e la loro sostituzione con un’unica frontiera esterna.

La istituzione dello spazio Schengen ha posto dei problemi relativamente al suo controllo esterno perché, in teoria, chi entra in area Schengen ha il diritto di potervi circolare liberamente.

È perciò interesse di tutti gli Stati che le frontiere esterne allo spazio vengano gestite secondo regole comuni e che ogni Stato si renda in un certo senso responsabile nei confronti degli altri, con l’applicazione di regole e procedure comuni in materia di visti, soggiorni brevi, richieste d’asilo e controlli alle frontiere.

 

La difficile collaborazione tra gli Stati europei per la costituzione di un sistema unico di asilo

Conseguenza della scelta interna dei singoli Stati di avere aderito all’area Schengen è, pertanto, che la materia dell’asilo politico e dell’ingresso di persone che provengono dall’esterno e chiedono protezione internazionale assuma un rilievo non solo nazionale ma europeo e che, in prospettiva, si debba addivenire a un sistema unico di asilo.

Per raggiungere questo obiettivo sono state emanate diverse Direttive, che regolano una serie di aspetti del diritto d’asilo e di protezione internazionale e che, pur non sostituendosi al diritto interno dei singoli Stati, delimitano i confini entro i quali in tali materie gli Stati aderenti devono legiferare.

Vi è poi, direttamente applicabile a tutti gli Stati della UE, il Regolamento di Dublino che, essenzialmente, attribuisce a uno Stato appartenente all’area Schengen il compito di esaminare e processare le domande d’asilo.

Il criterio principale per determinare quale sia lo Stato cui viene demandata questa funzione è quello di primo arrivo dello straniero anche se, poi, la meta definitiva del richiedente dovesse essere un diverso Paese.

Alcuni Stati, per la loro posizione geografica, si sono dunque trovati ad avere il carico preponderante di gestire l’immigrazione e, spesso, il loro atteggiamento ha suscitato il malumore degli altri Stati dello spazio Schengen, in particolare quando i Paesi di c.d. primo arrivo, non volendo o non potendo sopportare integralmente gli oneri della immigrazione, hanno omesso di identificare le persone e di rilevare le loro impronte digitali. La Germania, per esempio, di sovente si è trovata a criticare presunte omissioni dell’Italia in tal senso.

Per ovviare a tali inconvenienti sono stati costituiti nelle frontiere meridionali gli hot-spot, finanziati dalla Unione Europea, in cui le persone avrebbero dovuto permanere per brevissimi periodi e successivamente essere smistate tra coloro da rimpatriare, perché non aventi diritto a protezione internazionale e coloro che, invece, avrebbero dovuto essere ripartite per quote negli altri Paesi della UE e ivi essere accolte.

Tuttavia, gli Stati che avrebbero dovuto accogliere i rifugiati non hanno adempiuto (almeno non tutti) e, pertanto, gli hot-spot, da strutture temporanee, sono praticamente diventate permanenti.

 

Gli ostacoli giuridici e fisici posti dai singoli Stati all’ingresso di migranti

Dinanzi alla difficoltà di istituire un sistema unico d’asilo in Europa e alla esigenza di controllare le frontiere esterne allo spazio Schengen per evitare l’ingresso di migranti nei singoli Paesi si sono moltiplicati gli ostacoli che i vari Stati hanno frapposto all’attraversamento dei loro confini, al fine di evitare di essere considerati Paesi di primo arrivo, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Innanzitutto, molti Paesi hanno criminalizzato l’ingresso illegale. Ciò è avvenuto anche in Italia, dove però, attualmente, il reato di ingresso e soggiorno illegale è punibile soltanto con una contravvenzione per evitare un ulteriore sovraffollamento delle nostre carceri, già in situazione di estrema criticità.

Ben più restrittiva è, però, la situazione di altri Stati come, per esempio, Ungheria e Austria, che prevedono pene detentive molto severe per chi attraversa illegalmente i loro confini e per coloro che agevolano il passaggio.

Ulteriori ostacoli giuridici sono stati poi posti, come nel caso dell’Italia, da un punto di vista procedurale: per esempio, con il decreto c.d. Minniti, sono state introdotte procedure sommarie e accelerate per la domanda di protezione internazionale e, per tale materia, sono stati limitati sia il diritto d’appello che la sospensione della esecuzione durante la fase d’impugnazione.

In molti Paesi UE sono state inoltre costruite vere e proprie barriere fisiche per impedire che i migranti possano persino entrare in contatto con le autorità dello Stato deputate a raccogliere la domanda: muri, fili spinati, fasce di terre di nessuno in cui si creano situazioni di emergenza umanitaria, come quella che attualmente sta investendo i confini della Polonia per i migranti inviati dalla Bielorussia oppure quella relativa ai migranti della rotta balcanica.

 

Le politiche di esternalizzazione e la loro declinazione in Italia

L’ostacolo più insidioso è però rappresentato dalle “esternalizzazioni” con le quali il compito di proteggere le frontiere esterne dei Paesi dell’area Schengen viene affidato dagli Stai europei a Paesi terzi.

Ciò può avvenire sia per accordi della stessa UE con gli Stati terzi, come è stato con la Turchia per impedire l’arrivo in Europa (soprattutto in Grecia) di cittadini provenienti da Siria, Afghanistan, Iraq sia mediante accordi tra il singolo Stato della UE e il Paese terzo, come accade tra Marocco e Spagna o tra Libia e Italia.

In Italia, negli anni 2008-2009 con il c.d. accordo Berlusconi-Gheddafi Italia e Libia definirono diverse questioni in sospeso tra i due Paesi tra cui, per esempio, quella delle riparazioni alla Libia per il passato coloniale dell’Italia ma, soprattutto, in ordine alle migrazioni, venne previsto l’obbligo della Libia di accogliere le persone che l’Italia respingeva verso quel Paese. I respingimenti erano dunque demandati all’Italia, che vi provvedeva attraverso la sua guardia costiera e la marina militare ma i barconi venivano bloccati in acque internazionali, al di fuori dello Stato italiano. Con questo espediente l’Italia intendeva evitare di incorrere nelle sanzioni internazionali previste anche dalla Convenzione dei diritti umani per violazione, ad esempio, del principio di non refoulement in prevenzione della tortura.

Questa pratica ha subito una battuta d’arresto con alcune pronunce della Corte Europea dei diritti umani, che ha sanzionato l’Italia perché ha ritenuto sussistente la giurisdizione della Corte ovunque lo Stato italiano, con propri organi, esercitasse i suoi poteri e, perciò, anche se i respingimenti erano avvenuti in acque internazionali.

Il leading case è noto come caso Hirsi e riguarda circa duecento persone, prevalentemente somale ed eritree, che vennero intercettate il 6 maggio 2009 dalla guardia di finanza e dalla guardia costiera italiana, accolte a bordo delle navi italiane e, dopo circa dieci ore di viaggio senza essere state identificate, riconsegnate alla Libia. Con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Hirsi vennero accertate diverse violazioni dell’Italia: violazione del diritto a non subire torture, violazione del diritto a un ricorso effettivo, violazione del divieto di espulsioni collettive di stranieri.

 

La parentesi di Mare Nostrum e la successiva ripresa in Italia di politiche di esternalizzazione ancora più estreme

Dopo le sentenze della Corte Europea, l’Italia conobbe la parentesi di Mare Nostrum, decisa dal governo Letta il 14 ottobre 2013 e avviata ufficialmente il 18 ottobre successivo, con un duplice obiettivo: salvaguardare le vite in mare e assicurare alla giustizia tutti coloro che lucravano sul traffico illegale dei migranti, con un’attività che vedeva coinvolti personale e mezzi navali della Marina Militare, dell’Aeronautica, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Capitaneria di porto, del personale del Corpo Militare della Croce Rossa italiana e della Polizia di Stato. In un anno di attività di Mare Nostrum furono salvati 91.000 migranti, recuperati 499 corpi e arrestati 718 scafisti.

Mare Nostrum non era però gradita a diversi Paesi della Europa centrale e settentrionale, secondo i quali i migranti, attratti da questa operazione, una volta sbarcati in Italia, poi si dirigevano anche nei loro Paesi e, d’altra parte, l’Italia stava spendendo molti soldi nell’operazione che, invece, avrebbe dovuto essere finanziata dalla Ue perché erano diretti verso l’Europa in generale e non soltanto verso il nostro Paese.

Subentrato il governo Renzi al governo Letta, Renzi dichiarò che Mare Nostrum sarebbe stato sostituito soltanto da un’operazione equivalente finanziata, però, da tutta l’UE.

Tuttavia, altre operazioni, soprattutto Frontex, hanno mandato e scopi del tutto differenti rispetto a Mare Nostrum, perché non sono finalizzate al salvataggio bensì, per esempio, al pattugliamento del Mediterraneo con lo scopo principale di fare rispettare l’embargo delle armi verso la Libia e, perciò, l’attività di salvataggio in mare resta marginale ed eventuale.

Per ovviare alle sanzioni della Corte Europea l’Italia, dopo Mare Nostrum, ha fatto ricorso a forme più estreme di esternalizzazione e, con l’accordo Gentiloni Serraj del 2017, ha offerto sostegno, assistenza tecnica, finanziamento e addestramento alla Libia e alla sua guardia costiera affidandole il compito di sorvegliare il Mediterraneo e respingere i migranti.

Si tratta, in sostanza, di delegare alla Libia una condotta che, se fosse posta in essere dall’Italia, sarebbe vietata dalla Ue. La questione è attualmente oggetto di contenzioso sia nei Tribunali italiani che dinanzi alla Corte Europea per violazione da parte dell’Italia sia del principio di non refoulement (l’Italia attuerebbe una sorta di refoulement delegato) sia per il principio di responsabilità internazionale degli Stati, per il quale lo Stato che, consapevole del risultato, si renda complice dell’illecito commesso da un altro Stato ne risponde.

Inoltre, in numerose sentenze CEDU, viene attribuito a uno Stato, che abbia un’influenza decisiva sulle politiche e pratiche di un altro Stato, l’illecito commesso dallo Stato su cui tale influenza viene esercitata ed è esattamente ciò che potrebbe verificarsi nel caso della Libia e dell’Italia, giacché la zona Sar in cui vengono condotte le operazioni libiche, in base a molti elementi, risulta essere sotto il controllo effettivo dell’Italia.

 

ONG, porto sicuro e Paese d’origine sicuro

Fu dopo la chiusura di Mare Nostrum che molte ONG, come Medici senza frontiere, Save the children e altre che vennero costituite ad hoc sono scese in mare per eseguire operazioni di salvataggio, che le navi pubbliche non fanno più.

Le ONG si muovono in zone in cui più frequentemente avvengono i naufragi, raccogliendo sulle loro navi i migranti in difficoltà, rifiutandosi di consegnarli alla Libia ma domandando di farli sbarcare in Paesi dove venga assicurato il rispetto del principio di non refoulement.

 

Ma cosa deve intendersi per “porto sicuro”?

Il concetto si presta a interpretazioni diverse. L’Italia, per esempio, considera porto sicuro quello di un Paese in cui alle persone vengano assicurati un pasto caldo e coperte. Ma, secondo una interpretazione ampia e verisimilmente più corretta, “porto sicuro” dovrebbe, invece, essere quello di uno Stato in cui le persone non vengano rinchiuse in campi di detenzione dove i livelli di vita siano inaccettabili e, soprattutto, in cui non siano sottoposte a tortura come avviene, invece, nei campi di detenzione libici, secondo alcune informazioni.

Altra ambiguità rilevante riguarda la definizione di Paese d’origine sicuro nella valutazione da parte degli ordinamenti statali delle domande d’asilo.

L’ambiguità deriva dal fatto che un Paese viene considerato sicuro o meno soprattutto in virtù delle relazioni di amicizia che uno Stato ha con altro Stato e, perciò, se per un migrante provenire da un Paese considerato “sicuro” non esclude che la domanda d’asilo potrà comunque essere presentata, le procedure di valutazione saranno comunque più accelerate e sommarie.

 

Quali interessi economici ci sono in ballo nella costruzione dei muri?

Un interessante dossier pubblicato dal giornalista Nello Scavo sul quotidiano “L’Avvenire” in data 16 novembre 2021 svela il giro di affari che sta dietro la protezione dei confini e la costruzione di muri e altre barriere fisiche.

Per il pattugliamento, scrive Scavo, beneficiano dei cospicui investimenti europei le più importanti aziende del comparto difesa, tra i principali appalti per i muri e la costruzione di fili spinati figurano grandi firme dell’industria bellica di vari Paesi, fiumi di soldi anche per costruttori navali per il pattugliamento in mare e per lo sviluppo e la manutenzione del Sistema d’informazione visti (vis), il Sistema d’informazione Schengen (Sis II) e Dattiloscopia Europea (Eurodac).

 

“Prima di oggi”, precisa Scavo, “le imprese europee hanno beneficiato di un budget di 1,7 miliardi di euro del Fondo per le frontiere esterne della Commissione europea (2007-2013) e del Fondo per la sicurezza interna-frontiere (2014-2020) di 2,76 miliardi di euro. Per il nuovo bilancio Ue (2021-2027), la Commissione Europea ha stanziato 8,02 miliardi di euro al Fondo per la gestione integrata delle frontiere, 11,27 miliardi di euro a Frontex…”.

 

Difendersi dai poveri è incompatibile con i principi fondanti della UE

Dinanzi a una situazione quale è quella sopra descritta, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha evidenziato il sorprendente divario tra i grandi principi proclamati e il non tenere conto della fame e del freddo a cui sono esposte le persone ai confini della Ue.

A dare ragione al Presidente della Repubblica italiana basta ricordare che la Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea disegna un progetto di Europa come comunità del cui patrimonio spirituale e morale fanno parte valori indivisibili e universali della dignità umana, della eguaglianza, della solidarietà e che dal rispetto di questi valori discendono doveri e responsabilità che l’Europa ha assunto nei confronti della comunità umana e delle generazioni future.