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Social Media, segni distintivi e lealtà della concorrenza, tra Influencers, Trend Setters, Fake News e pubblicità

Social Media, segni distintivi e lealtà della concorrenza, tra Influencers, Trend Setters, Fake News e pubblicità
Social Media, segni distintivi e lealtà della concorrenza, tra Influencers, Trend Setters, Fake News e pubblicità

1. La diffusione impetuosa delle nuove forme di comunicazione sulla rete che vengono generalmente ricondotte al web interattivo, o web 3.0 o Infosfera – termini che, pur con diverse sfumature, alludono al fenomeno per cui sempre più sono gli stessi utenti a creare i contenuti della comunicazione sul web, servendosi di strumenti che consentono loro di interagire con gli altri utenti, almeno apparentemente posti “sul loro stesso piano”, oltre che con i gestori della rete – ricorda per molti versi la situazione che si era posta all’avvento della rete “di massa” e, anche qui per molti versi, suscita riflessioni giuridiche “già viste”, a cominciare dall’idea che si tratti di una “nuova frontiera” non ancora raggiunta dal diritto, se non in parte (ed essenzialmente sotto il profilo contrattuale), dunque un’area di almeno potenziale “libertà assoluta”, compresa la libertà di calpestare i diritti altrui. Ed infatti anche qui si reclamano, da una parte e dall’altra, o nuovi interventi normativi “speciali” per disciplinare questi campi d’azione o, viceversa, si pretende che la normazione non li raggiunga, sul presupposto, comune alle due posizioni che, oggi, si viva una situazione di vuoto legislativo.

Proprio l’esperienza fatta in occasione delle “prime ondate” di Internet dovrebbe invece renderci avvertiti del fatto che in realtà è vero esattamente il contrario, ossia che non esistono spazi di impunità e che anzi la rete, proprio perché attraversa le frontiere, non solo non è un mondo “senza legge”, ma anzi è un campo sul quale possono concorrere più legislazioni (e più giurisdizioni), ciascuna con i propri divieti – e i diritti in essa riconosciuti – da rispettare, dunque, con un carico di responsabilità potenzialmente molto più esteso: il che impone una duplice vigilanza, da parte dei titolari dei diritti, per difendersi dalle violazioni, e da parte dei potenziali autori delle violazioni, per evitare di incorrere in responsabilità, e prima ancora richiede la consapevolezza dei rischi e delle opportunità che le attività svolte nella rete, e in particolare in questo suo nuovo campo d’azione, comporta.

Con specifico riguardo ai temi della proprietà intellettuale e della concorrenza, che qui più da vicino ci interessano, la prima consapevolezza da acquisire è quella della nozione di uso nell’attività economica, che non è di per sé escluso dalla natura non professionale e quindi non imprenditoriale in senso stretto di questa attività, come osservava già Spada nel suo noto articolo del 2000 su Domain names e dominio dei nomi e come addirittura nel 1996 la giurisprudenza aveva riconosciuto, applicando le regole della concorrenza sleale anche a “un non imprenditore che svolga il ruolo di moderatore di una conferenza gratuita su Internet” (Trib. Modena, 23 ottobre 1996); e sempre la giurisprudenza dell’Internet degli esordi aveva riconosciuto sussistente un rapporto di concorrenza tra soggetti operanti in settori completamente diversi, attribuendo rilievo al fatto che gli stessi concorressero sul mercato della pubblicità via Internet (così Trib. Genova, 13 ottobre 1999, che tale rapporto ha riconosciuto tra il gestore di un motore di ricerca e il titolare di un sito che semplicemente ospitava la pubblicità di annunci immobiliari).

Né va dimenticato che la natura pubblicitaria di qualsiasi comunicazione destinata alla diffusione dipende semplicemente dalla sua finalità promozionale, da valutare, tra l’altro, sul piano oggettivo degli effetti, e ricorrendo anche ad elementi presuntivi, nell’accertamento dell’esistenza di essa (e della relativa committenza): e promozione non è soltanto quella che si riferisce a prodotti, ma anche quella concernente i servizi, per i quali, parimenti, è necessario accogliere una nozione ampia, che tenga conto dell’evoluzione della società e dei suoi bisogni, compreso quello, sempre più impellente, di appartenenza a un gruppo.

Ed ancora si aggiunga che il tema della trasparenza, che nella pubblicità è basilare, proprio perché solo la riconoscibilità come pubblicitaria di una comunicazione permette al soggetto che la percepisce di inquadrarla e valutarla correttamente, senza farsene influenzare indebitamente, assume una pregnanza del tutto speciale rispetto ai nuovi mezzi di comunicazione, e in particolare alle comunicazioni interattive, dove, come si diceva, è labile sino a sparire il confine tra autore ed utente ed anche quello tra fornitore e fruitore di un servizio, tra soggetto he pubblicizza e soggetto (oggetto) che viene pubblicizzato.

2. Il tema non è dunque quello di verificare se i segni distintivi usati per contraddistinguere questi nuovi servizi sono a loro volta tutelati. La risposta, scontatamente positiva, rende persino futile una discussione al riguardo, essendo parimenti scontato che distintivi non sono solo gli elementi denominativi di essi, ma anche le composizioni grafiche, le interfacce e persino le transizioni video che siano percepite come distintive di un determinato social media ed ovviamente non siano imposte dalla loro stessa natura, necessarie per conseguire un risultato tecnico o tali da conferire un valore sostanziale al “prodotto” (o meglio: al servizio) cui accedono, secondo le regole ordinarie e avendo sempre come criterio discriminante appunto quello della percezione del pubblico.

Neppure può dirsi che presentino peculiarità giuridiche legate a questi nuovi mezzi le forme di servizi pubblicitari mirati, collocati in base al comportamento del navigatore, oppure in base all’inerenza col contenuto del sito visitato, che non si configurano in modo diverso per il fatto che venga in considerazione il posizionamento mirato dei banners pubblicitari su un sito Internet visitato o nella pagina di un motore di ricerca, oppure l’inserimento nei social networks, sempre in modo “mirato”, di banners e links che fanno riferimento ai contenuti inseriti o visionati dall’utente nel corso del suo uso del social media. In entrambi i casi, infatti, ciò che rende illecita la pubblicità è l’utilizzo dei riferimenti ad un marchio famoso – perché cercato dall’utente o presente, legittimamente, nei materiali visitati o caricati – con pubblicità e links a siti di terzi che invece a quel marchio sono totalmente estranei: il che presuppone necessariamente un’analisi magari automatizzata, ma comunque mirata e quindi un controllo dei contenuti, per realizzare l’abbinamento al marchio altrui, che espone tra l’altro a responsabilità non solo l’inserzionista, ma anche il soggetto che gli ha messo a disposizione le informazioni sulla navigazione o sulla condotta interattiva dell’utente.

L’intermediario, o il gestore delle piattaforme social, non può infatti trincerarsi dietro il carattere “automatico” dei meccanismi attraverso i quali il servizio opera, poiché essi sono stati da lui stesso predisposti, ed anzi già questa predisposizione, se è idonea a creare collegamenti abusivi, non può non qualificarsi quanto meno come una forma di contributory infringement non diversa, nella sostanza, dall’ipotesi in cui il gestore di un sito internet organizzava “per mezzo di un motore di ricerca o con delle liste indicizzate” le informazioni (fornitegli da alcuni utenti) essenziali perché gli (altri) utenti potessero “orientarsi chiedendo il downloading di quell’opera piuttosto che un’altra”: ipotesi ritenuta illecita, anche penalmente, da Cass. pen., 23 dicembre 2009, 1055, relativa ad un noto caso di download illegale di opere protette dal diritto d’autore per mezzo di un sistema c.d. peer to peer.

3. Tutto questo, come si diceva, non cambia sostanzialmente, se non nelle forme in cui il fenomeno si realizza concretamente, a seconda che ci muoviamo nel web tradizionale o nei nuovi media interattivi.

Ciò che rende necessaria una riflessione ulteriore sono invece le conseguenze giuridiche che si ricollegano proprio all’interattività sulla rete, che caratterizza i social media e più in generale il nuovo web, ed in particolare è il peso che a questo nuovo ruolo va attribuito, al fine di qualificare chi lo svolge come vero e proprio operatore economico, soggetto dunque alle regole della concorrenza e al rispetto dei diritti esclusivi sugli altrui segni distintivi, diritti che possono venire lesi solo da un uso nell’attività economica, ma, come abbiamo visto, non necessariamente imprenditoriale.  

In realtà anche questo nuovo fenomeno non rappresenta una totale discontinuità rispetto alla realtà economica più tradizionale. Il mercato, infatti, è interazione per definizione e il comportamento economico dei consumatori è da sempre decisivo per il successo o l’insuccesso di un prodotto o di un servizio: dall’effetto del passaparola ai fenomeni imitativi innescati dall’esibizione di prodotti, specialmente – ma non solo – da parte di personaggi pubblici.

Ed anche in questo caso non esiste mai una neutralità assoluta, perché l’uso e l’ostensione di prodotti a marchio, si tratti della borsa Kelly di Hermes, di una cravatta Marinella, di una penna di Montblanc o di un’automobile sportiva, rappresenta anche per il consumatore “comune” un vero e proprio investimento in reputation capital, come è stato messo in luce già mezzo secolo fa dalla pionieristica analisi economica di Landes e Posner, e del resto già emergeva implicitamente dagli studi condotti in parallelo da Scheckter e Isay negli Anni Venti del secolo scorso sulla funzione “pubblicitaria” del marchio, basata appunto sulle suggestioni che esso suscita e che il pubblico con i propri comportamenti inevitabilmente rispecchia ed amplifica.

Dunque, tra l’utente di un social media che promuove se stesso attraverso immagini che lo ritraggono mentre indossa un capo di tendenza o frequenta un locale alla moda e gli stessi comportamenti tenuti nella vita reale non vi è, almeno apparentemente, che una differenza di ordine quantitativo, legata alle potenzialità dei nuovi media ed al peso crescente che essi assumono nella nostra vita: una vita sempre più “sdoppiata” tra il tempo ordinario, nel quale si compiono, magari anche mediante la rete, le attività consuete del lavoro, della famiglia e degli svaghi, e una dimensione social, nella quale l’apparire, più ancora che il comunicare, diventa imperativo categorico e dunque i prodotti in cui l’apparire si manifesta, e con essi i marchi che vi sono apposti o che consistono nello stesso aspetto esteriore dei prodotti, ne costituiscono il principale veicolo. Correlativamente anche i commenti, positivi e negativi, espliciti o velati, sui prodotti e servizi e sulle imprese da cui essi provengono, assumono sulla rete una capacità di diffusione, come si è soliti dire, virale, foriera di effetti talvolta incontrollabili.

In questa dimensione il discrimine tra uso pubblicitario e libera espressione del pensiero diviene particolarmente delicato, specialmente quando il soggetto che diffonde il contenuto pregiudizievole di un diritto altrui si trova in questa sorta di terra di nessuno che distingue il semplice blogger disinteressato dall’influencer o aspirante tale, che agisce per promuovere un operatore economico esterno o anche se stesso, in quanto potenziale veicolo di pubblicità.          

4. Non stupisce quindi che di fronte a questi fenomeni abbia ritenuto di intervenire, pur con estrema prudenza e anzitutto con due successivi interventi di moral suasion l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, a garanzia della trasparenza della pubblicità, e quindi già nel luglio 2017 e poi di nuovo nell’agosto di quest’anno ha chiesto ai soggetti che effettuano sui social media attività aventi finalità promozionale e ai titolari dei marchi che si rivolgono allo stesso scopo a blogger influencer di segnalarlo con apposite indicazioni idonee a rendere evidente a chi riceve il messaggio il carattere pubblicitario di esso. È anzi significativo che il secondo intervento si sia rivolto a una platea più vasta, comprendente anche influencers con un numero di followers più limitato ma comunque abbastanza significativo sul mercato, ed abbia sottolineato come nell’attuale contesto economico il mero posizionamento sull’immagine di un tag o di un’etichetta che rinviano ad esempio al profilo Istagram o al sito web del titolare del marchio non è sufficiente a rendere evidente a tutti i consumatori il carattere promozionale di essa, e dunque si richiede loro l’adozione di mezzi ulteriori di evidenziazione di questo carattere.

Su questo stesso tema è intervenuto, con le sue pronunce 45/2018 e 58/2018, anche il Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria, sanzionando appunto come pubblicità nascosta l’inserimento nelle pagine Istagram di persone famose di fotografie e di video in cui comparivano prodotti di marca in funzione promozionale, senza che tale funzione fosse evidenziata in modo adeguato. E sempre l’Istituto per l’Autodisciplina Pubblicitaria, già dal 2016, nel contesto della sua Digital Chart, ha cercato di tracciare le linee di un codice di condotta che celebritiesinfluencers e bloggers o vloggers in genere dovrebbero seguire per indicare al pubblico l’esistenza di un rapporto di committenza nel loro uso ostensivo di prodotti di marca, o anche (e in tal caso le prescrizioni sono meno stringenti, ma sussistono egualmente) soltanto per evidenziare che il prodotto (o il servizio) è stato fornito loro gratuitamente, anche qui evidentemente con un’implicita finalità promozionale da parte del produttore/prestatore, o configura nell’ambito di un video un caso di product placement o di autopromozione di prodotti o servizi del vlogger; e così pure ha indicato l’esigenza di segnalare quando si è in presenza di forme di native advertisement, ossia quando la pubblicità è, per così dire, “diluita” facendola emergere da un contesto analogo a quello consueto della comunicazione presente in una piattaforma, rendendola sostanzialmente indistinguibile dai contenuti non promozionali, e dunque ancora una volta non trasparente.

5. Questi ultimi fenomeni rappresentano in effetti un tema che richiede una riflessione supplementare: infatti, come già si accennava, il primo servizio che il vlogger intende promuovere è il suo stesso proporsi come aspirante influencer trend setter, convogliando su di sé l’attenzione del pubblico, in modo da diventare “appetibile” per i soggetti che intendano realizzare pubblicità, ma anche per quelli che intendano evitare pubblicità negativa.

E se in questo caso è difficile parlare di pubblicità nascosta, perché lo scopo autopromozionale è evidente, è tuttavia doveroso rimarcare che questa autopromozione assurge essa stessa alla dignità (se così si può dire) di attività economica, portando quindi con sé necessariamente l’onere, da parte di chi la pone in essere, di rispettare sia le esclusive sui segni distintivi altrui – i cui titolari potrebbero non desiderare l’abbinamento con determinati personaggi, ove lo stesso risultasse screditante o comunque incoerente con l’immagine veicolata da tali segni –, sia più in generale le regole della concorrenza, comprese naturalmente quelle sul divieto di attività confusorie e parassitarie, ma anche delle forme di ambush marketing di cui proprio i social media, attraverso il possibile accostamento di messaggi che consentono di realizzare agevolmente sembrano essere un terreno di elezione.

Il tema è stato sfiorato da un recente provvedimento del Tribunale di Brescia (ordinanza 22 giugno 2018, Pin-Up Stars c. Sungal), che ha vietato al contraffattore dei modelli registrati di alcuni costumi di bagno di valersi per un anno della collaborazione professionale ai fini di promozione dei suoi costumi di una modella che aveva prima pubblicizzato i costumi originali per il titolare dei modelli imitati e poi, per conto dell’imitatore, le copie, indossandoli in fotografie diffuse sulle proprie pagine social e richiamate nel sito web del contraffattore. Ci si può infatti domandare (e io credo che la risposta alla domanda debba essere positiva) se non sarebbe stato possibile vietare alla stessa modella, naturalmente ove fosse stata parte del giudizio, di mostrarsi sui social con prodotti in grado, proprio per essere da lei indossati, di ingenerare confusione o agganciamento sul mercato in relazione ai capi originali (e al loro marchio), di cui in precedenza era stata testimonial, posto che anche questa sua attività è un’attività economica a tutti gli effetti, in grado di riverberarsi negativamente sulla posizione di mercato altrui.      

6. Ma il discorso può allargarsi ancora. Da un lato io credo che si debba mettere in discussione la stessa nozione di rapporto di concorrenza, così come elaborata dalla nostra “storica” giurisprudenza, che appare sempre più anacronistica, se si pensa che la protezione allargata dei marchi di rinomanza (e i marchi imitati lo sono quasi sempre) non è più un’eccezione, ma la regola, e non ha quindi senso – né può dirsi, d nuovo, conforme al principio costituzionale di eguaglianza – discriminare il trattamento legale delle forme di concorrenza che avvengono attraverso l’uso di segni distintivi rispetto a quello di tutte le altre. E dunque è tempo di adeguare anche la nostra giurisprudenza a quella degli altri Paesi, la Germania per prima, che considera in rapporto di concorrenza tra loro due operatori economici ogni volta che le azioni del primo sul mercato sono in grado di riverberarsi sulla posizione di mercato del secondo, a prescindere dal fatto che gli stessi si rivolgano alla medesima clientela finale, essendo sufficiente al riguardo l’alterazione del corretto svolgimento dell’attività economica da queste azioni deriva.

Dall’altro lato, occorre domandarsi se sia ancora ammissibile, in tempi di web interattivo, una sostanziale esenzione da responsabilità – o, se si preferisce, una responsabilità fondata soltanto sulla regola generale dell’art. 2043 c.c. e sui rimedi meramente indennitari da essa previsti – in capo a soggetti che intervengono attivamente nel mondo social con messaggi suscettibili di riverberarsi negativamente appunto sulla posizione di mercato di altri soggetti. Anche in questo caso, non sono infatti ammissibili “passamontagna telematici” che consentano di danneggiare altri impunemente, ad esempio viralizzando fake news o messaggi screditanti: il potere di intervenire attivamente sulla rete non può cioè non implicare, in una logica di bilanciamento d’interessi, una corrispondente posizione di responsabilità, a monte della quale sta evidentemente anche la posizione di responsabilità dei gestori di queste piattaforme, che attraverso la pubblicità veicolata nell’ambito di esse e più ancora attraverso la gestione dei big data da esse generati sono in grado di ricavare profitti rilevantissimi e quindi non possono non essere soggetti alle regole generali della responsabilità degli intermediari, almeno nei limiti in cui questa è ammessa dalla Direttiva sul commercio elettronico, così come interpretata e chiarita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea.       

Certamente la strada da percorrere in questa direzione è ancora lunga, ma va seguita tutta. E senza le facili scorciatoie delle leggi speciali, che proprio in tema di commercio elettronico hanno mostrato la corda, quanto piuttosto attraverso un’applicazione rigorosa dei principî generali, non solo del diritto della proprietà intellettuale, ma del diritto civile. Ciò di cui abbiamo bisogno è di regole astratte e generali, che nascano dal basso, cioè da quello che l’azione umana concretamente rappresenta nelle relazioni interpersonali che è in grado di istituire, quindi al di sotto del diritto positivo e come ossatura di esso e misura della sua interpretazione, del diritto naturale.

Anche sotto questo profilo, la rete web può essere veramente un banco di prova importante della nostra capacità di costruire un futuro fatto non di protezionismi e di regole arbitrarie rimesse alla volontà di un legislatore aspirante stregone, ma appunto di norme che siano il riflesso della giustizia, e non viceversa. Pensare ancora, interrogarci in questa prospettiva, è un dovere tanto degli studiosi, che dei pratici, degli operatori del mercato, degli amministratori della giustizia. Incontri come il nostro Convegno di oggi vogliono essere anzitutto un momento maieutico di riflessione comune e di confronto su questi temi, decisivi non solo per la proprietà intellettuale, ma per l’intero nostro vivere civile.