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Sulla natura soggettiva dello stato di necessità

Massima

L’autore di un fatto illecito, che abbia agito in stato di necessita, è tenuto a corrispondere l’indennizzo al danneggiato se ha posto in essere una condotta colposa (nel caso di specie, un infermiere che indossando delle scarpe aperte accorre in soccorso di un ricoverato- pur agendo in stato di necessità -  è civilmente responsabile del danno provocato ad un terzo inciampando se il giudice accerta che la sua condotta è colposa).

 Il caso

Il teatro della  vicenda, che ha dato origine alla controversia, è un reparto medico di un nosocomio pubblico siciliano,  ove l'attrice si era recata - al di fuori del normale orario di visita e in compagnia di altri familiari - ad assistere la propria figlia, ivi ricoverata in attesa di un intervento chirurgico. Mentre sostava nel corridoio, però, gli eventi prendevano un corso inaspettato; infatti, da una camera si alzava un grido disperato: “aiuto è morto!” che richiamava personale sanitario dal reparto. A questo punto, un infermiere si precipitava nel corridoio, uscendo da una delle stanze attigue, si imbatteva nell’attrice, la travolgeva e rovinava a terra sulla stessa, procurandole la frattura della gamba sinistra.

La danneggiata, ritenendo esclusivo responsabile dell’accaduto l’infermiere (ai sensi dell'art. 2043), citava quest’ultimo in giudizio, unitamente alla direzione sanitaria dell’ospedale (ex art. 2049 c.c.), per vederli condannare al risarcimento dei danni causati dalla caduta.

In sintesi, nel decidere la controversia, il giudice siciliano - dopo aver affermato che il comportamento dell'infermiere è stato "quantomeno ... imprudente", poiché è inammissibile che una persona mediamente diligente "indossando un tipo di scarpa aperta" adotti "un'andatura di corsa" - sostiene che: a) la condotta dell’infermiere era giustificata dallo stato di necessità ex art. 2045 c.c.; b) l’azienda ospedaliera è responsabile per il fatto dell’infermiere ex art. 2049 c.c.; c) la danneggiata, recatasi nel nosocomio in orario vietato alle visite, ha concorso a cagionare il danno. E, per conseguenza, condanna l’azienda sanitaria e l’impresa che ne assicura la responsabilità civile a corrispondere alla danneggiata l’indennizzo, ridotto del 50% per concorso del fatto colposo del danneggiato (dal momento che “si trovava nel reparto luogo dell'incidente in orario non consentito e proprio allorché il personale sanitario vi svolge la sua attività più impegnativa (era orario di interventi) , in tal modo costituendo un oggettivo intralcio delle attività dell'istituto - aggravato dal fatto che il danneggiato si accompagnava ad altre persone ( le figlie)).

Natura giuridica dello stato di necessità in teoria

Con la decisione in esame, il Tribunale di Enna si inserisce a pieno titolo nel dibattito dottrinale che vede contrapporsi una visione soggettiva ad una visione oggettiva dello stato di necessità. Sin dalla nascita dell’istituto (com’è noto la norma è stata introdotta nel codice civile vigente: non esisteva né nel precedente del 1865 e neppure nel Code Napoleon), si discute, infatti, se l’esimente in questione escluda l’ingiustizia del danno sotto il profilo dell’oggettiva antigiuridicità del fatto, riconducendo la figura nella categoria del fatto lecito dannoso, ovvero se essa dia luogo ad un fatto illecito rispetto al quale divergono solo le conseguenze: l’indennizzo anziché il risarcimento.

Per i sostenitori della prima tesi, lo stato di necessità è considerato come una forza che, agendo sull’animo dell’agente, lo priva della libertà di scegliere liberamente la condotta da adottare, obbligandolo - di fatto - a compiere un’azione necessitata “… per salvare sé o altri da un danno grave alla persona …” (in tal senso, DE CUPIS, Natura giuridica dell’atto necessitato, in Riv. critica dir. privato, 1939, 16), ciò esclude l’antigiuridicità del fatto da un punto di vista obiettivo e rende ininfluente l’accertamento dell’elemento psicologico (cfr., RUBINO,  Osservazioni in tema di stato di necessità e concorso di persone nel fatto colposo, in Riv. giur. circolaz., 1953, 203), in quanto l’azione necessitata priva l’agente della libertà psicologica di scegliere tra più condotte possibili, da ricondurre, per alcuni nella categoria dei fatti leciti dannosi (v. PIRAS, Saggio sul comportamento del necessitato nel diritto privato, in Studi sassaresi, 1949, 119).

L’indennità per la tesi obiettiva rappresenta un contributo dato all’attenuazione od esclusione del danno che altrimenti un membro della collettività, cui l’indennizzato appartiene avrebbe sofferto. Si ispira, in altre parole ad un principio di equità giuridica che contempera gli interessi in gioco concedendo al soggetto sacrificato una pretesa indennitaria da determinarsi di volta in volta equitativamente, da parte del giudice, ovvero un compenso attribuito al soggetto in cambio dell’interesse sacrificato  (sul punto, v. DE CUPIS, Il danno, Teoria generale della responsabilità civile, Vol. I, Milano, 1979,  29).

Al contrario, per la tesi opposta l’azione necessitata è il frutto di una libera determinazione di volontà dal soggetto agente che sceglie di violare una norma giuridica o di condotta “… per salvare sé o altri da un danno grave alla persona …” (V. SCOGNAMIGLIO, voce Responsabilità per fatto altrui, in Noviss. Dig., vol. XV, Torino 1968, 655). In altre parole, l’agente non è un mero strumento materiale delle circostanze di pericolo, ma si inserisce in questo contesto, in qualche modo, con un suo atto di autonomia. L’azione di necessità è voluta ma non meditata.

Propende per la ricostruzione soggettiva dell’istituto anche la Relazione accompagnatoria al codice civile. Sul punto afferma che: “il fatto compiuto in situazione di necessità è imputabile perché cosciente e volontario; da ciò deriverebbe la conseguenza che il danno deve essere risarcito secondo i criteri ordinari. Ma per riguardo alla particolarità del caso, mentre la legge penale dichiara non punibile l’autore (art. 54 c.p.), quella civile sancisce soltanto un’attenuazione della responsabilità, nel senso che al danneggiato è dovuta un’indennità che sarà determinata dal giudice secondo equità (art. 2045 c.c.), costituendo in sostanza un dovere del soggetto di contribuire, con il sacrificio parziale proprio, alla salvezza altrui se questa non si possa ottenere”.

Per i sostenitori di questa seconda tesi, inoltre, l’indennità non cessa di essere una forma di risarcimento del danno, dal momento che l’obbligazione dell’autore del fatto necessitato di corrispondere l’indennità trova fondamento in una responsabilità soggettiva, sia pure attenuata per fatto proprio del danneggiante a lui imputabile perché volontaria e consapevole.

Ricostruzione soggettiva della stato di necessità

Nella sentenza in epigrafe, il giudice risolve il conflitto in chiave soggettiva (in senso conforme, Trib. Bologna, 27 marzo 2007, Foro it., Rep. 2008, voce Responsabilità civile, n. 300, per esteso in Resp. civ., 2008, 1882, con nota di PORRECA). Infatti, afferma che “nell’ambito della responsabilità civile lo stato di necessità si qualifica non quale esimente idonea ad escludere l’antigiuridicità del fatto ma quale ragione di responsabilità attenuata”. Quindi, valuta la condotta dell’infermiere imprudente, giacché ha “affrontato il percorso di corsa nonostante l’ingombro del corridoio e la modesta stabilità ed aderenza delle calzature che indossava” e lo condanna ad indennizzare (seppure in parte) la vittima. In altre parole, il giudicante implicitamente rimprovera all’infermiere: 1) di non aver scelto una condotta alternativa non dannosa; 2) di non aver osservato le regole di condotta seguita dalla generalità degli individui (regole che suggeriscono, in base all’esperienza di casi consimili, gli strumenti da adottare per prevenire i danni a terzi); 3) di non aver adottato le cautele più opportune dettate dalla specificità del fatto concreto.

Considerazioni conclusive

La ricostruzione della fattispecie in termini soggettivi però non convince e lascia molte zone d’ombra. Non mi sembra che l’infermiere avesse la possibilità di scegliere condotte alternative (se non quella omissiva). E l’unica regola imposta dal caso concreto era quella di soccorrere il malato. Così come l’unica cautela che avrebbe potuto adottare, forse, sarebbe stata quella di cambiarsi le calzature (difficile da ipotizzare) o scalzarsi (la qual cosa forse non avrebbe scongiurato l’incidente). Al contrario, è logico ritenere che la specificità del caso concreto richiedesse all’infermiere  di tenere una condotta assai simile a quella adottata ovvero: accorrere  al capezzale del malato (che si temeva in immanente pericolo di vita), affrontando “il percorso di corsa nonostante l’ingombro del corridoio” (che tra l’altro doveva essere sgombro da persone, perché non era orario di visita) nonostante “la modesta stabilità ed aderenza delle calzature” (che, come è noto, l’infermiere indossa perché fanno parte della sua divisa d’ordinanza).

Si può dire che la decisione in esame mostra i limiti della tesi soggettiva, che cerca di trovare un responsabile del danno inerpicandosi sui tortuosi sentieri dell’elemento psicologico deviando da quelli più praticabili e meno insidiosi indicati dalla tesi oggettiva.

Se l’esigenza dell’ordinamento è di offrire al danneggiato un indennizzo in cambio dell’interesse sacrificato, non serve restare ancorati al criterio della colpevolezza (forzando la fattispecie in maniera poco credibile), è sufficiente ricondurre eziologicamente il danno al fatto dell’infermiere, dacché lo stato di necessità (il presunto pericolo di vita di un paziente, annunciato dal grido)  ha privato il danneggiante della facoltà di scegliere liberamente la condotta da adottare, imponendogli di compiere l’unica azione possibile. Massima

L’autore di un fatto illecito, che abbia agito in stato di necessita, è tenuto a corrispondere l’indennizzo al danneggiato se ha posto in essere una condotta colposa (nel caso di specie, un infermiere che indossando delle scarpe aperte accorre in soccorso di un ricoverato- pur agendo in stato di necessità -  è civilmente responsabile del danno provocato ad un terzo inciampando se il giudice accerta che la sua condotta è colposa).

 Il caso

Il teatro della  vicenda, che ha dato origine alla controversia, è un reparto medico di un nosocomio pubblico siciliano,  ove l'attrice si era recata - al di fuori del normale orario di visita e in compagnia di altri familiari - ad assistere la propria figlia, ivi ricoverata in attesa di un intervento chirurgico. Mentre sostava nel corridoio, però, gli eventi prendevano un corso inaspettato; infatti, da una camera si alzava un grido disperato: “aiuto è morto!” che richiamava personale sanitario dal reparto. A questo punto, un infermiere si precipitava nel corridoio, uscendo da una delle stanze attigue, si imbatteva nell’attrice, la travolgeva e rovinava a terra sulla stessa, procurandole la frattura della gamba sinistra.

La danneggiata, ritenendo esclusivo responsabile dell’accaduto l’infermiere (ai sensi dell'art. 2043), citava quest’ultimo in giudizio, unitamente alla direzione sanitaria dell’ospedale (ex art. 2049 c.c.), per vederli condannare al risarcimento dei danni causati dalla caduta.

In sintesi, nel decidere la controversia, il giudice siciliano - dopo aver affermato che il comportamento dell'infermiere è stato "quantomeno ... imprudente", poiché è inammissibile che una persona mediamente diligente "indossando un tipo di scarpa aperta" adotti "un'andatura di corsa" - sostiene che: a) la condotta dell’infermiere era giustificata dallo stato di necessità ex art. 2045 c.c.; b) l’azienda ospedaliera è responsabile per il fatto dell’infermiere ex art. 2049 c.c.; c) la danneggiata, recatasi nel nosocomio in orario vietato alle visite, ha concorso a cagionare il danno. E, per conseguenza, condanna l’azienda sanitaria e l’impresa che ne assicura la responsabilità civile a corrispondere alla danneggiata l’indennizzo, ridotto del 50% per concorso del fatto colposo del danneggiato (dal momento che “si trovava nel reparto luogo dell'incidente in orario non consentito e proprio allorché il personale sanitario vi svolge la sua attività più impegnativa (era orario di interventi) , in tal modo costituendo un oggettivo intralcio delle attività dell'istituto - aggravato dal fatto che il danneggiato si accompagnava ad altre persone ( le figlie)).

Natura giuridica dello stato di necessità in teoria

Con la decisione in esame, il Tribunale di Enna si inserisce a pieno titolo nel dibattito dottrinale che vede contrapporsi una visione soggettiva ad una visione oggettiva dello stato di necessità. Sin dalla nascita dell’istituto (com’è noto la norma è stata introdotta nel codice civile vigente: non esisteva né nel precedente del 1865 e neppure nel Code Napoleon), si discute, infatti, se l’esimente in questione escluda l’ingiustizia del danno sotto il profilo dell’oggettiva antigiuridicità del fatto, riconducendo la figura nella categoria del fatto lecito dannoso, ovvero se essa dia luogo ad un fatto illecito rispetto al quale divergono solo le conseguenze: l’indennizzo anziché il risarcimento.

Per i sostenitori della prima tesi, lo stato di necessità è considerato come una forza che, agendo sull’animo dell’agente, lo priva della libertà di scegliere liberamente la condotta da adottare, obbligandolo - di fatto - a compiere un’azione necessitata “… per salvare sé o altri da un danno grave alla persona …” (in tal senso, DE CUPIS, Natura giuridica dell’atto necessitato, in Riv. critica dir. privato, 1939, 16), ciò esclude l’antigiuridicità del fatto da un punto di vista obiettivo e rende ininfluente l’accertamento dell’elemento psicologico (cfr., RUBINO,  Osservazioni in tema di stato di necessità e concorso di persone nel fatto colposo, in Riv. giur. circolaz., 1953, 203), in quanto l’azione necessitata priva l’agente della libertà psicologica di scegliere tra più condotte possibili, da ricondurre, per alcuni nella categoria dei fatti leciti dannosi (v. PIRAS, Saggio sul comportamento del necessitato nel diritto privato, in Studi sassaresi, 1949, 119).

L’indennità per la tesi obiettiva rappresenta un contributo dato all’attenuazione od esclusione del danno che altrimenti un membro della collettività, cui l’indennizzato appartiene avrebbe sofferto. Si ispira, in altre parole ad un principio di equità giuridica che contempera gli interessi in gioco concedendo al soggetto sacrificato una pretesa indennitaria da determinarsi di volta in volta equitativamente, da parte del giudice, ovvero un compenso attribuito al soggetto in cambio dell’interesse sacrificato  (sul punto, v. DE CUPIS, Il danno, Teoria generale della responsabilità civile, Vol. I, Milano, 1979,  29).

Al contrario, per la tesi opposta l’azione necessitata è il frutto di una libera determinazione di volontà dal soggetto agente che sceglie di violare una norma giuridica o di condotta “… per salvare sé o altri da un danno grave alla persona …” (V. SCOGNAMIGLIO, voce Responsabilità per fatto altrui, in Noviss. Dig., vol. XV, Torino 1968, 655). In altre parole, l’agente non è un mero strumento materiale delle circostanze di pericolo, ma si inserisce in questo contesto, in qualche modo, con un suo atto di autonomia. L’azione di necessità è voluta ma non meditata.

Propende per la ricostruzione soggettiva dell’istituto anche la Relazione accompagnatoria al codice civile. Sul punto afferma che: “il fatto compiuto in situazione di necessità è imputabile perché cosciente e volontario; da ciò deriverebbe la conseguenza che il danno deve essere risarcito secondo i criteri ordinari. Ma per riguardo alla particolarità del caso, mentre la legge penale dichiara non punibile l’autore (art. 54 c.p.), quella civile sancisce soltanto un’attenuazione della responsabilità, nel senso che al danneggiato è dovuta un’indennità che sarà determinata dal giudice secondo equità (art. 2045 c.c.), costituendo in sostanza un dovere del soggetto di contribuire, con il sacrificio parziale proprio, alla salvezza altrui se questa non si possa ottenere”.

Per i sostenitori di questa seconda tesi, inoltre, l’indennità non cessa di essere una forma di risarcimento del danno, dal momento che l’obbligazione dell’autore del fatto necessitato di corrispondere l’indennità trova fondamento in una responsabilità soggettiva, sia pure attenuata per fatto proprio del danneggiante a lui imputabile perché volontaria e consapevole.

Ricostruzione soggettiva della stato di necessità

Nella sentenza in epigrafe, il giudice risolve il conflitto in chiave soggettiva (in senso conforme, Trib. Bologna, 27 marzo 2007, Foro it., Rep. 2008, voce Responsabilità civile, n. 300, per esteso in Resp. civ., 2008, 1882, con nota di PORRECA). Infatti, afferma che “nell’ambito della responsabilità civile lo stato di necessità si qualifica non quale esimente idonea ad escludere l’antigiuridicità del fatto ma quale ragione di responsabilità attenuata”. Quindi, valuta la condotta dell’infermiere imprudente, giacché ha “affrontato il percorso di corsa nonostante l’ingombro del corridoio e la modesta stabilità ed aderenza delle calzature che indossava” e lo condanna ad indennizzare (seppure in parte) la vittima. In altre parole, il giudicante implicitamente rimprovera all’infermiere: 1) di non aver scelto una condotta alternativa non dannosa; 2) di non aver osservato le regole di condotta seguita dalla generalità degli individui (regole che suggeriscono, in base all’esperienza di casi consimili, gli strumenti da adottare per prevenire i danni a terzi); 3) di non aver adottato le cautele più opportune dettate dalla specificità del fatto concreto.

Considerazioni conclusive

La ricostruzione della fattispecie in termini soggettivi però non convince e lascia molte zone d’ombra. Non mi sembra che l’infermiere avesse la possibilità di scegliere condotte alternative (se non quella omissiva). E l’unica regola imposta dal caso concreto era quella di soccorrere il malato. Così come l’unica cautela che avrebbe potuto adottare, forse, sarebbe stata quella di cambiarsi le calzature (difficile da ipotizzare) o scalzarsi (la qual cosa forse non avrebbe scongiurato l’incidente). Al contrario, è logico ritenere che la specificità del caso concreto richiedesse all’infermiere  di tenere una condotta assai simile a quella adottata ovvero: accorrere  al capezzale del malato (che si temeva in immanente pericolo di vita), affrontando “il percorso di corsa nonostante l’ingombro del corridoio” (che tra l’altro doveva essere sgombro da persone, perché non era orario di visita) nonostante “la modesta stabilità ed aderenza delle calzature” (che, come è noto, l’infermiere indossa perché fanno parte della sua divisa d’ordinanza).

Si può dire che la decisione in esame mostra i limiti della tesi soggettiva, che cerca di trovare un responsabile del danno inerpicandosi sui tortuosi sentieri dell’elemento psicologico deviando da quelli più praticabili e meno insidiosi indicati dalla tesi oggettiva.

Se l’esigenza dell’ordinamento è di offrire al danneggiato un indennizzo in cambio dell’interesse sacrificato, non serve restare ancorati al criterio della colpevolezza (forzando la fattispecie in maniera poco credibile), è sufficiente ricondurre eziologicamente il danno al fatto dell’infermiere, dacché lo stato di necessità (il presunto pericolo di vita di un paziente, annunciato dal grido)  ha privato il danneggiante della facoltà di scegliere liberamente la condotta da adottare, imponendogli di compiere l’unica azione possibile.