x

x

Sviluppo e configurazioni del rapporto in house tra amministrazioni aggiudicatrici

La Corte di Giustizia europea ha affermato nella storica sentenza Teckal del 1999 (causa C- 107/98) il principio che un’amministrazione aggiudicatrice (tra le quali rientra anche l’organismo di diritto pubblico per espressa previsione legislativa comunitaria) che voglia stipulare un contratto di servizi con un’altra amministrazione aggiudicatrice deve applicare la normativa relativa alle procedure ad evidenza pubblica, in quanto i due enti sono distinti sul piano formale e autonomi sul piano decisionale.

In sostanza, un mero rapporto fra amministrazioni aggiudicatici non è idoneo di per sé a far venir meno l’applicabilità della disciplina comunitaria in tema di parità di trattamento e di non discriminazione (artt. 12, 42 e 49 del Trattato UE, nonché, in caso di appalto, le direttive in materia).

La stessa sentenza, però, ha sancito la possibilità di derogare alla normativa comunitaria e di non espletare la procedura di gara per la scelta del fornitore del servizio tutte le volte in cui la persona giuridica privata, organismo di diritto pubblico alla quale l’Amministrazione pubblica affida l’incarico del servizio, sia sottoposta da parte dell’Amministrazione affidante ad un controllo analogo a quello svolto sui propri servizi e, contestualmente, abbia sempre la medesima amministrazione come proprio cliente principale (in house providing).

Successivamente, il Consiglio di Stato (parere n. 4950/2005, Ministero dell’Economia e delle Finanze – SOGEI Spa) compie un excursus in merito agli interventi giurisprudenziali, comunitari e nazionali, a proposito del rapporto in house, per poi chiedere all’Amministrazione di verificare se sussista nei confronti della Società il rapporto di “controllo analogo” necessario affinché sia ammissibile l’istituto. Il Consiglio rammenta, innanzitutto, i due criteri cumulativi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria per escludere l’applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici nel caso di contratto stipulato tra una Pubblica amministrazione e un organismo formalmente e giuridicamente distinto da essa: l’Amministrazione deve esercitare sul soggetto aggiudicatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e l’aggiudicatario deve realizzare la parte più importante della propria attività in favore dell’amministrazione che la controlla. Per la sussistenza del primo criterio, il Consiglio spiega come sembrerebbe ritenersi non più sufficiente il possesso dell’intero capitale sociale del soggetto affidatario, essendo richiesti, di volta in volta, “un’influenza determinante nelle decisioni della Società” o “un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico societario” piuttosto che la realizzazione di una “dipendenza interorganica”.

E’ intervenuta, poi, la pronuncia della V sezione del Consiglio di Stato, n. 7345/05 (depositata in segreteria il 22 dicembre 2005). In questa sentenza il Consiglio ha preso posizione circa il contenuto da assegnare, in concreto, al requisito del “controllo analogo a quello esercitato dall’Amministrazione sui propri servizi”. In particolare è stato sottolineato come la società cui il servizio è direttamente affidato non possa che determinare la propria azione mediante gli organi societari di cui è dotata, essendo una persona giuridica separata e distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice. Il Consiglio di Stato esclude, quindi, l’applicazione di un modulo che riproduca, tra Amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente.

Il Consiglio ha ritenuto che “l’ente pubblico, o gli enti pubblici, proprietari dell’intero pacchetto delle azioni, sia mediante la nomina degli organi, sia mediante l’approvazione di opportune deliberazioni, sono in condizioni di imporre, o meglio, di svolgere, ogni tipo di verifica e di rendiconto.

Tuttavia, di recente la giurisprudenza comunitaria e nazionale (Corte di Giustizia, sentenza n. C-410/04 del 6 aprile 2006 e sentenza dell’11 maggio 2006, n.C-340/04; Consiglio di Stato, sez VI, n. 168/2005, Tar Campania sez. I, 30.03.2005 n. 2784) ha precisato che il soggetto gestore deve sostanzialmente essere configurato come una sorta di longa manus dell’affidante, pur conservando natura distinta ed autonoma rispetto all’apparato organizzativo di questo: deve, in altri termini, determinarsi una sorta di amministrazione “indiretta”, nella quale la gestione del servizio, in un certo senso, resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in modo assorbente ad operare in favore di questo. Si deve, dunque, verificare se i rapporti organizzativi e funzionali tra ente e società a capitale pubblico siano tali da realizzare in concreto questa reciproca assimilazione e tale indagine dovrà incentrarsi sull’esame dell’atto costitutivo e dello statuto della società che descrivono la struttura organizzativa della compagine, nonché i controlli e le modalità di gestione della medesima.

Alla luce dei citati orientamenti, emerge, quindi, che il cd. controllo analogo ricorre nel caso in cui, tra Amministrazione pubblica e società partecipata, si possa riscontrare una relazione di vera e propria “subordinazione gerarchica”. Il controllo, infatti, non deve limitarsi ad una verifica successiva sulla gestione, attraverso l’approvazione del bilancio, né ridursi al mero esercizio del potere di nomina dei rappresentanti dell’Amministrazione in seno al Consiglio di Amministrazione della società partecipata, ma deve essere un controllo attuale, puntuale e concomitante all’attività gestionale della società, da effettuarsi anche con l’ausilio di specifici poteri ispettivi. In tal senso la sentenza n. 634/2005 del TAR del Friuli Venezia Giulia, secondo cui il controllo deve investire non soltanto gli atti di gestione straordinaria, ma anche la gestione ordinaria e gli organi stessi della società partecipata.

L’affidamento diretto di servizi pubblici a società partecipate parrebbe potersi legittimamente effettuare, qualora vengano osservati i seguenti presupposti:

a. la società deve essere ad intero capitale pubblico. La presenza, anche minoritaria, di capitale privato esclude che l’Amministrazione possa esercitare sulla stessa un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi;

b. la società deve realizzare la parte più importante della propria attività con l’Amministrazione che la controlla;

c. l’ Amministrazione deve esercitare sulla società ad intero capitale pubblico, un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Il controllo analogo ricorre quando Amministrazione eserciti un potere di direzione, coordinamento e supervisione tale da configurare la società una longa manus dell’ Amministrazione, determinando una sorta di amministrazione indiretta e garantendo, così, all’ Amministrazione un controllo assoluto sull’attività gestionale della società. Non si potrà più parlare di controllo analogo qualora la società si emancipi e si renda autonoma al punto da mettere l’Amministrazione nell’impossibilità di far valere appieno i propri interessi pubblici all’interno della società.

Da ultimo, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana - sez. giurisdizionale, 4/9/2007 n. 719 ha ribadito l’insufficienza degli usuali poteri di vigilanza e controllo e la necessità della creazione di una struttura interna all’ente, ad hoc, che costituisca l’interfaccia con l’impresa partecipata e che eserciti i poteri di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, giungendo alla conclusione che essenziali ai fini del controllo analogo sono: a) il possesso dell’intero capitale azionario; b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.

Per il Consiglio di Giustizia Amministrativa è necessario, quindi, che si realizzi quello che è definito un “controllo strutturale”.

.

Occorrerà, perciò, prevedere una forma più penetrante di controllo che investa anche gli atti di gestione ordinaria. Al potere di direttive dell’Amministrazione si dovrebbe affiancare il potere di approvazione da parte dell’assemblea degli atti di gestione ordinaria; quali, ad esempio, il piano strategico, il piano degli investimenti, il piano industriale annuale, l’organigramma.

Si rileva, però, che sebbene l’articolo 2364, comma 1, n. 5, del c.c. rimette allo statuto l’individuazione degli atti al cui compimento è richiesta l’autorizzazione da parte dell’assemblea, ad esso si contrappone l’articolo 2380 bis, secondo il quale la gestione della società spetta esclusivamente agli amministratori.

Dalla competenza dell’assemblea esula, quindi secondo il modello societario, la gestione dell’impresa. L’assemblea non può dare specifici ordini agli amministratori circa il compimento degli atti di gestione, né può sostituirsi ad essi nel deliberarli: la gestione della società è materia di competenza esclusiva degli amministratori, i quali, una volta nominati, e fino a quanto non siano stati sostituiti, esercitano in piena autonomia le loro funzioni di gestori dell’impresa sociale (F Galgano – diritto commerciale – Le società).

Inoltre, ai sensi dell’articolo 2394 del c.c. gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’articolo 2394 c.c. presuppone la divisione dei poteri fra assemblea e amministratori e, più precisamente, la esclusiva competenza degli amministratori ad esercitare l’impresa sociale e al tempo stesso, che questa esclusiva competenza non sia derogabile da parte dello statuto. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che l’avere l’amministratore agito in conformità della volontà, persino unanime, dei soci non vale ad escludere la sua responsabilità verso i creditori sociali (Cass. n. 4415/1979).

Si deve allora attribuire alle deliberazioni assembleari di cui al punto 5 del comma 1 del menzionato articolo 2364 natura di semplici pareri non vincolanti, fermo restando, quindi, la facoltà degli amministratori di uniformarsi ai deliberati assembleari.

Appare pertanto difficile se non impossibile applicare al modello societario, così come previsto dal codice civile, i criteri da ultimo elaborati dalla giurisprudenza comunitaria.

A ciò si deve aggiungere la considerazione che la Corte Costituzionale ha ritenuto il controllo della Corte dei conti (art. 12 L. 259/58) esercitatile anche nei confronti delle S.p.A. a partecipazione pubblica esclusiva o prevalente; inoltre, le controversie relative alla responsabilità per danni arrecati dai dipendenti di dette società ricadono nella speciale giurisdizione della stessa Corte dei conti, venendo in rilievo la qualificazione oggettivamente pubblica delle risorse finanziarie gestite. Se poi tali società rientrano nella categoria, di origine comunitaria, degli organismi di diritto pubblico devono essere applicate in materia di appalti le regole dell’evidenza pubblica e le relative controversie ricadono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Infine, per il disposto dell’art. 22, comma 1, lettera d, della legge n. 241 sul procedimento amministrativo sono obbligati a consentire l’accesso a documenti in loro possesso anche i privati che svolgono un’attività di pubblico interesse.

Alla luce di quanto appena osservato si tende, con una operazione di interpretazione restrittiva delle condizioni per un affidamento diretto, a burocratizzare il modello in house; quest’ultimo quindi viene a perdere di utilità, in quanto la società non avrebbe margine di autonomia decisionale e gestionale rispetto all’ente che la costituisce e la possiede.

La Corte di Giustizia europea ha affermato nella storica sentenza Teckal del 1999 (causa C- 107/98) il principio che un’amministrazione aggiudicatrice (tra le quali rientra anche l’organismo di diritto pubblico per espressa previsione legislativa comunitaria) che voglia stipulare un contratto di servizi con un’altra amministrazione aggiudicatrice deve applicare la normativa relativa alle procedure ad evidenza pubblica, in quanto i due enti sono distinti sul piano formale e autonomi sul piano decisionale.

In sostanza, un mero rapporto fra amministrazioni aggiudicatici non è idoneo di per sé a far venir meno l’applicabilità della disciplina comunitaria in tema di parità di trattamento e di non discriminazione (artt. 12, 42 e 49 del Trattato UE, nonché, in caso di appalto, le direttive in materia).

La stessa sentenza, però, ha sancito la possibilità di derogare alla normativa comunitaria e di non espletare la procedura di gara per la scelta del fornitore del servizio tutte le volte in cui la persona giuridica privata, organismo di diritto pubblico alla quale l’Amministrazione pubblica affida l’incarico del servizio, sia sottoposta da parte dell’Amministrazione affidante ad un controllo analogo a quello svolto sui propri servizi e, contestualmente, abbia sempre la medesima amministrazione come proprio cliente principale (in house providing).

Successivamente, il Consiglio di Stato (parere n. 4950/2005, Ministero dell’Economia e delle Finanze – SOGEI Spa) compie un excursus in merito agli interventi giurisprudenziali, comunitari e nazionali, a proposito del rapporto in house, per poi chiedere all’Amministrazione di verificare se sussista nei confronti della Società il rapporto di “controllo analogo” necessario affinché sia ammissibile l’istituto. Il Consiglio rammenta, innanzitutto, i due criteri cumulativi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria per escludere l’applicazione delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici nel caso di contratto stipulato tra una Pubblica amministrazione e un organismo formalmente e giuridicamente distinto da essa: l’Amministrazione deve esercitare sul soggetto aggiudicatario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e l’aggiudicatario deve realizzare la parte più importante della propria attività in favore dell’amministrazione che la controlla. Per la sussistenza del primo criterio, il Consiglio spiega come sembrerebbe ritenersi non più sufficiente il possesso dell’intero capitale sociale del soggetto affidatario, essendo richiesti, di volta in volta, “un’influenza determinante nelle decisioni della Società” o “un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico societario” piuttosto che la realizzazione di una “dipendenza interorganica”.

E’ intervenuta, poi, la pronuncia della V sezione del Consiglio di Stato, n. 7345/05 (depositata in segreteria il 22 dicembre 2005). In questa sentenza il Consiglio ha preso posizione circa il contenuto da assegnare, in concreto, al requisito del “controllo analogo a quello esercitato dall’Amministrazione sui propri servizi”. In particolare è stato sottolineato come la società cui il servizio è direttamente affidato non possa che determinare la propria azione mediante gli organi societari di cui è dotata, essendo una persona giuridica separata e distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice. Il Consiglio di Stato esclude, quindi, l’applicazione di un modulo che riproduca, tra Amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente.

Il Consiglio ha ritenuto che “l’ente pubblico, o gli enti pubblici, proprietari dell’intero pacchetto delle azioni, sia mediante la nomina degli organi, sia mediante l’approvazione di opportune deliberazioni, sono in condizioni di imporre, o meglio, di svolgere, ogni tipo di verifica e di rendiconto.

Tuttavia, di recente la giurisprudenza comunitaria e nazionale (Corte di Giustizia, sentenza n. C-410/04 del 6 aprile 2006 e sentenza dell’11 maggio 2006, n.C-340/04; Consiglio di Stato, sez VI, n. 168/2005, Tar Campania sez. I, 30.03.2005 n. 2784) ha precisato che il soggetto gestore deve sostanzialmente essere configurato come una sorta di longa manus dell’affidante, pur conservando natura distinta ed autonoma rispetto all’apparato organizzativo di questo: deve, in altri termini, determinarsi una sorta di amministrazione “indiretta”, nella quale la gestione del servizio, in un certo senso, resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in modo assorbente ad operare in favore di questo. Si deve, dunque, verificare se i rapporti organizzativi e funzionali tra ente e società a capitale pubblico siano tali da realizzare in concreto questa reciproca assimilazione e tale indagine dovrà incentrarsi sull’esame dell’atto costitutivo e dello statuto della società che descrivono la struttura organizzativa della compagine, nonché i controlli e le modalità di gestione della medesima.

Alla luce dei citati orientamenti, emerge, quindi, che il cd. controllo analogo ricorre nel caso in cui, tra Amministrazione pubblica e società partecipata, si possa riscontrare una relazione di vera e propria “subordinazione gerarchica”. Il controllo, infatti, non deve limitarsi ad una verifica successiva sulla gestione, attraverso l’approvazione del bilancio, né ridursi al mero esercizio del potere di nomina dei rappresentanti dell’Amministrazione in seno al Consiglio di Amministrazione della società partecipata, ma deve essere un controllo attuale, puntuale e concomitante all’attività gestionale della società, da effettuarsi anche con l’ausilio di specifici poteri ispettivi. In tal senso la sentenza n. 634/2005 del TAR del Friuli Venezia Giulia, secondo cui il controllo deve investire non soltanto gli atti di gestione straordinaria, ma anche la gestione ordinaria e gli organi stessi della società partecipata.

L’affidamento diretto di servizi pubblici a società partecipate parrebbe potersi legittimamente effettuare, qualora vengano osservati i seguenti presupposti:

a. la società deve essere ad intero capitale pubblico. La presenza, anche minoritaria, di capitale privato esclude che l’Amministrazione possa esercitare sulla stessa un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi;

b. la società deve realizzare la parte più importante della propria attività con l’Amministrazione che la controlla;

c. l’ Amministrazione deve esercitare sulla società ad intero capitale pubblico, un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Il controllo analogo ricorre quando Amministrazione eserciti un potere di direzione, coordinamento e supervisione tale da configurare la società una longa manus dell’ Amministrazione, determinando una sorta di amministrazione indiretta e garantendo, così, all’ Amministrazione un controllo assoluto sull’attività gestionale della società. Non si potrà più parlare di controllo analogo qualora la società si emancipi e si renda autonoma al punto da mettere l’Amministrazione nell’impossibilità di far valere appieno i propri interessi pubblici all’interno della società.

Da ultimo, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana - sez. giurisdizionale, 4/9/2007 n. 719 ha ribadito l’insufficienza degli usuali poteri di vigilanza e controllo e la necessità della creazione di una struttura interna all’ente, ad hoc, che costituisca l’interfaccia con l’impresa partecipata e che eserciti i poteri di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, giungendo alla conclusione che essenziali ai fini del controllo analogo sono: a) il possesso dell’intero capitale azionario; b) il controllo del bilancio; c) il controllo sulla qualità della amministrazione; d) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione; e) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.

Per il Consiglio di Giustizia Amministrativa è necessario, quindi, che si realizzi quello che è definito un “controllo strutturale”.

.

Occorrerà, perciò, prevedere una forma più penetrante di controllo che investa anche gli atti di gestione ordinaria. Al potere di direttive dell’Amministrazione si dovrebbe affiancare il potere di approvazione da parte dell’assemblea degli atti di gestione ordinaria; quali, ad esempio, il piano strategico, il piano degli investimenti, il piano industriale annuale, l’organigramma.

Si rileva, però, che sebbene l’articolo 2364, comma 1, n. 5, del c.c. rimette allo statuto l’individuazione degli atti al cui compimento è richiesta l’autorizzazione da parte dell’assemblea, ad esso si contrappone l’articolo 2380 bis, secondo il quale la gestione della società spetta esclusivamente agli amministratori.

Dalla competenza dell’assemblea esula, quindi secondo il modello societario, la gestione dell’impresa. L’assemblea non può dare specifici ordini agli amministratori circa il compimento degli atti di gestione, né può sostituirsi ad essi nel deliberarli: la gestione della società è materia di competenza esclusiva degli amministratori, i quali, una volta nominati, e fino a quanto non siano stati sostituiti, esercitano in piena autonomia le loro funzioni di gestori dell’impresa sociale (F Galgano – diritto commerciale – Le società).

Inoltre, ai sensi dell’articolo 2394 del c.c. gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’articolo 2394 c.c. presuppone la divisione dei poteri fra assemblea e amministratori e, più precisamente, la esclusiva competenza degli amministratori ad esercitare l’impresa sociale e al tempo stesso, che questa esclusiva competenza non sia derogabile da parte dello statuto. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che l’avere l’amministratore agito in conformità della volontà, persino unanime, dei soci non vale ad escludere la sua responsabilità verso i creditori sociali (Cass. n. 4415/1979).

Si deve allora attribuire alle deliberazioni assembleari di cui al punto 5 del comma 1 del menzionato articolo 2364 natura di semplici pareri non vincolanti, fermo restando, quindi, la facoltà degli amministratori di uniformarsi ai deliberati assembleari.

Appare pertanto difficile se non impossibile applicare al modello societario, così come previsto dal codice civile, i criteri da ultimo elaborati dalla giurisprudenza comunitaria.

A ciò si deve aggiungere la considerazione che la Corte Costituzionale ha ritenuto il controllo della Corte dei conti (art. 12 L. 259/58) esercitatile anche nei confronti delle S.p.A. a partecipazione pubblica esclusiva o prevalente; inoltre, le controversie relative alla responsabilità per danni arrecati dai dipendenti di dette società ricadono nella speciale giurisdizione della stessa Corte dei conti, venendo in rilievo la qualificazione oggettivamente pubblica delle risorse finanziarie gestite. Se poi tali società rientrano nella categoria, di origine comunitaria, degli organismi di diritto pubblico devono essere applicate in materia di appalti le regole dell’evidenza pubblica e le relative controversie ricadono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Infine, per il disposto dell’art. 22, comma 1, lettera d, della legge n. 241 sul procedimento amministrativo sono obbligati a consentire l’accesso a documenti in loro possesso anche i privati che svolgono un’attività di pubblico interesse.

Alla luce di quanto appena osservato si tende, con una operazione di interpretazione restrittiva delle condizioni per un affidamento diretto, a burocratizzare il modello in house; quest’ultimo quindi viene a perdere di utilità, in quanto la società non avrebbe margine di autonomia decisionale e gestionale rispetto all’ente che la costituisce e la possiede.