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Codice di Hammurabi e XII Tavole

Diritti dell’Oriente Mediterraneo e Diritto Romano arcaico, originalità del Diritto Quiritario
Codice di Hammurabi
Codice di Hammurabi

Il Codice Hammurabi è il testo più antico tra i codici primitivi dell’umanità. Le XII Tavole sono circa due millenni posteriori; il che vuol dire che per il romano dell’epoca delle XII Tavole, il codice di Babilonia era tanto remoto nel tempo, quanto per noi moderni sono remote le XII Tavole.

Oltre al ‟Codice di Hammurabi” (proveniente da Babilonia e risalente al 1750 a.C.), del ‟Codice di Ur-Nammu” (2100 a.C.); il Vicino oriente Antico conosce altre leggi: il ‟Codice di Lipit-Ishtar” (1900 a.C.); il ‟Codice di Eshnunna” (1770 a.C.); le ‟Leggi medioassire” (XIV secolo a.C.); le ‟Leggi Ittite” (XIII secolo); le ‟Leggi neobabilonesi” (XIV secolo).

Questo corpus normativo può essere qualificato come elenchi di casi che presentano tratti comuni; il metodo usato dalla giurisprudenza mesopotamica era esclusivamente casistico. Per questo motivo, non viene accettata l’idea che l’origine della giurisprudenza romana vada ricondotta ai codici orientali. I giuristi romani introdussero infatti, per la prima volta, concetti giuridici astratti, cui si collegò l’uso di tecniche classificatorie di origine platonica-aristotelica. Queste considerazioni comunque nulla tolgono all’importanza delle raccolte di leggi mesopotamiche come strumento di conoscenza non solo del diritto, ma della società e della cultura del vicino Oriente.

 

Prefazione

Secondo la concezione della filosofia hegeliana e delle correnti idealistiche da essa derivate la storia è il campo in cui si realizza lo spirito oggettivo, il regno della spontaneità creatrice, della libertà, dell’autonomia dello spirito, in contrapposizione alla natura, che è il regno della necessità.  A questa concezione della storia si potrebbe rispondere che l’idea dello spirito oggettivo sia una non felice astrazione filosofica e che anche la contrapposizione fra storia e natura non possa essere difesa con la decisione con cui la pone la filosofia idealistica, soprattutto dopo le ipotesi avanzate di recente intorno al divenire dell’universo e dell’uomo[1].

Secondo il De Francisci[2],  la storia si deve considerare come una creazione dello spirito soggettivo, più precisamente, quello che vive in ciascuno degli uomini, che è patrimonio di ciascuno e che ne costituisce la personalità. Questa forza individuale è quella, secondo il De Francisci, che noi vediamo agire nella storia e che in ciascuno si manifesta con varia potenza. 

Se consideriamo più da vicino questo spirito soggettivo si può constatare, in primo luogo, che la sua autonomia è il frutto di una conquista continua e progressiva, in secondo luogo, che questa autonomia incontra una serie di limitazioni in un vasto complesso di condizionalità interiori ed esteriori. Interiori, dipendenti dalle attitudini, dalle energie del singolo; esteriori, costituite dall’ambiente fisico e sociale che agisce sia direttamente sia indirettamente sulla mentalità degli uomini, ad esempio mediante credenze, tradizioni, costumi.

Da questo contrasto fra l’autonomia, che tende ad affermarsi e le condizionalità che allo spirito si oppongono, da questa concreta tensione derivante dalla polarità tra la libertà in divenire e i suoi limiti, si sviluppa un continuo flusso di correnti generatrici di un dinamismo.  Di conseguenza, nella storia, si susseguono, con vario ritmo, fasi di creazione e di innovazione, di inerzia e di stagnazione, a seconda della vigoria dello spirito e della resistenza delle condizionalità.

Secondo questa concezione della storia, solo attore e creatore, pertanto, è lo spirito umano; le situazioni, i fatti, le tradizioni, le istituzioni (cioè il complesso delle condizionalità esteriori) esercitano il loro influsso sullo spirito, e, molto spesso, ne sollecitano le attività. Tale tensione fra lo spirito umano e le condizionalità dà luogo a fenomeni continuamente variabili. Varietà dipendente non solo dal mutare delle condizionalità, ma ancora dal divenire dello spirito che, nel proprio operare, a seconda dell’energia sviluppata e dalla resistenza che gli si oppone, ora si piega e si logora, adagiandosi in atteggiamenti passivi (non riuscendo, ad esempio, a sottrarsi al peso delle tradizioni), ora crolla sotto l’azione di forze più violente, ora invece, nel contrasto, si affina e si rinvigorisce e trova nuovi modi per porsi di fronte al mondo esterno per dominarlo[3].  

Da ciò discende la conseguenza che si deve evitare dall’attribuire agli antichi i nostri procedimenti logici. Quanto più, infatti, ci si avvicina alle origini – cioè a un’epoca in cui l’uomo non possiede ancora una chiara nozione delle forze che lo circondano in cui si vanno enucleando le prime regole di condotta, in cui i procedimenti del pensiero partono da presupposti connessi con visioni magiche o mitiche della realtà e si svolgono in modi difformi da quelli del nostro ragionamento – sarebbe erroneo attribuire a quelle civiltà antiche la nostra logica e pretendere di rappresentare la loro civiltà valendosi di concetti, schemi, categorie che sono il portato della speculazione filosofica e scientifica moderna.

Non si avrebbe, con siffatto modo di procedere, la possibilità di capire le caratteristiche delle società antiche e di penetrare la natura delle loro istituzioni.  Per intendere gli ordinamenti antichi, basati su rapporti di potere, risalenti ad una fase cui non solo fanno difetto concetti giuridici ben definiti ma è estranea anche una precisa terminologia, bisogna non soltanto abbandonare le nostre costruzioni dottrinali, ma anche, si ripete, riconoscere l’inapplicabilità a quel mondo dei nostri procedimenti di pensiero.

Liberazione necessaria per porsi in grado di intendere il modo in cui il mondo arcaico realmente pensava e interpretare la vita, il costume, le istituzioni[4].

 

Diritti dell’Oriente Mediterraneo

L’espressione «Diritti dell’Oriente Mediterraneo» rappresenta la mentalità giuridica delle popolazioni, per lo più d’origine composita, stanziate nell’area geografica oggi definita Asia anteriore antica.

Le raccolte giunte sino a noi rivelano la mancanza di un’attività volta ad un processo d’astrazione che, movendo dall’individuazione di fattispecie concrete, giunga all’enunciazione di una norma astratta valevole per altrettanti casi dalle medesime caratteristiche.

Data la vasta diffusione in Oriente dell’organizzazione giuridica nella forma della città-stato, può essere fondato ritenere che sia da vedere nel sovrano uno dei capi delle miriadi di nomadi, nelle quali le città-stato si aggregano, che sia riuscito ad affermare la propria autorità sull’insieme di esse. L’atto della «codificazione» sembra costituire una forma di espressione della conseguita supremazia.

Nel raffigurarsi ispirato dalla divinità nel dar vita a quel processo, il “monarca” si pone quale luogotenente terreno della divinità che lo ispira per portare giustizia ed equità tra le genti ed offrire il sostegno ai deboli ed agli oppressi.

 

Le leggi sumere

La teoria istituzionale postula che il diritto si identifica con la società organizzata, ossia con l’istituzione[5].

La dottrina de qua pone in evidenza il fatto che non possa esistere diritto al di fuori di una organizzazione, di una società organizzata. Santi Romano, il più eminente tra i teorici istituzionalisti, sostiene che il diritto non è un prodotto sociale, perché è nella necessità che trova il fondamento. Ergo, l’istituzione non produce diritto, ma è essa stessa diritto.

Le istituzioni derivano dalla necessità di organizzare un insieme di bisogni e di esigenze sociali in maniera autonoma. Il Santi Romano pone a fondamento del concetto di istituzione gli aforismi ubi societas ibi ius e ubi ius ibi societas, intendendo affermare che non è ammissibile una società senza diritto, ovvero senza organizzazione[6].

La profonda intuizione di Santi Romano è stata confermata dagli archeologi, i quali hanno accertato che le prime tracce di diritto risalgono alla prima civiltà umana, ai Sumeri.

Il Codice di Hammurabi, infatti, il più noto tra i codici dell’antichità, risalente al XVIII secolo a.C., non è affatto il primo codice di leggi della Mesopotamia: il re babilonese, nel redigerlo, si era riferito ad una tradizione plurisecolare le cui radici affondano nel mondo sumerico della fine del terzo millennio a.C.

Il più antico codice sumero (in realtà, una raccolta di leggi), è quello di Ur-Nammu, fondatore della III dinastia di Ur, che regnò dal 2113 al 2096 a.C. sul paese di Sumer e di Akkad.  Il testo è sumero.

Un altro codice è quello di Lipit-Ishtar, re di Isin, che governò dal 1934 al 1924 a.C. su un vasto territorio comprendente anche le città di Nippur, Ur, Uruk ed Eridu.

In questo ultimo periodo, l’egemonia sumera è terminata ed i semiti stanno avendo il sopravvento, ma il Codice è redatto ancora in sumero e vi permangono ancora valori tipici della cultura di Sumer, quali, ad esempio, la ritrosia nell’applicare la pena di morte, che veniva comminata solo in casi di estrema gravità.  I Sumeri, infatti, preferivano soddisfare la vittima attraverso un congruo risarcimento per il danno subito.

Non erano previste torture, punizioni fisiche e neppure l’imprigionamento; le leggi sumere infatti sono caratterizzate da una grande mitezza. È completamente assente la legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente), che è invece alla base della legislazione semitica del Codice di Hammurabi.  All’ordalia, il giudizio divino, si ricorreva proprio quando non c’era alcun altro modo per determinare la colpevolezza dell’accusato. Non erano previste torture, punizioni fisiche e nemmeno il carcere.

 

Il Codice Hammurabi

Il Codice Hammurabi è il testo più antico tra i codici primitivi dell’umanità. Le XII Tavole sono circa due millenni posteriori; il che vuol dire che per il romano dell’epoca delle XII Tavole, il Codice di Babilonia era tanto remoto nel tempo, quanto per noi moderni sono remote le XII Tavole.

Di un millennio almeno, sono più recenti gli altri Codici dell’evo antico: la legge di Manu (XI secolo, secondo i moderni indianisti), il Codice della Cina (XI secolo), la leggendaria legislazione di Licurgo (VIII secolo), le leggi di Zaleuco, Caronda, Dracone, Solone (VII secolo), la legge di Gortina recentemente scoperta (V secolo): soltanto la legge di Mosè sarebbe non più di cinque secoli posteriore.

Nondimeno questa legge di Hammurabi non è primitiva se non per la data. Essa ci offre dinanzi una matura civiltà, di fronte alla quale il tipo arcaico delle XII Tavole risalta ancora più vivo.

Il testo presente è anche, a detta dell’illustre assiriologo tedesco Hugo Winckler[7], il documento più importante della civiltà babilonese che a noi sia pervenuto.

La scoperta di questa legge è frutto delle esplorazioni eseguite a Susa, l’antica Persepoli, in Elam dalla missione archeologica inviata dal governo francese in Persia sotto la direzione di J. Morgan.

Il testo occupa la maggior parte della stele e costituisce la ragion d’essere del monumento. È scritto in accadico con scrittura cuneiforme ed è composto da circa quattromila righe di testo (di cui se ne sono conservate circa tremilacinquecento); rappresenta un’eccezionale fonte per la conoscenza e la comprensione della situazione socio – economica del regno di Hammurabi. Il testo si apre con la dedica al dio Shamash: il sovrano, attento alla giustizia, si presenta come giusto e come buon padre per il suo popolo, che egli cura come fa il pastore con il suo gregge (tema di influenza amorrea).

Il codice è scritto con grafia arcaizzante e la scrittura procede dall’alto in basso e da destra a sinistra. Questo modo di disporre il testo è una caratteristica delle iscrizioni monumentali su pietra, più conservatrici e solenni, in cui la scrittura e la lingua sono curate con grande attenzione. Escluso alcuni paragrafi martellati di proposito dal sovrano elamita che trafugò la stele per inserirvi il proprio nome, il Codice è intatto.

Il testo è composto da un prologo, 282 paragrafi ed un epilogo: ha, quindi, la struttura di un’opera letteraria. Prologo ed epilogo sono scritti in lingua colta allo scopo di esaltare il carattere monumentale e la portata ufficiale della stele. La lingua in cui è scritta la parte legale, invece, è più vicina alla lingua comune, con un tipo di scrittura semplificata che utilizza un numero ristretto di segni affinché, come da volere del sovrano, il testo venisse compreso da tutti.

Nel prologo e nell’epilogo viene esaltata la potenza degli dei che hanno chiamato il sovrano alla regalità affinché affermasse la giustizia divina e proteggesse i deboli. Il prologo, a carattere storico, narra l’investitura del re, la formazione del suo regno e l’impegno che egli pone nella realizzazione dei suoi sudditi.

Hammurabi è sovrano del suo popolo per scelta divina, re giusto, guardiano e protettore dei deboli e degli oppressi, attento alle esigenze dei sudditi e ai riti di culto. Nell’epilogo, a carattere lirico, si parla della giustizia del sovrano e delle sue conquiste: è questa, infatti, una delle migliori fonti per la storia della formazione della potenza babilonese, attraverso cui è possibile ricostruire la cronologia relativa agli avvenimenti più importanti relativi al regno di Hammurabi.

Quanto alla struttura interna, il Codice è composto da dieci sezioni, dedicate ognuna ad un argomento differente e collegate tra loro per associazione di idee. Oltre all’elenco di leggi promulgate dal sovrano, all’interno di ogni sezione viene dedicato spazio anche alle pene da assegnare ai colpevoli di un reato.

La pena era legata allo stato giuridico del colpevole e a quello del danneggiato. La famosissima legge del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”, è compresa nella VI sezione, dedicata alle ferite corporali e ai danni alla persona. È applicata in caso di danno involontario, mentre per quello volontario sono previsti indennizzi economici. Il taglione è legato a tradizioni di origine amorrea ed entrò in vigore come tentativo da parte del sovrano di porre un freno, tramite la legge, alla tradizione antichissima e ben radicata presso le popolazioni vicino orientali di farsi vendetta da sé e in modo indiscriminato.

Si possono notare alcune caratteristiche schiettamente orientali che spiccano in questo codice, specialmente in antitesi al tipo giuridico latino: il carattere pubblico di certe condizioni e professioni – principalmente dei tamkar, commercianti o banchieri – la rigidità delle professioni e delle mercedi e il gran uso di scritture. La scrittura suggella tutto: contratti di matrimonio, obbligazioni, quietanze, donazioni, sentenze, e tutto è radicalmente nullo, senza l’uso di scritture. (Cfr. per es. art. 104, 128)[8].

Il codice è civile e criminale. Singolare è che manchi per l’appunto la parte processuale, mentre è convinzione tra gli studiosi del diritto comparato che i codici primitivi sono essenzialmente codici di procedura. Solo in relazione a norme di diritto materiale si hanno enunciati e notizie circa la parte meno formale della procedura, cioè le prove – scritture, testimoni, giuramento delle parti nel nome di Dio, che fa prova assoluta, ordalie, che in un paese di grandi fiumi consistono nel gettare in acqua la persona incolpata – le sentenze e la procedura esecutiva (sulla persona). Ma la stessa parola che dovrebbe significare giudice o assessore del giudice è oscura, e sembra, per lo meno nella maggior parte dei casi, avere il senso di testimonio.

È un codice puramente di ius; il ius divinum o il fas esula totalmente da questa legge di Hammurabi.

Degno di nota è anche il rigore con cui la forma del pensiero legislativo, proposizione ipotetica e sanzione imperativa, è costantemente serbata in tutto il corpo della legge. Con la protasi – il fatto – si apre ciascun articolo, e con l’apodosi – la sanzione – si chiude. L’ipotesi legislativa è sempre un fatto concreto e specifico.

L’opera di Hammurabi fu, a tutti gli effetti, un modello letterario: ne sono testimonianza le numerose copie in argilla ritrovate in tutta la Mesopotamia, copie in cui si riscontrano differenze interne che dimostrano l’esistenza di numerose varianti del testo originario. La stele rappresenta un’immagine del potere, il bilancio di un regno prestigioso, un testamento politico destinato ai futuri sovrani, che propone loro un modello di regno basato sulla giustizia e sull’equità. Ma quello che prevale nell’opera è l’intento propagandistico, più che quello normativo: il testo vuol rendere l’idea di un mondo ordinato, grazie al controllo del sovrano, e prospero, perché governato bene.

In realtà, infatti, i testi economici che risalgono alla stessa epoca in cui fu redatto il Codice di Hammurabi forniscono testimonianza del fatto che i prezzi di vendita/affitto menzionati dal codice non erano quelli realmente applicati, ma semplicemente quelli ideali, ritenuti “giusti”.

È come se si decidessero in modo centralizzato prezzi di affitti e case in vendita ma fossero valori puramente ipotetici. In altri termini, i prezzi di cui si parla nella stele sono dei prezzi bassi, relativi ad un regno prospero e ben governato quale avrebbe dovuto essere quello di Hammurabi, sovrano legittimo e giusto. La realtà dei fatti, però, i prezzi non coincidevano con quelli realmente applicati. Siamo di fronte, quindi, ad un testo in cui la realtà viene idealizzata e in cui si vuol dare, a chi lo legge, l’immagine di come avrebbe dovuto essere il Paese.

L’uso della scrittura era privilegio di pochi e proprio per questo, nell’immaginario collettivo, assumeva un valore quasi magico. Si credeva, di conseguenza, che tutto ciò che veniva scritto diventasse vero ed avesse, quindi, valore di verità. È questa, in conclusione, la finalità con cui venne scritto il Codice di Hammurabi[9].

 

Il Diritto Quiritario (XXII Tavole)

La comparazione fra gli istituti arcaici romani e gli istituti delle antichissime legislazioni orientali fa apparire il diritto quiritario come assolutamente indipendente da quelle legislazioni, dimostra la sua completa autonomia originaria e lo presenta come un sistema unico e caratteristico di fronte agli altri diritti dell’antichità mediterranea.

Gli istituti giuridici privati romani dell’epoca più remota hanno una struttura e delle caratteristiche proprie, inconfondibili con quelle degli istituti a noi noti degli altri popoli mediterranei dell’antichità e appaiono come un prodotto di concezioni giuridiche che riscontriamo solo presso il popolo quiritario[10]

“La comparazione storico-giuridica non va applicata per esaltare le presunte analogie; la comparazione, infatti, può risultare pericolosa se presuppone una presunta unità strutturale originaria, da cui dipenderebbero i divergenti sviluppi posteriori[11]. Il compito della comparazione tra sistemi giuridici di diverse civiltà invece risulta utile non solo per analizzare somiglianze e differenze tra le soluzioni adottate in ambiti spaziali, ma anche e soprattutto nella ricerca delle motivazioni comuni a tali soluzioni”[12].

Il diritto contenuto nelle XII Tavole ci appare come un diritto arcaico, proprio di una società primitiva a base agricola e pastorizia, vigente in un ordinamento, in cui l’autorità della civitas non statuisce ancora, dal punto di vista del diritto privato, direttamente sul singolo cittadino alieni iuris, ma solo attraverso il pater familias. È in sostanza un diritto destinato nelle sue origini a regolare la vita pubblica e privata di una città e che serberà per quasi tutto il periodo repubblicano questo fondamentale carattere. 

Il diritto del Codice di Hammurabi invece è un sistema giuridico atto a regolare la complessa vita di un impero grandioso, perfettamente organizzato, ad assicurare l’esistenza di una società ricca di commerci. Tale diritto risponde quindi ad esigenza assolutamente diverse; ha dietro di sé un lunghissimo e laborioso processo di evoluzione: regola istituti commerciali che i Romani conosceranno soltanto in epoca più recente, a distanza di molti secoli. 

Il Bonfante[13] però rilevava come nel Codice di Hammurabi, confrontato con le XII Tavole, lumeggiasse un’antitesi fra l’Oriente e l’Occidente nei rapporti economici e nei rapporti etici; il Codice decemvirale, scrive il Bonfante, è caratterizzato ampiamente per l’alta umanità e il senso di libertà. “Si sente nel codice di Hammurabi la dispotica orientale»[14]  [15].

Confrontando il diritto di famiglia Quiritario e Babilonese, si può notare come i rapporti familiari del diritto orientale appaiano fondati nelle fonti giuridiche su basi nettamente patriarcali soprattutto su vincoli di sangue oppure sulla finzione o creazione artificiale di questi vincoli.

Le antiche fonti giuridiche romane invece, sin dalle più lontane epoche, presentano la famiglia quiritaria di fronte alla civitas come un vero e proprio gruppo politico sorto per ragioni di ordine e di difesa.

Tutti i rapporti giuridici della famiglia romana, quali appaiono attraverso gli istituti quiritari, risultano fondati esclusivamente su basi gentilizie. La famiglia domestica, basata cioè su vincoli di sangue, è assai poco contemplata dall’antico diritto e vive entro l’ambito giuridico della famiglia gentilizia.

Prendiamo ad esempio istituto dell’adozione.

Nel diritto quiritario all’epoca delle XII Tavole la odoptio consiste nell’ingresso nel gruppo politico della familia di un estraneo, il quale si assoggetta alla sovranità del capo di essa, il patefamilias, divenendo a sua volta filiusfamilia di questo; dall’adoptio si distingue l’arrogatio, cioè l’assoggettamento alla sovranità del paterfamilias di un altro paterfamilias estraneo, il quale entra a far parte in qualità di filiusfamilias  della nuova familia, portandovi i suoi filii e il suo patrimonio.

Presso i Babilonesi, invece, i vari istituti denominati col termine marutu (che orientalisti e giuristi rendono col termine occidentale adozione), si presentano o come assunzione della paternità legale da parte di una persona su di un’altra, la quale acquista così diritto alla successione dell’adottante, oppure come un istituto avente per scopo l’allevamento di un fanciullo. Trattasi quindi di istituti che trovano la loro base esclusivamente nella famiglia domestica e nei vincoli di sangue.

La mârîtu, quindi, esprime il concetto di allevamento ed è posto in atto a scopi patrimoniali.  Risulta quindi chiaro il substrato economico che forma la base dell’adozione, giacché “una volta che l’adottante ha speso denaro e fatica per allevarlo, il figlio adottivo non può lasciare in asso l’adottante e tornarsene pacificamente a casa propria. Sarebbe leso quel principio di elementare giustizia che stabilisce che le prestazioni reciproche tra i contraenti debbo essere uguali, corrispondersi, principio che costituisce uno dei fulcri del diritto babilonese o assiro.” [16].

Nel paragrafo 190[17] delle leggi di Hammurabi si nota che è data facoltà all’adottato ed allievo di tornare alla casa paterna quando l’adottante non lo riguardi più come suo figlio, ciò dimostra di non tenere affatto ai suoi servizi e di rinunciare al suo diritto di ottenere la contropartita delle prestazioni. Vediamo così che l’adottato può sempre essere reclamato dalla sua famiglia o ritornarsene volontariamente alla casa paterna tranne in casi tassativamente determinati, quando si tratta di salvaguardare il rapporto patrimoniale che è a base dell’istituto.

L’istituto del matrimonio, fondamento della famiglia domestica, rappresenta uno dei più caratteristici esempi dell’autonomia delle istituzioni romane di fronte agli altri diritti dell’antichità.

Per i Romani il matrimonio è rigorosamente monogamico. L’antichissima tradizione tende ad attribuire alle mitiche leggi dei Re l’indissolubilità dell’unione coniugale e la liceità del divorzio solo in casi tassativamente fissati [18].  Manca poi nel matrimonio romano un qualsiasi accenno ad una compera della moglie. Non vi è cenno, poi, nel diritto romano, a differenza dei diritti orientali, del prezzo della donna. L’antico diritto romano conosce esclusivamente la dos, cioè l’apporto della donna alla casa maritale, istituto che discende da una concezione assolutamente opposta a quella della compravendita[19]

Il fondamento giuridico del matrimonio romano, basato sul mero consenso effettivo, continuo di entrambi i coniugi, il quale fa sorgere il vincolo coniugale senza bisogno di nessuna altra cerimonia o formalità, dà a questo istituto un carattere giuridico ed una struttura assolutamente diversi da quelli che invece presenta il matrimonio in tutti gli altri diritti dell’antichità.

Il fatto che già all’epoca delle XII Tavole è conosciuto il matrimonio non accompagnato dalla manus, come è dimostrato dall’esistenza dell’istituto dell’usus e di quello della trinoctii usurpatio è una prova che già a quell’epoca esisteva il matrimonio basato sul semplice consenso[20]

L’antico matrimonio semitico invece ha carattere poligamico, nel senso che accanto ad una prima moglie tollera l’esistenza di mogli di secondo grado. Questo principio è enunciato in vari paragrafi del Codice di Hammurabi (137; 138; 144; 145; 146), ove è ammesso che la prima moglie procacci una schiava al marito allo scopo di procurargli dei figli, i quali saranno riconosciuti legittimi (paragrafi 144; 147); l’uomo ha inoltre il diritto, ove la moglie si ammali, di prendere una seconda moglie senza ripudiare la prima.

Il fondamento del matrimonio babilonese riposa sulla compera della donna: la persona che ha in sua potestà la donna, la cede dietro pagamento al marito, il quale ne acquista la potestà.

Il matrimonio nei diritti semitici appare inoltre compiuto attraverso un contratto redatto in iscritto. Il paragrafo 128 del Codice di Hammurabi stabilisce che una donna non è moglie di un uomo sino a che questo non abbia compiuto i patti matrimoniali con essa [21].

Nel diritto romano, invece, vige il principio, affermato in numerose fonti, della non necessità del documento o di uno scritto per la validità del matrimonio[22].

L’istituto del testamento quale negozio giuridico mortis causa, destinato a trasmettere tutto o parte del patrimonio a colui o coloro che il paterfamilias intenda designare a succedergli, non risulta conosciuto nell’Oriente antico. In questo mondo giuridico si parla piuttosto di donazione, un negozio quindi destinato ad avere efficacia inter vivos. Non è chiaro se il privato possa servirsi di questo negozio per trasmettere la mera concessione o se, dei beni trasmessi, abbia riconosciuta in qualche modo la piena disponibilità.

Ne, relativamente alle obbligazioni, si rileva come i titoli al portatore e i contratti di corrispondenza, denotano come in Oriente sia vigente il principio della libertà dei contraenti di foggiare a volontà il contenuto dell’obbligazione a seconda delle circostanze. Il principio invece vigente nel diritto romano e che perdura anche in epoca avanzata è che, al di fuori delle figure tassativamente determinate, non possa sorgere il vincolo obbligatorio. In altre parole, per esprimere sinteticamente l’antitesi, i diritti orientali, come i nostri diritti moderni, conoscono il concetto della obbligazione; il diritto romano conosce soltanto singole obbligazioni.

 

[1] E. Severino, “Legge e caso” Adelphi, 1979: “L’ esistenza del divenire è l’evidenza originaria dell’Occidente, e l’Occidente evoca gli immutabili appunto per dominare il divenire. È quindi inevitabile che questa forma di dominio – che, attraverso l’evocazione degli immutabili giunge a cancellare il divenire sul fondamento del riconoscimento più perentorio dell’esistenza del divenire – finisca per mostrare il proprio carattere onirico e quindi la propria impotenza rispetto agli eventi che, sopraggiungendo, lacerano la rete degli immutabili e irrompono nell’esistenza come imprevedibilità e novità radicali e quindi come minaccia estrema e mantenuta”.

Il pensiero del divenire, sorto con la sapienza greca, è pensiero di ciò che proviene dal niente e al niente ritorna, ciò che muta in continuazione ed è illusorio pretendere di fermare. Un così lungo scacco della ragione scientifica nel senso moderno, sorta soltanto negli ultimi trecentocinquant’ anni, pensa Severino, non è dovuto ad una qualche prematurità o immaturità dello spirito umano ma all’ angoscia, generata dalla radicale scissione fra “verità”, ovvero ciò che è saldo ed immutabile, poiché se mutasse potrebbe esistere un altrimenti della verità il che è impossibile, e la pretesa di essere degli enti che vengono dal niente ed in esso si annientano nuovamente, ed incessantemente.

[2]  P. De Francisci,  Primordia civitatis, Lateran University Press, 1959

[3] P. De Francisci, Spirito della civiltà romana. Ne ignorent semina matrem, rist. 2020

[4] Per il pensiero primitivo, si vedano i saggi di H. e H.  A. Frankfort, J. A. Wilson, T. Jacobsen, W. A. Irwin, in La filosofia prima dei greci, Einaudi 1963.

[5] Teoria giuridica, elaborata in Francia da M. Hauriou e in Italia da S. Romano, che concepisce l’ordinamento giuridico come organizzazione (istituzione), rifiutando la definizione normativista del diritto. Ciò che per l’istituzione caratterizza un ordinamento è la preesistenza, all’interno di un gruppo sociale, di un’organizzazione finalizzata a stabilire l’ordine, che preesiste alle norme e costituisce il parametro a cui va fatto riferimento per l’interpretazione delle norme stesse.

[6] Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946,   Pensiero: vedeva una società di società, una società organizzata per gruppi. Questo tipo di impostazione antropologica influisce sulla teoria del diritto. Santi romano riprende una tesi di Kant, il quale sostiene che una volta che si forma una società civile, tutto il diritto è diritto pubblico, anche il diritto privato, che è un diritto posto da determinate autorità. Santi romano riconduce il diritto alla società, riprende espressioni conosciute dalla cultura giuridica romana" ubi societas ibi ius", diritto e società coincidono, il diritto è fatto di una serie di ingranaggi, di una serie di cose che vengono prima delle norme, l’elemento fondamentale, originario è l’organizzazione. Il diritto nasce là dove c’è un gruppo sociale che si organizza. Affinché ci sia il diritto c’è bisogno di un gruppo sociale, di un gruppo di individui che si organizzano in una qualche maniera.

[7] H. Winckler Gesetze Hammurabis, 1904

[8] Codice Hammurabi Paragrafo 104: Se un negoziante affida ad un commissionario per lo spaccio frumento, lana, olio od altra merce, il commissionario dovrà fare una scrittura sull’importo e rimborsare il negoziante. Egli dovrà allora ricevere la quietanza del denaro che dà al mercante. Codice Hammurabi Paragrafo 128: Se alcuno prende una moglie, ma non conchiude un contratto con essa, questa donna non è moglie.

[9] Roth M. T., Law Collections from Mesopotamia and Asia Minor, Atlanta, Scholar Press, 1995, pag. 71 e ssg.

[10] De Francisci, Ancora dei diritti orientali, pag. 4: studiando il carattere nazionale del popolo e del diritto romano, nega che fino al 2° secolo A. C. si siano avute influenze elleno-orientali sul diritto romano

[11] A. Pizzorusso, Sistemi giuridici comparati, Milano 1995, XXII. Cfr. Piattelli, Introduzione a Volterra.

[12] F. P. Casavola, Dal Diritto romano al diritto europeo, Napoli 2006, pag. 12

[13] P. Bonfante, Il Codice di Hammurabi, e le XII Tavole, 1926

[14] De Francisci, Legge delle dodici tavole (Enc. giur. ital. vol. IV, pag. 49). L’Autore pone in luce come i popoli orientali e soprattutto i popoli semitici siano « retti a regime teocratico e dispotico perdurante” e come in essi “ e il diritto e l’ amministrazione del giustizia mantengono essenzialmente carattere religioso e sacerdotale: ben diversa invece può e deve essere stata l’evoluzione del diritto presso i popoli di civiltà greco-romana, nella quale lo stato è creato su basi cittadine e nella quale ogni movimento politico e giuridico è dominato dallo spirito di libertà”

[15] G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pag. 88. “Per altro, rozze come erano le dodici tavole in un punto superavano  il Codice di Hammurabi: in quanto esse, con lievi eccezioni poco dopo abolite, sancivano l’uguaglianza di tutti gli uomini liberi davanti alle leggi civili e cercavano nella legge promulgata nell’ interesse del popolo e convalidata dal suo voto il fondamento della vita dello Stato;  laddove presupposto del codice babilonese è che sussista un potere superiore alla legge stessa, quello del Re, di cui tutti in certa guisa son servi e che fa leggi non per delegazione del popolo, ma sia pure nell’interesse dei sudditi, di propria autorità o per diretta ispirazione divina”.

[16] G. Furlani, Alcune considerazioni sull’adozione nelle leggi di Hammurabi, Milano, 1930, pag. 76.

[17] Paragrafo 190 Codice Hammurabi -  Se alcuno non tiene tra i suoi figliuoli un fanciullo che ha preso e allevato come figlio, l’adottato può ritornare nella sua casa paterna.

[18] E. Volterra, Diritto romano e diritti orientali, 1999 Napoli, pag. 110.

[19] P. Bonfante, Corso di diritto romano, Vol. I, Roma, 1925, pag. 46 e segg.

[20] S. Di Marzio, Lezioni sul matrimonio romano, Palermo, 1919, pag. 62 e segg.

[21] Codice di Hammurabi, paragrafo 128:  Se alcuno prende una moglie, ma non conchiude un contratto con essa, questa donna non è   moglie.

[22] Quint., Inst. Or. V, 11, 32

  •  Severino, Legge e caso” Adelphi, 1979
  •  De Francisci,  Primordia civitatis, Lateran University Press, 1959
  •  De Francisci, Spirito della civiltà romana. Ne ignorent semina matrem, rist. 2020
  •  De Francisci, Ancora dei diritti orientali, pag. 4
  •  De Francisci, Legge delle dodici tavole (Enc. giur. ital. vol. IV, pag. 49
  • H. e H.  A. Frankfort, J. A. Wilson, T. Jacobsen, W. A. Irwin, in La filosofia prima dei greci, Einaudi 1963.
  •  Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946
  • M. T. Roth,  Law Collections from Mesopotamia and Asia Minor, Atlanta, Scholar Press, 1995, pag. 71 e ssg.
  •  Pizzorusso, Sistemi giuridici comparati, Milano 1995, XXII. Cfr. Piattelli, Introduzione a Volterra.
  •  P.  Casavola, Dal Diritto romano al diritto europeo, Napoli 2006, pag. 12
  •  Bonfante, Il Codice di Hammurabi, e le XII Tavole, 1926
  •  Bonfante, Corso di diritto romano, Vol. I, Roma, 1925, pag. 46 e segg.
  •  De Sanctis, Storia dei Romani, vol. II, pag. 88.
  •  Furlani, Alcune considerazioni sull’adozione nelle leggi di Hammurabi, Milano, 1930, pag. 76.
  •  Volterra, Diritto romano e diritti orientali, 1999 Napoli, pag. 110.
  •  Di Marzio, Lezioni sul matrimonio romano, Palermo, 1919, pag. 62 e segg.