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Il capitalismo non è il problema, è la soluzione

La forza del capitalismo
La forza del capitalismo
La forza del capitalismo

Rainer Zitelmann

La forza del capitalismo

2018

 

PERCHÈ LEGGERE QUESTO LIBRO

Rainer Zitelmann, storico tedesco noto a livello internazionale, accompagna il lettore in un viaggio attraverso i continenti e la storia recente per confutare il mantra “il mercato ha fallito, abbiamo bisogno di un maggiore intervento del governo” che i media e gli intellettuali ripetono senza posa fin dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Il capitalismo, spiega l’autore, ha risolto una serie enorme di problemi in tutto il mondo, e pure oggi ha più successo che mai. Per dimostrare questa tesi Zitelmann paragona le eclatanti differenze di sviluppo fra la Cina che si è aperta al mercato e la Cina ai tempi di Mao, tra la Germania occidentale e quella orientale, fra la Corea del Sud e quella Nord, tra il liberista Cile e il socialista Venezuela. Racconta poi il successo delle riforme di mercato in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Svezia. Il libro è molto utile come promemoria per le nuove generazioni, che rischiano di perdere la consapevolezza del legame indissolubile che esiste tra la prosperità e la libertà economica.

 

Riassunto

Il verdetto dell’esperienza storica

Il collasso dei regimi comunisti alla fine degli anni ‘80 sembrava aver definitivamente dimostrato la superiorità del sistema capitalista, nel quale i mezzi di produzione sono posseduti privatamente e gli imprenditori producono i beni richiesti dai consumatori facendosi guidare dai prezzi di mercato, su quello socialista, nel quale i mezzi di produzione sono posseduti dallo Stato e le decisioni produttive vengono prese dai funzionari pubblici. In verità il risentimento anticapitalista non è mai scomparso del tutto, ed è ricomparso con particolare vigore dopo la crisi finanziaria del 2008, interpretata quasi unanimemente da politici, intellettuali e giornalisti come un fallimento del mercato rimediabile solo con l’intervento statale. Per molte persone, il termine “capitalismo” è tornato ad essere una parolaccia.

The Power of Capitalism è stato scritto per confutare questa visione errata, che rischia di minare le basi su cui si fonda la nostra prosperità. Il libro però non affronta l’argomento da un punto di vista teorico, ma analizza la storia economica degli ultimi ottant’anni con un approccio empirico. In nessun Paese, infatti, il capitalismo e il socialismo esistono in forma pura, tuttavia l’esperienza storica dimostra che un Paese è tanto più prospero quanto più libera è la sua economia. Non esistono eccezioni a questa regola.

Purtroppo sembra che tante persone siano incapaci di trarre conclusioni generali dall’esperienza storica. Malgrado i numerosi esempi di straordinaria prosperità portata dal capitalismo e il fallimento di ogni singola variante di socialismo testata in condizioni reali, molti ancora si rifiutano di imparare l’ovvia lezione. Perfino negli Stati Uniti troppi giovani si dichiarano attratti dal socialismo. Le loro uniche conoscenze storiche sull’argomento provengono da manuali scolastici che di solito affrontano molto superficialmente le ragioni del disastro politico ed economico dei regimi socialisti. A mano a mano che i loro fallimenti scompaiono dalla memoria vivente, le nuove generazioni rischiano di perdere la consapevolezza del legame indissolubile che esiste tra la prosperità e la libertà economica.

 

Cina: dalla carestia di massa alla potenza industriale

La storia cinese dal dopoguerra a oggi è la più emblematica. Quando Mao Zedong prese il potere nel 1949, decise di trasformare la Cina nel più avanzato esempio di socialismo. Nel 1957 proclamò il Grande Balzo in Avanti, un gigantesco piano di sviluppo accelerato del Paese attraverso la collettivizzazione integrale delle campagne. Nei villaggi di tutta la Cina fu abolito ogni tipo di proprietà privata, e i contadini furono costretti a lavorare nelle comuni. Queste misure portarono però, contrariamente alle attese, a un crollo verticale della produzione agricola e a una spaventosa carestia, probabilmente la peggiore della storia umana. Tra il 1958 e il 1962 morirono prematuramente circa 45 milioni di cinesi, per la fame o in conseguenza delle violenze che accompagnarono il processo di collettivizzazione. Alla fine Mao fu costretto a interrompere il Grande Balzo in Avanti, ma nel 1966 lanciò un’altra disastrosa campagna politica, la Rivoluzione Culturale, durante la quale milioni di persone accusate di propagandare idee borghesi furono umiliate in pubblico, torturate, spedite nei campi di lavoro o uccise.

I successori di Mao, dopo la sua morte nel 1976, compresero che, di fronte alla catastrofica situazione economica della Cina, occorreva cambiare rotta. «Più vedo il mondo – disse Deng Xiaoping di ritorno dai suoi numerosi viaggi all’estero che fece in quel periodo – più mi rendo conto di quanto siamo arretrati». I vertici del governo cinese tuttavia non si convertirono al capitalismo, e non approvarono alcun passaggio immediato dall’economia pianificata all’economia di mercato. Il processo di transizione si sviluppò invece dal basso in maniera informale. Nelle campagne i contadini reintrodussero di fatto la proprietà privata aggirando le leggi comuniste, e nel 1983 il processo di decollettivizzazione dell’agricoltura cinese poteva dirsi completato. Vi fu poi un grandioso processo di ascesa dei lavoratori autonomi tollerato dalle autorità. Milioni di cinesi si resero conto che svolgendo un business in proprio potevano accrescere i propri redditi e la propria libertà: un barbiere privato, infatti, guadagnava più di un medico chirurgo statale; un venditore ambulante più di uno scienziato nucleare.

Per far fronte ai tentativi di emigrazione di massa nella colonia britannica di Hong Kong, i cui redditi erano cento volte più alti, le autorità cinesi istituirono nei suoi dintorni delle Zone Economiche Speciali, nelle quali vigeva l’economia di mercato. Il successo fu clamoroso: il distretto di Shenzen, abitato da non più di 30.000 persone per lo più dedite alla pesca, divenne una gigantesca metropoli industriale con 12,5 milioni di abitanti il cui reddito era mediamente il triplo di quello del resto della Cina. Finalmente, nel 1992, il Partito Comunista Cinese proclamò la liceità dell’economia di mercato. In conseguenza di ciò, una fiumana di funzionari, insegnanti e ingegneri lasciò il posto pubblico per lavorare nel settore privato: solo in quell’anno diedero le dimissioni 120.000 dipendenti statali.

Oggi la Cina è diventata una potenza economica mondiale, e nel 2016 ha superato gli Usa e la Germania come maggior esportatore mondiale. Difficilmente però si può dare il merito di questi risultati ai suoi governanti. Le innovazioni economiche cruciali non furono concepite negli uffici del comitato centrale del partito, ma nelle teste di un numero imprecisato di agenti economici locali, che in molti casi sfidarono le regole ufficiali. Il miracolo economico cinese, spiega il professor Zhang Weiying di Pechino, è avvenuto malgrado la persistente influenza dello Stato, e non grazie ad essa.   

 

Africa: contro la povertà il capitalismo è meglio degli aiuti

Il continente africano continua a dare di sé immagini contrastanti. Dal 1990 la povertà è scesa dal 56,8% al 42,7% della popolazione, ma ancora oggi c’è un 20% di africani che non si nutre in maniera adeguata. Per decenni gli aiuti dell’Occidente all’Africa sono stati visti come un obbligo morale per riparare i peccati del colonialismo, ma i risultati economici di queste politiche sono stati molto deludenti. L’economista zambiana Dambisa Moyo ha fatto notare che la povertà in Africa è cresciuta dall’11% al 66% tra il 1970 e il 1998, quando la politica degli aiuti dall’Africa raggiunse il suo apice. Gli aiuti dall’estero generano corruzione e dipendenza, inibendo il funzionamento dell’economia di mercato. I governi, infatti, usano gli aiuti allo sviluppo per sussidiare dei vasti e improduttivi settori pubblici.

Anche l’economista keniano James Shikwati ha affermato: «Se l’Occidente cancellasse gli aiuti, nessun africano comune se ne accorgerebbe. Solo i funzionari statali si sentirebbero colpiti. Gli aiuti allo sviluppo deprimono lo spirito imprenditoriale di cui abbiamo disperatamente bisogno. Per quanto possa sembrare assurdo, gli aiuti sono una delle ragioni dei problemi dell’Africa». Perfino la popstar Bono degli U2, che in passato aveva organizzato degli imponenti festival musicali per aiutare l’Africa, ha cambiato idea di fronte all’evidenza dei fatti, e nel 2013 ha dichiarato: «Il commercio e il capitalismo imprenditoriale tolgono dalla povertà più persone degli aiuti».

Nella classifica delle libertà economiche la maggioranza dei Paesi africani occupa posizioni molto basse. Malgrado ciò, negli ultimi anni l’Africa ha visto emergere una classe media di almeno 150 milioni di individui impegnati in attività imprenditoriali. Il più celebre è il sudanese Mo Ibrahim, il quale ha realizzato la più grande rivoluzione dalla fine del colonialismo diffondendo la telefonia mobile, la cui penetrazione è esplosa in un decennio dal 15% all’85% della popolazione africana. L’Africa ha bisogno soprattutto di esempi come questi. I giovani devono sognare di arricchirsi svolgendo attività produttive nel settore privato, invece che attraverso la corruzione nel settore pubblico.

 

Germania: con una Trabant non puoi sorpassare una Mercedes

Dopo la seconda guerra mondiale la divisione in due parti della Germania ha permesso di testare, in un esperimento sociale su vasta scala, i due modelli economici alternativi, quello socialista e quello basato sul mercato. Nella parte orientale occupata dai sovietici il governo comunista instaurò un’economia di Stato attraverso la nazionalizzazione delle industrie e dell’agricoltura. Queste politiche provocarono gravi carenze dei beni di consumo, che spinsero i tedeschi orientali a rivoltarsi o ad emigrare verso ovest al ritmo di decine di migliaia di persone al mese. Nel 1953 una rivolta popolare causata dal malcontento venne repressa dai carri armati sovietici, che fecero dai 50 ai 100 morti. Nell’agosto del 1961 già 2,74 milioni di tedeschi orientali erano fuggiti in Germania Ovest. Per prevenire questa emorragia di popolazione le autorità della Germania orientale presero la decisione disperata di costruire un muro invalicabile tra Berlino Est e Berlino Ovest.

Nella Germania occidentale, fortunatamente, le cose erano andate molto meglio. Nel giugno 1948 il ministro dell’economia Ludwig Erhard, deciso a reintrodurre l’economia di mercato, prese la coraggiosa decisione di abolire di colpo, contro il parere delle forze d’occupazione alleate, tutti i controlli sui prezzi introdotti dal regime nazionalsocialista. Il risultato delle sue riforme liberiste fu uno dei più impressionanti miracoli economici della storia. Tra il 1948 e il 1960 il Pil aumentò mediamente del 9,3% all’anno, e dal 1961 al 1973 continuò ad aumentare del 3,5% all’anno. Contro ogni pronostico, un Paese completamente distrutto dalla guerra divenne una potenza economica mondiale.

Nel 1989, alla caduta del Muro di Berlino, le differenze tra le due Germanie erano abissali. Nel regime totalitario e poliziesco dell’est solo il 16% della popolazione, per lo più i funzionari privilegiati, possedeva il telefono, contro la quasi totalità dei tedeschi occidentali. Ma il simbolo più evidente della distanza tra i due modelli economici era l’industria automobilistica. Dopo un’attesa di 12-17 anni dalla prenotazione i tedeschi orientali potevano avere una Trabant, un’auto dal design deprimente dotata di un motore a due tempi con una potenza di soli 26 cavalli. Con una macchina del genere non puoi sperare di sorpassare una Mercedes.

 

Corea: i mercati sono più saggi di Kim Il-sung

Come in Germania, anche in Corea la Guerra fredda ha prodotto la divisione del Paese in due diversi sistemi economici, comunista a nord e capitalista a sud. La Corea del Nord è sempre rimasta un Paese chiuso, totalitario, militarizzato e poverissimo, con un reddito pro-capite presunto di 583 dollari. Il Paese è stato spesso devastato dalle carestie. Nella più recente, avvenuta nel 1996, sono morte di fame secondo le cifre ufficiali 200mila persone (tre milioni secondo alcune agenzie umanitarie). Oggi il regime comunista, nel quale il culto della personalità del dittatore Kim Jong-un raggiunge livelli parossistici, rimane in piedi solo grazie a un permanente stato di emergenza e di assedio.

Eppure nel 1953, al termine della guerra provocata dall’invasione delle truppe comuniste, la Corea del Nord partiva avvantaggiata, dato che la Corea del Sud era un Paese agricolo completamente privo di risorse naturali. Tutti i depositi di minerali (ferro, oro, rame, piombo, zinco, grafite, molibdeno, calcare e marmo) si trovavano nel nord della penisola, mentre la Corea del Sud era uno dei paesi più poveri del mondo, con livelli di reddito analoghi all’Africa subsahariana. Solo all’inizio degli anni ‘60, con le riforme di mercato del padre del miracolo economico coreano, Park Chung-hee, l’economia cominciò a migliorare.

A seguito della crisi finanziaria del 1997-1998, la Corea del Sud ha liberalizzato il settore finanziario e bancario, aprendosi completamente agli investimenti esteri. Anche il sistema scolastico sudcoreano, uno dei migliori del mondo, si basa prevalentemente sul mercato: l’80% dell’istruzione superiore è privata, e ben otto università sudcoreane sono presenti nella classifica delle 100 università più innovative del mondo. Oggi i sudcoreani godono di un reddito pro-capite di 27.500 dollari, paragonabile a quello dei paesi europei. La Corea del Sud è l’ottavo maggior Paese esportatore del mondo, e marchi come Samsung, Hyundai e LG sono celebri a livello internazionale. Il confronto tra le due Coree rappresenta l’esempio più lampante del fallimento del socialismo e della potenza del capitalismo.

 

Le riforme di mercato della Thatcher e di Reagan

Ogni tanto le economie di mercato hanno bisogno di essere rimesse in carreggiata con delle riforme radicali, perché le persone tendono a perdere di vista le cause della ricchezza e della povertà. È il caso del Regno Unito, un Paese che nel dopoguerra aveva preso una strada diversa rispetto all’Europa continentale. La vittoria del Partito Laburista alle elezioni del 1945 aveva dato il via a un massiccio programma di nazionalizzazioni, che non era stato messo in discussione dai governi conservatori successivi. In totale un quinto dell’economia britannica venne statalizzata. Come risultato, durante gli anni ‘50 e ‘60 la crescita dell’economia inglese fu più bassa rispetto a quella della Germania o di altri paesi europei. Negli anni ‘70 la situazione economica si fece davvero grave, al punto che l’Inghilterra veniva chiamata “il malato d’Europa”. I sindacati spadroneggiavano e la produttività era in picchiata. In quel decennio ci furono oltre 2000 scioperi all’anno, che portarono alla perdita di 13 milioni di giorni lavorativi.

Nel maggio del 1979 la vittoria elettorale del Partito Conservatore guidato da Margareth Thatcher segnò un netto cambiamento. La Thatcher aveva maturato idee liberali durante il disastro economico degli anni ‘70, ed era decisa a sfidare i sindacati. Le sue prime misure furono l’abolizione dei controlli sui prezzi, una politica monetaria disinflazionistica, l’abbassamento delle aliquote fiscali e la riduzione del debito pubblico, che calò dal 54,6% del 1980 al 40,1% del 1989. Nel suo secondo mandato privatizzò numerose compagnie statali come British Telecom, British Airways, British Petroleum, la Rolls Royce, la Jaguar, i cantieri navali, le case popolari e numerose aziende locali fornitrici di servizi. La produttività delle aziende privatizzate aumentò considerevolmente, con un conseguente calo dei prezzi: dieci anni dopo la privatizzazione, i prezzi delle telecomunicazioni si erano dimezzati. Queste riforme ebbero un tale successo da essere imitate da oltre cento paesi nel mondo, e proseguite negli anni ‘90 dal laburista Tony Blair.

Anche negli Stati Uniti l’economia si era deteriorata durante gli anni ’70 a causa degli alti livelli d’inflazione e disoccupazione, anche se non in maniera così grave come in Inghilterra. Nel novembre 1980 il repubblicano Ronald Reagan vinse a valanga le elezioni contro l’ex presidente democratico Jimmy Carter, e nel suo messaggio inaugurale presentò il suo programma con una frase molto chiara: “Il governo non è la soluzione dei nostri problemi, ma è il problema”. Anche Reagan abbassò le aliquote fiscali e adottò una politica disinflazionistica. I risultati non si fecero attendere.

Tra il 1983 e il 1989 la crescita economica fu mediamente del 3,8% all’anno, e alla fine del secondo mandato l’economia americana era più grande di un terzo rispetto all’inizio. Nello stesso periodo furono creati 17 milioni di nuovi posti di lavoro e il reddito medio aumentò di 4000 dollari a famiglia, dopo aver ristagnato negli otto anni precedenti. La entrate fiscali, malgrado il taglio delle aliquote (o meglio, grazie ad esse) aumentarono del 59% tra il 1981 e il 1989. Il sogno americano della mobilità sociale si avverò negli anni di Reagan: l’86% delle famiglie che nel 1981 facevano parte del quintile più povero salì nel 1990 al quintile più ricco. Grazie alle riforme reaganiane l’America tornò forte e fiduciosa di sé, in grado di vincere la Guerra fredda.

 

Perché i cileni sono più ricchi dei venezuelani?

Il tenore di vita dei cileni è oggi molto più alto di quello dei venezuelani. Non a caso, il Cile si trova al 20° posto su 180 paesi nella classifica 2018 delle libertà economiche, mentre il Venezuela è al penultimo posto, davanti solo alla Corea del nord e alle spalle perfino di Cuba. Mentre i cileni non sono mai stati così prosperi, i venezuelani soffrono per l’inflazione, il declino economico e l’oppressione politica. Eppure nei primi anni ’70 la situazione era opposta. I cileni si dibattevano in una terribile crisi economica mentre i venezuelani erano i più prosperi dell’America Latina: nel 1970 il Venezuela era il 20° Paese più ricco del mondo con un pil pro-capite poco inferiore a quello del Regno Unito.

Il 1998, con l’elezione a presidente di Hugo Chavez, può essere considerato l’anno dell’inizio della rovina. In quel periodo la sinistra mondiale aveva bisogno di una nuova figura di riferimento dopo la fine dei regimi comunisti, e per molti intellettuali occidentali Chavez divenne il messia del “socialismo del XXI secolo”. Poiché la sua presidenza coincise con il picco del prezzo del petrolio di cui il Venezuela è ricchissimo, l’esperimento socialista partì in condizioni favorevoli. Ma oltre a distribuire le rendite petrolifere per acquisire il consenso, Chavez nazionalizzò buona parte dell’economia, preparando così le condizioni per il disastro economico.

I nodi vennero al pettine dopo la sua morte nel 2013, sotto il successore Nicolas Maduro, che accelerò la statalizzazione delle attività economiche, i controlli dei prezzi e l’inflazione monetaria. La produzione crollò o si arrestò completamente, proprio mentre i prezzi del petrolio cominciarono a scendere. Gli effetti fatali delle politiche socialiste di Chavez divennero evidenti. I beni di consumo scomparvero dai negozi, e nel maggio del 2018 l’inflazione arrivò al 14.000%. Tra il 2015 e il 2016 la mortalità infantile è cresciuta del 33%, e il 73% della popolazione ha perso mediamente 8,7 chili di peso a causa della denutrizione. Per fronteggiare le crescenti proteste popolari, Maduro ha assunto poteri dittatoriali e abolito la libertà di stampa. Tra il 2013 e il 2017 il suo regime ha ucciso più 120 persone nella repressione delle manifestazioni anti-governative. Il “socialismo del XXI secolo” non sembra molto diverso, negli esiti, dai socialismi del secolo scorso.

Nel 1970 anche il Cile aveva preso questa china disastrosa. Il neoeletto Salvador Allende aveva instaurato un sistema marxista, nazionalizzando l’80% dell’economia, fissando i prezzi dei generi alimentari di base, collettivizzando l’agricoltura e aumentando la spesa pubblica e l’inflazione. L’economia collassò completamente, e vasti scioperi e proteste si diffusero in tutto il Cile. Nel settembre del 1973 l’esercito depose Allende, che si suicidò. Negli anni successivi la dittatura militare guidata dal generale Augusto Pinochet, pur essendo antidemocratica e fortemente repressiva nei confronti degli oppositori, adottò una politica economica sorprendentemente liberale consigliata da alcuni economisti dell’università di Chicago, i cosiddetti “Chicago boys”.

Le aziende nazionalizzate furono riprivatizzate, le tasse abbassate, l’inflazione crollò dal 600% nel 1973 al 9,5% del 1981, il tasso di crescita economica passò nello stesso periodo da –4,3% a +5,5% e le esportazioni triplicarono. I salari reali, che nel 1973 erano calati del 25%, nel 1981 erano aumentati del 9%. Negli ultimi trent’anni l’economia cilena è cresciuta a un tasso medio annuo vicino al 5%. Oggi il Cile vanta un pil pro-capite doppio di quello del Brasile ed è uno dei Paesi con l’economia più aperta e competitiva nel mondo. 

 

Svezia: il mito del socialismo nordico

La Svezia viene indicata spesso come un modello di socialismo di successo, ma non è corretto considerarla un Paese socialista. Grazie alle riforme liberali iniziate negli anni ‘90, la sua economia è una delle più orientate al mercato che vi siano al mondo: nella classifica mondiale 2018 delle libertà economiche si piazza al 15° posto, precedendo di molto la Corea del sud (27°) o la Germania (25°).  È vero che le imposte sul reddito sono ancora alte, malgrado siano state ridotte rispetto ai picchi dei decenni passati, ma le tasse sulle successioni, sui patrimoni e sui guadagni di capitale sono state abolite.

La Svezia era diventata un Paese prospero tra il 1870 e il 1936 grazie alla libertà economica e a una ridotta tassazione, che gli aveva assicurato una crescita media più elevata di qualsiasi altro Paese europeo. Nei decenni successivi il partito Socialdemocratico introdusse alcune politiche assistenziali, ma la vera e propria espansione vertiginosa del welfare state si ebbe negli anni ‘70 e ‘80. In questo periodo la crescita economica della Svezia si ridusse notevolmente. Il programma socialdemocratico soffocò l’economia svedese, inducendo i suoi migliori imprenditori a emigrare all’estero, come il fondatore dell’Ikea Ingvar Kamprad, che furioso per la tassazione confiscatoria nel 1974 si trasferì in Svizzera, per ritornare in patria solo nel 2013. Anche la scrittrice Astrid Lindgren e il regista Ingmar Bergman subirono gravi soprusi dal fisco svedese.

A partire dal 1991 ci fu però una reazione agli eccessi del welfare state, che portò a una serie di riforme liberali. Le imposte sulle imprese furono ridotte dal 57% al 30%, e la percentuale della spesa pubblica sul pil scese, tra il 1990 e il 2012, dal 61,3% al 43,2%. Come risultato, dopo il 1991 la crescita economica svedese è stata più alta di quella della Germania, della Francia o dell’Italia, e oggi la Svezia è uno dei pochi Paesi al mondo che rispetterebbe i parametri di Maastricht. Non è più, se mai lo è stata, un modello socialista.  

 

Perché agli intellettuali non piace il capitalismo

A dispetto di questi dati di fatto, l’avversione per il capitalismo rimane diffusissima tra gli intellettuali. Un fattore chiave di questa ostilità è l’incapacità di comprendere e accettare l’idea di ordine spontaneo. Il capitalismo infatti evolve spontaneamente dal basso, un po’ come il linguaggio, invece di essere decretato dall’alto. Il socialismo, essendo un costrutto teorico creato dalla mente e successivamente calato nella realtà, è molto più affine al modo di pensare degli intellettuali, per i quali è difficile immaginare che l’economia e la società possano funzionare senza essere progettate e guidate dagli esperti.

Vi è poi, da sempre, un elemento di invidia e di rivalità nei confronti degli uomini d’affari. Gli intellettuali non riescono ad accettare l’idea che il mercato possa retribuire più lautamente delle persone meno colte o meno eloquenti di loro. Ma la ragione principale del rifiuto del capitalismo è probabilmente un’altra: gli intellettuali sopravvalutano la conoscenza acquisita rispetto alla conoscenza implicita. Vi sono infatti due tipi di conoscenza: la prima è il risultato di un’acquisizione conscia e sistematica attraverso lo studio formale; la seconda è una conoscenza che si impara sul campo, ed è spesso difficilmente comunicabile. A questo tipo di conoscenza appartengono le abilità imprenditoriali, che non si possono imparare frequentando dei corsi accademici.

L’anticapitalismo rimane quindi il pilastro della religione secolare della grande maggioranza degli intellettuali. Si potrebbe dire che l’avversione per il mercato è l’atteggiamento che identifica il loro status di gruppo: nella critica al capitalismo si riconoscono l’un l’altro come membri della stessa comunità. Questo atteggiamento rivela l’elevato grado di conformismo del ceto intellettuale.

 

Appello urgente per riforme capitaliste

Esistono molti libri che spiegano perché il capitalismo funziona. Per quanto siano interessanti, queste spiegazioni teoriche hanno giocato un ruolo minore in questo libro. La risposta alla domanda “Perché il capitalismo?” è molto semplice: perché funziona meglio degli altri sistemi economici. Naturalmente, vi sono delle ragioni dietro questo successo, ma sapere che qualcosa funziona è più importante di sapere perché funziona. In fin dei conti, siete felici di guidare la macchina o usare uno smartphone anche se non comprendete la tecnologia coinvolta.

Allo stesso modo, la gente può trarre beneficio del capitalismo anche se non ha mai sentito parlare di Smith, Mises, Hayek o Friedman. Non avete bisogno di leggere tanta teoria economica per decidere qual è il sistema migliore. È sufficiente che osserviate la storia economica, come fa questo libro. Da nessuna parte l’eccesso di libertà economica sta creando problemi, ma ci sono molti posti in cui è vero il contrario. Il mondo ha bisogno urgente di riforme capitaliste.

 

CITAZIONI RILEVANTI

I doni del capitalismo all’umanità

«Il capitalismo è la causa principale dell’aumento globale del tenore di vita su una scala senza precedenti nella storia dell’umanità prima dell’avvento dell’economia di mercato. L’umanità ha impiegato il 99,4% dei suoi 2,5 milioni di anni di storia per raggiungere un PIL pro capite di 90 dollari internazionali circa 15.000 anni fa (il dollaro internazionale è un’unità di calcolo basata sui livelli di potere d’acquisto nel 1990). C’è voluto un altro 0,59% della storia umana per raddoppiare il PIL globale a 180 dollari internazionali nel 1750. Tra il 1750 e il 2000 – in un periodo che rappresenta meno dello 0,01% del totale della storia umana – il PIL pro capite globale è cresciuto 37 volte fino a 6.600 dollari internazionali. In altre parole, il 97% della ricchezza totale creata nel corso della storia dell’umanità è stata prodotta in quei 250 anni.  L’aspettativa globale di vita è quasi triplicata nello stesso breve periodo di tempo, dato che era di soli 26 anni nel 1820. Niente di tutto questo si deve a un improvviso aumento dell’intelligenza o dell’industriosità umana. Il merito è del nuovo sistema economico emerso nei Paesi occidentali circa 200 anni fa, che si è dimostrato superiore a ogni altro sistema esistente prima o dopo di esso. È stato questo sistema basato sulla proprietà privata, l’imprenditoria, l’imparzialità dei prezzi e la concorrenza a rendere possibili i progressi economici e tecnologici senza precedenti degli ultimi 250 anni – un sistema che, pur con tutti i suoi successi, è ancora giovane e vulnerabile.» (p. 24)

Cosa dice la classifica annuale delle libertà economiche

«La libertà economica avvantaggia quasi tutti. La ricerca ha dimostrato più volte che maggiore è la libertà economica, più ricca è l’economia. Le economie più libere hanno maggiori probabilità di far registrare elevati tassi di crescita economica e di aumentare i redditi per il 10% più povero della popolazione. Uno degli argomenti più convincenti in favore del capitalismo è che i paesi economicamente liberi hanno tassi di povertà più bassi, oltre ad essere stati in grado di ridurre la povertà più velocemente … È stato inoltre documentato che le economie più libere raramente sperimentano guerre civili. Esse godono inoltre di una maggiore stabilità politica, tassi di omicidio più bassi, meno violazioni dei diritti umani, livelli più bassi di militarizzazione e hanno popolazioni che si sentono più sicure.» (p. 223, 224)

La crisi finanziaria non è stata causata dal capitalismo

«La bolla dei prezzi immobiliari negli Stati Uniti e la crisi dell’Eurozona non hanno avuto niente a che fare con un “fallimento del mercato” o una crisi del capitalismo. Al contrario, entrambe sono state provocate dai politici e dei banchieri centrali. I politici hanno provocato distorsioni nel mercato per perseguire progetti politici come l’aumento del tasso di proprietà delle abitazioni tra le minoranze, e hanno aumentato il debito pubblico in maniera irresponsabile. I governatori della Fed e della Bce hanno praticato politiche di continua riduzione dei tassi d’interesse annullando i naturali meccanismi del mercato ... Naturalmente, i politici e i banchieri centrali non accettano di essere ritenuti responsabili per la crisi finanziaria e dell’eurozona. Come uno scippatore che urla “Al ladro!” per distogliere l’attenzione su di sé, costoro incolpano il “fallimento del mercato” o “il capitalismo sfrenato” ... Poiché la diagnosi delle cause è sbagliata, anche le terapie proposte sono errate. Se la crisi finanziaria è stata causata dai tassi d’interesse troppo bassi, dagli interventi nel mercato e dall’eccessivo indebitamento, come si può pensare che la giusta terapia consista in un’ulteriore riduzione dei tassi, più regolamentazioni del mercato e più deficit? … Il settore finanziario è il più regolamentato di tutti, con l’esclusione forse solo della sanità. Il fatto che proprio le due aree dell’economia più regolamentate siano anche le più instabili dovrebbe far pensare gli anticapitalisti.» (p. 144, 146, 147)

 

Punti DA RICORDARE

  • Il risentimento anticapitalista è ricomparso dopo la crisi finanziaria del 2008
  • L’esperienza degli ultimi ottant’anni dimostra però, senza eccezioni, la schiacciante superiorità del capitalismo sul socialismo
  • Aprendosi al mercato, la Cina è passata dalle carestie di massa alla potenza industriale
  • Gli aiuti occidentali all’Africa hanno generato corruzione, sottosviluppo e dipendenza
  • Nel continente nero sta emergendo però una nuova classe media di imprenditori
  • Le politiche favorevoli al mercato di Ludwig Erhard furono alla base del miracolo economico tedesco
  • Le differenze abissali tra le due Germanie e le due Coree costituiscono dei test empirici indiscutibili
  • Le riforme liberiste della Thatcher e di Reagan hanno rivitalizzato l’economia del Regno Unito e degli Stati Uniti dopo la crisi degli anni ’70
  • Il Venezuela è stato portato alla fame dal socialismo dittatoriale di Chavez e Maduro
  • Nel 1970 anche il Cile era stato ridotto in rovina dal marxista Allende
  • Le riforme economiche suggerite dai Chicago Boys fecero poi del Cile il Paese più ricco dell’America Latina
  • La Svezia non è un esempio di socialismo, perché la sua economia è una delle più libere del mondo
  • L’anticapitalismo è il pilastro della religione secolare degli intellettuali
  • Il mondo ha bisogno urgente di riforme capitaliste

 

 

L’autore

Rainer Zitelmann

Rainer Zitelmann è nato a Francoforte sul Meno, in Germania, nel 1957. Da giovane militò nell’estrema sinistra e studiò con impegno i testi canonici del socialismo, ma durante gli anni universitari abbandonò queste posizioni. Furono soprattutto i suoi studi di dottorato sul nazionalsocialismo a fargli cambiare idea. «Secondo la teoria marxista -– ricorda Zitelmann – il fascismo era un’espressione reazionaria della dittatura dell’economia capitalista, l’ultimo tentativo, per così dire, di salvare il sistema capitalista dalla distruzione. Ho iniziato a mettere in discussione questa teoria quando ho cominciato a studiare da vicino il periodo più oscuro della storia tedesca. Ho concluso che la teoria marxista non poteva spiegare il fenomeno del nazionalsocialismo, un’intuizione che mi ha portato ad allontanarmi dal marxismo». Egli infatti, dopo aver analizzato attentamente tutte le dichiarazioni registrate di Hitler, arrivò alla conclusione che nei ragionamenti del dittatore le ideologie anticapitaliste e socialiste avevano giocato un ruolo molto più grande di quanto si fosse ipotizzato in precedenza. A differenza di altri storici, Zitelmann mise chiaramente in luce la natura socialista del regime hitleriano nella sua biografia di Hitler, pubblicata nel 1991 in Italia dalla casa editrice Laterza. Successivamente ha seguito un percorso professionale molto insolito per un accademico. Nel 2000 ha deciso di dedicarsi all’attività imprenditoriale nel settore degli investimenti immobiliari, fondando una compagnia di successo che poi ha venduto con profitto nel 2016. Nel corso di questi anni i suoi interessi culturali si sono spostati nel campo economico e finanziario. Nel 2017 ha scritto un libro, tradotto in varie lingue, sulla psicologia dei super-ricchi (The Wealth Elite: A Groundbreaking Study of the Psychology of the Super Rich), mentre nel 2018 ha pubblicato The Power of Capitalism: A Journey Through Recent History Across Five Continents (La forza del capitalismo: un viaggio nella storia recente di cinque continenti).

 

INDICE DEL LIBRO

7    Prefazione. Il capitalismo è sotto attacco

11  Introduzione. Esperimenti nel campo della storia umana

27  Capitolo 1. Cina. Dalla carestia al miracolo economico

57  Capitolo 2. Africa. Contro la povertà, il capitalismo è più efficace degli aiuti allo sviluppo

89 Capitolo 3. Germania. Non puoi sorpassare una Mercedes con una Trabant

119 Capitolo 4. Nord e Sud Corea. Kim Il-sung contro la saggezza del mercato

141 Capitolo 5. Proviamo con più capitalismo. Le riforme pro-mercato della Thatcher e di Reagan

nel Regno Unito e negli Stati Uniti

169     Capitolo 6. Sud America. Perché i cileni stanno meglio dei venezuelani?

193     Capitolo 7. Svezia. Il mito del socialismo nordico

215     Capitolo 8. La libertà economica accresce il benessere umano

227     Capitolo 9. La crisi finanziaria. Una crisi del capitalismo?

251     Capitolo 10. Perché agli intellettuali non piace il capitalismo?

291     Capitolo 11. Appello urgente per riforme capitaliste

309     Ringraziamenti

311     Bibliografia

329     Nota biografica. Rainer Zitelmann e il capitalismo.

 

 

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Rainer Zitelmann, La forza del capitalismo. Un viaggio nella storia recente di cinque continenti, IBL Libri, Torino, 2020, p. 331, traduzione di Guglielmo Piombini.

Titolo dell’edizione originale tedesca: Kapitalismus ist nicht das Problem, sondern die Lösung: Eine Zeitreise durch 5 Kontinente

Titolo dell’edizione inglese: The Power of Capitalism. A Journey Through Recent History Across Five Continents