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Dalla legis actio per manus iniectionem alla bonorum cessio culo nudo super lapidem, ovvero: meglio l’“acculata” che la morte

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Dalla legis actio per manus iniectionem alla bonorum cessio culo nudo super lapidem, ovvero: meglio l’“acculata” che la morte

All’inizio del primo secolo avanti Cristo, due cittadini romani e uomini d’affari, tale Gaio Quintio e Sesto Nevio partecipavano ad una società che investiva in allevamenti di bestiame e in terreni nella Gallia Narbonense (provincia romana della Francia meridionale, corrispondente alle odierne Provenza e Linguadoca).

Nell’84 a.C. Gaio Quintio morì lasciando in eredità al fratello, Publio Quintio, la sua quota societaria nonché molti debiti insoluti. Quest’ultimo raggiunse Sesto Nevio in Gallia e per circa un anno non vi furono tra i due dissapori, anche forse per il fatto che Sesto Nevio era sposato con la cugina di Publio Quintio. Poiché alla morte di Gaio Quintio non avevano provveduto a separare i beni, la società continuò ad essere esercitata congiuntamente, sostanzialmente pervenuta a Publio Quintio in virtù di successione di fatto.

Iniziarono a sorgere problemi tra i due allorquando Publio Quintio si trovò nella necessità di pagare dei debiti contratti dal de cuius Gaio Quintio, indi per cui si preparò a vendere alcune delle sue proprietà private in Gallia. A questo punto, però, Sesto Nevio lo dissuase dalla vendita dei propri beni in quanto avrebbe ottenuto un prezzo svantaggioso, offrendosi di anticipargli i soldi necessari per saldare i debiti finché il mercato immobiliare non si fosse ripreso e avesse così potuto Publio Quintio vendere i terreni ad un prezzo più vantaggioso. A tal fine i due tornarono a Roma e Publio Quintio si rivolse al giurista Gaio Aquino – che, paradossalmente (o guarda caso), fu poi il giudice designato della violenta lite giudiziaria che successivamente sorse – per determinare l’importo da pagare. Di colpo, però, Sesto Nevio si rifiutò di fornire il danaro sino a quando i due non avessero raggiunto un accordo sugli affari della società. Stante il rifiuto, Publio Quintio dunque si vide costretto a vendere i propri beni in Gallia per onorare i debiti.

Dopo di ciò, entrambi nominarono due arbitri per negoziare un accordo, ma invano, motivo per il quale la vertenza passò ad essere regolata in vadimonium. Occorre segnalare sinteticamente che il processo per formulas di diritto romano prevedeva, al fine di consentire il contraddittorio, il cosiddetto vadimonium, ossia un documento di tipo stragiudiziale, dunque svincolato dall’autorità del Pretore, in cui una parte rappresentava in fatto e in diritto le proprie ragioni predeterminando data e luogo in cui svolgere il dibattimento (in sostanza un atto di citazione); ricevuta la chiamata, il convenuto poteva controbattere in altro documento e a propria volta convenire l’attore ad altra data per il dibattimento.

Secondo quanto riportato, Sestio Nevio espose le proprie ragioni, avanzò le proprie pretese, concludendo però di voler rinunciare all’azione perché aveva liquidato una parte dei beni della società in Gallia proprio per assicurarsi di non essere in debito con la società, pertanto avrebbe esentato Publio Quintio a successivo vadimonium se anch’egli avesse venduto una parte dei beni della società in Gallia. Se al contrario Publio Quintio avesse intrapreso il vadimonium, a propria volta ritenendo Sestio Nevio in debito verso la società, quest’ultimo sarebbe stato pronto a difendersi. Il vadimonium difatti consisteva in un accordo volontario e antecedente alla chiamata in causa, diretto a vincolare i contraenti a comparire in un determinato luogo per comporre la lite e rappresentava uno strumento utile alle parti per conoscere le reciproche posizioni prima di affrontare il dibattimento in tribunale oltre che, nel caso, per pervenire a definire concordemente i confini della lite stessa. Il promittente si impegnava a presentarsi in un determinato giorno e ora in luogo specifico nelle immediate vicinanze del tribunale nel Foro cittadino per recarsi insieme con l’avversario dinanzi al magistrato giusdicente. La data era fissata nell’interesse dell’attore, indi per cui dopo che l’attore aveva esposto al convenuto le proprie ragioni, il convenuto doveva dichiarare se intendesse ricomparire (promessa a ricomparire) in altra successiva data al fine di garantire un giusto contraddittorio. Per comprendere la portata dell’offerta di Sestio Nevio dal punto di vista processuale, dunque, soccorre il chiarimento che nel diritto romano venivano rimessi i vadimonia dietro la promessa dell’attore di non intraprendere alcuna azione contro il convenuto qualora quest’ultimo non si fosse presentato al dibattimento. Avendo Sestio Nevio dichiarato di ritenere definita ogni vertenza, pur avanzando le proprie ragioni, qualora Publio Quintio non fosse comparso alla successiva udienza, o vi fosse comparso rinunciando dunque alla propria domanda verso il primo, le parti avrebbero implicitamente dichiarato disinteresse al giudizio e la questione sarebbe stata ritenuta risolta. Di contro, qualora Publio Quintio fosse ricomparso avanzando a propria volta pretese, Sestio Nevio si sarebbe difeso in virtù delle ragioni di diritto che aveva avuto modo già di esporre alla prima udienza. la Tale precisazione sarà maggiormente utile a breve.

Publio Quintio, anziché ritornare in vadimonium alla data convenuta per controbattere o quanto meno rispondere all’offerta di Sesto Nevio, rinviava di continuo l’udienza per circa un mese e partì nel mentre di nuovo per la Gallia, presumibilmente per verificare di persona se e quali proprietà avesse venduto davvero Sestio Nevio.  Durante il proprio viaggio diretto verso la Gallia, però, in Etruria Publio Quintio incrociò un amico intimo di Sestio Nevio, tale Lucio Publicius, il quale stava portando alcuni schiavi dalla Gallia per venderli a Roma. Quest’ultimo dunque, all’arrivo nell’urbe, informò dell’incontro Sestio Nevio il quale il giorno seguente radunò degli amici nel Foro e dinanzi loro, in qualità di testimoni, dichiarò di essersi presentato al vadimonium mentre, di contro, Publio Quintio era rimasto contumace. In virtù di tale rifiuto e in forza della dichiarazione testimoniale, Sestio Nevio richiese ed ottenne dal Pretore il permesso di sequestrare i beni di Publio Quintio in quanto debitore inadempiente. In forza di tale provvedimento, Sestio Nevio procedette subito al sequestro di uno schiavo di Publio Quintio, senonché un procuratore di quest’ultimo non riuscì ad interrompere il procedimento esecutivo strappando i libelli che ne davano pubblicità e impedendo di fatto che si procedesse oltre.

Seguirono così altre udienze innanzi al Pretore durante le quali Sestio Nevio chiese che venisse imposta una misura cautelare di garanzia (una sorta di sequestro conservativo) nei confronti del procuratore di Publio Quintio, il quale rifiutò garantendo al contempo che Publio Quintio sarebbe comparso in tribunale per il processo. Nel mentre, quest’ultimo era stato espulso dalle tenute in Gallia dagli schiavi della società ivi presenti, su ordine di Sestio Nevio, per quanto avesse poi ottenuto un ordine di restituzione grazie all’intercessione del proconsole di Gallia Caio Valerio Flacco.

Nella ricostruzione degli eventi che venne poi esposta nel processo dalla difesa di Publio Quintio, risultò come Sestio Nevio avesse ordito uno scellerato complotto per rovinare il suo socio privandolo di tutte le sue proprietà. Parrebbe infatti che Sestio Nevio avesse ottenuto il provvedimento di sequestro senza offrire alcuna prova (a parte la testimonianza dei suoi amici) dell’aver promessa a ricomparire di Publio Quintio; si sostenne dunque che quest’ultimo non avrebbe in ogni caso potuto comparire laddove non risultava di fatto esservi stato alcun invito formale a comparire, come di contro testimoniato. Sostanzialmente si accusò Sestio Nevio di aver falsificato il vadimonium in maniera tale da ottenere il sequestro dei beni del convenuto rimasto colpevolmente contumace.

In ogni caso, in forza dell’editto ottenuto da Sesto Nevio, venne richiesto a Publio Quintio di pervenire ad una sponsio. Essa, nel diritto romano era una sorta di giuramento confessorio promanante da una richiesta del creditore nei confronti dell’asserito debitore (sponsor) mediante la quale quest’ultimo era intimato a pronunciare o meno un riconoscimento del debito, vincolandosi così al primo. Una volta ottenuta tale dichiarazione, nel caso di inadempimento il debitore avrebbe subito la manus iniectio, l’esecuzione forzata, ferma comunque l’azione di accertamento dinanzi al giudice. Voleva con ciò, Sesto Nevio, ottenere quanto riteneva gli spettasse dallo scioglimento della società e a cui mirava da tempo. Fu così che nell’81 a.C. si svolse il processo di merito tra Publio Quintio e Sesto Nevio. Punto nodale del processo non fu tanto di accertare quale socio avesse legittime pretese rispetto all’altro, quanto piuttosto di stabilire, dal punto processuale, la legittimità del precetto pretorio che Sesto Nevio aveva ottenuto e da cui dipendeva di fatto l’insolvenza legittimante l’esecuzione forzata nei confronti di Publio Quintio.

Orbene, da un lato Sesto Nevio assunse quale difensore il più grande oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo, mentre Publio Quintio si rivolse invece all’allora venticinquenne oratore Marco Tullio Cicerone, alla sua prima causa, il quale non solo ebbe a rappresentare le ragioni del proprio cliente rispetto alla complessa trama ordita da Sesto Nevio, anche grazie a compiacenze di pretori e false testimonianze, per impadronirsi della parte della società ereditata, ma anche approfittò di tale occasione per pronunciare un’invettiva contro la società romana dell’epoca (si era nel pieno della dittatura di Lucio Cornelio Silla e del dilagare delle proscrizioni), denunciando l’illegalità dilagante e l’insicurezza generale. Cicerone dunque colse tale pretesto contro Sesto Nevio, rappresentandolo come un “nuovo ricco”, un parvenu, e in quanto sostenitore di Silla e ben voluto dalla nobilitas di Roma, l’incarnazione della depravazione e della brutalità dilagante per il degrado morale in cui considerava essere decaduta Roma per colpa del dictator. Dall’altro lato, Cicerone disegnava Publio Quintio come un uomo onesto e laborioso, dotato di parsimonia rustica, candore morale e semplicità di costumi, vittima della prevaricazione e della prepotenza dilagante nella società dissoluta, avida e rapace che Sesto Nevio incarnava [1].

Non si ha evidenza della vittoria di Cicerone, se non il fondato convincimento di essa per via del fatto che questi pubblicò la propria orazione difensiva, laddove presumibilmente, in caso di soccombenza, il giovane avvocato non avrebbe avuto giovamento nel darne pubblicità.

Nella Oratio pro Quinctio (81 a.C.), Cicerone in relazione alla esecuzione forzata subita dai debitori, espose vibratamente: “Quando invece va in vendita il patrimonio di qualcuno, quando ad essere posto vergognosamente alla mercé di un pubblico banditore per la vendita all’asta non sono soltanto i suoi beni più cospicui, ma pure il necessario per nutrirsi e vestirsi, costui non viene soltanto bandito dal novero dei vivi, ma è addirittura relegato, se è possibile questa condizione, anche più in basso dei morti. Infatti la nobiltà della morte abbellisce non di rado perfino la turpitudine della vita, ma una vita “tanto” piena di turpitudine non lascia posto nemmeno ad una nobile morte. Quando dunque i beni di un uomo passano in forza dell’editto in possesso di un altro, tuttavia la reputazione e il credito di cui gode cambiano contemporaneamente proprietario insieme con i beni; quando vengono affissi nei luoghi più frequentati gli avvisi di vendita all’asta del patrimonio di un cittadino, questi non può più nemmeno morire in silenzio e oscuramente; quando per i beni di uno nominano gli esecutori fallimentari facendoli arbitri di stabilire le regole e le condizioni in base alle quali egli deve morire; quando la voce del banditore grida il nome di un uomo e ne fissa il prezzo, è mentre è ancora in vita, è davanti ai suoi occhi che gli si fa il più crudele dei funerali, se funerale si può ritenere quello al quale partecipano non già gli amici per rendere solenni le esequie, ma i compratori dei suoi beni riuniti come carnefici per lacerare in tanti pezzi quel che resta della sua esistenza” (Marco Tullio Cicerone, Oratio pro Publio Quinctio, XV, 49).

Il motivo di una siffatta carica nell’orazione di Cicerone si rinviene, al fi là dei fini politici sottesi alla difesa della causa, nella particolare rigidità e financo crudeltà con le quali venivano regolate le pendenze debitorie. Si abbia invero a mente che secondo il diritto delle XII Tavole (453 a.C.) la c.d. manus iniectio, l’esecuzione forzata, veniva disciplinata come segue: “Per un debito del quale è stata fatta confessione e per il quale vi è condanna in giudizio, il debitore avrà trenta giorni di tempo per saldare il debito, passati i quali il creditore potrà arrestare il debitore e condurlo in giudizio. Se il debitore non pagherà e nessuno si costituirà garante per lui, il creditore potrà condurlo con sé e legarlo con cinghie o catene del peso di almeno quindici libbre o anche maggiore, se vorrà. Durante ciascuno dei tre mercati successivi il debitore venga condotto nel comizio dinanzi al pretore. Nel terzo mercato venga fatto a pezzi oppure mandato al di là del Tevere, in Paese straniero, per essere venduto” [2].

Le varie procedure esecutive che si alternarono nei secoli videro difatti da principio la formula più crudele della legis actio per manus iniectionem di cui alle XII Tavole, senza possibilità di difesa alcuna per il debitore se non tramite un garante, un vindex. Posta la propria mano sul debitore, il creditore lo poteva trattenere con sé, legato o incatenato, circa sessanta giorni, per consentire che qualche garante si facesse avanti. In mancanza, si poteva chiedere al giudice che venisse dichiarata l’addictio, ossia condurlo in pubblico in catene nel Comizio, tra la Curia e il Carcere, ove vi era anche il Tribunale del Pretore Urbano, appendendogli al collo un cartello con il prezzo del debito, e chiedere la aggiudicazione fisica del debitore al creditore. Solo nell’eventualità in cui qualcuno, verosimilmente parenti o amici, o un vindex, avessero pagato il debito, il debitore avrebbe potuto dirsi finalmente riscattato fisicamente, altrimenti, dopo tre giorni di mercato il creditore era libero di disporre del debitore come meglio credeva, cioè o facendolo a pezzi (nel caso da dividere poi con altri creditori) [3] o mandarlo fuori da Roma per essere venduto, stante il divieto di vendita in città di uomini che prima di tali accadimenti godevano dello status libertatis e dello status civitatis. In sostanza il creditore che riusciva letteralmente a mettere le mani addosso al debitore insolvente procedeva con una esecuzione personale da un lato e con una patrimoniale dall’altro. Non vi era dunque un carattere meramente vendicativo dal punto di vista economico, costringendo i parenti a saldare i debiti, ma anche un carattere di sfruttamento della forza lavoro del debitore, dalla quale trarre economie indirette. Il carattere particolarmente personale oltre che patrimoniale della esecuzione restituisce particolare comprensione, dunque, della gravosità e drammaticità dell’orazione ciceroniana.

Solo dopo, per merito o di Giulio Cesare o di Ottaviano Augusto -a seconda delle fonti- venne posto il divieto all’imprigionamento privato, ossia alla manus iniectio. Ma se da un lato permaneva la procedura esecutiva certamente al fine del soddisfacimento dei creditori, dall’altro quale contraltare al divieto fu introdotta la procedura della bonorum cessio culo nudo super lapidem: debitori erano condotti nudi tra la gente sino di fronte alla porta del Campidoglio laddove era stata posta la c.d. “Pietra dello scandalo” (Lapis Scandali, da cui il nostro “essere sul lastrico”) sulla quale alzandosi e sedendosi violentemente per tre volte (culo nudo) davanti a tutti dovevano gridare “cedo bona” o “cedo bonis”: assoggettato a tale vergogna, il debitore poteva così confidare di non venire ucciso o venduto come schiavo, ferma restando naturalmente l’esecuzione forzata successiva per mezzo della vendita di tutti i beni del debitore [4].

Ancora oggi si rinvengono in alcune città italiane le pietre dello scandalo in quanto tale modalità venne mantenuta per molti secoli, in alcune città addirittura fino al 1700: a Firenze, ad esempio, la si può rinvenire nella loggia del Mercato Nuovo, in cui il debitore doveva compiere, appunto, l’”acculata”; a Modena al debitore la si imponeva sulla Pietra Ringadora, in Piazza Grande.

Note

[1] Narducci, Cicerone. La parola e la politica, Roma-Bari, 2009.

[2] In questa Rivista: https://www.filodiritto.com/storia-del-fallito-che-forza-di-lettere-di-credito-si-e-finalmente-liberato-del-berretto-verde.

[3] Secondo il principio “Qui non habet in aere, luat in corpore”, ossia “chi non possiede danaro, paghi con il proprio corpo”.

[4] Purpura, La pubblica rappresentazione dell’insolvenza. Procedure esecutive personali e patrimoniali al tempo di Cicerone, in AA.VV., Studi in onore di Luigi La Bruna, Napoli, 2007.