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L’incidenza del Tempo sulla norma giuridica: il Diritto è reso ingiusto dal Tempo?

L’incidenza del Tempo sulla norma giuridica: il Diritto è reso ingiusto dal Tempo?
L’incidenza del Tempo sulla norma giuridica: il Diritto è reso ingiusto dal Tempo?

Sommario:

1. Con il TEMPO, un diritto nasce: l’usucapione;

2. Con il TEMPO, un diritto muore: la prescrizione;

3. Il diritto va fatto valere: in... TEMPO;

4. Prevale la Norma o il Tempo? Il diritto vivente, la desuetudine, la consuetudine;

5. I sistemi giuridici consuetudinari. Il Common Law;

6. I sistemi giuridici consuetudinari confessionali;

7. Tempo e Norma nel diritto penale;

8. Nel diritto amministrativo il Tempo può... tornare indietro!

 

Abstract

In questa conferenza, tenuta il 25 settembre 2015 a Piacenza nel più ampio ciclo “Il tempo: grande scultore”, gli Autori dissertano in modo divulgativo su come il Tempo possa influire sulla formazione delle norme e, più in generale, sui sistemi giuridici.

 

1. Con il TEMPO, un diritto nasce: l’usucapione

Nel sistema romano, e di riflesso quindi nel sistema giuridico nostro e di buona parte dei paesi dell’Europa continentale e dell’America latina, il fattore TEMPO era quasi un’ossessione: dal trascorrere del tempo poteva dipendere l’esistenza o meno di un diritto della persona.

Molto in generale: non essere titolari di un diritto non era (non è) un problema: è sufficiente averlo esercitato di fatto per un certo lasso di tempo, che quel diritto si può acquisirlo, divenirne titolari. È quella che viene chiamata usucapione, da usu-càpere, ottenere con l’uso.

L’usucapione è ancora presente nel nostro ordinamento: ancor oggi il possesso protratto per un determinato periodo di tempo fa acquisire al possessore la titolarità del diritto reale corrispondente alla situazione di fatto esercitata (articolo 1158 Codice Civile). Costituisce, quindi, un modo di acquisto a titolo originario (quindi senza che vi sia un “dante causa”, un soggetto che me lo cede) del diritto di proprietà e dei diritti reali minori.

La ratio dell’usucapione va ricercata nell’opportunità, dal punto di vista sociale, di favorire chi, nel tempo, utilizza e rende produttivo il bene a fronte di un proprietario che lo trascura. Quest’ultimo, tuttavia, lo vive come un’ingiustizia.

Possono acquisirsi per usucapione tutti i beni: immobili (quindi case, terreni: quante volte avrete sentito parlare dell’usucapione dei terreni agricoli); mobili, beni mobili registrati… con esclusione dei soli beni demaniali e dei beni del patrimonio indisponibile dello Stato.

I requisiti quali sono?

1) Il POSSESSO del bene: da notarsi che rileva non solo il possesso in buona fede ma anche “di mala fede”. Tuttavia se il possesso illegittimo viene acquisito con violenza (rapina) o clandestinità (furto) il decorso del tempo utile per usucapire inizia a computarsi solo quando cessano la violenza o la clandestinità: è solo da tale momento, infatti, che il precedente possessore, vittima dell’atto violento o clandestino, potrebbe agire in giudizio per ottenere il recupero del bene: se omette di farlo deve subire le conseguenze della sua colpevole inerzia.

2) La CONTINUITA’ nel possesso del bene per un determinato periodo di tempo. Peraltro chi intende usucapire non ha l’obbligo di aver posseduto per tutto il tempo necessario, dimostrando il possesso giorno per giorno (prova diabolica, come diabolico è il TEMPO!): è sufficiente che il possessore dimostri di possedere ora e di aver posseduto in un tempo più remoto: la legge agevola il possessore, presumendo che il possesso si sia protratto anche per il periodo intermedio.

In epoca romana, il TEMPO aveva tale forza che si poteva diventare proprietari persino… della moglie! Infatti, nel diritto romano il pater familias, in quanto titolare di una posizione giuridica legittimante all’interno della famiglia, era il titolare di tutti i diritti ascrivibili alla famiglia stessa (la patria potestas, nei confronti dei figli; la dominica potestas, sui beni della famiglia – schiavi e cose). Il diritto romano era così coerente che, a quel punto, doveva riconoscere che il marito potesse diventare proprietario persino della consorte: tale era la manus maritalis. Sennonché, in quel sistema giuridico (con molte differenze rispetto all’antico diritto greco) la moglie era anch’essa soggetto giuridico (non dimentichiamo che essa rimaneva proprietaria dei suoi beni personali, i cosiddetti paraphernalia) e ciò entrava in stridente contrasto col fatto di poter cadere in proprietà di chicchessia, marito compreso. Per evitare il conflitto normativo si ricorreva a una fictio juris, ossia una finzione giuridica: ogni anno la moglie si allontanava dalla famiglia per tre notti (trinoctii usurpatio) e così facendo si interrompeva il periodo temporale dell’usus.

2. Con il TEMPO, un diritto muore: la prescrizione

Il decorrere del tempo operava, e opera tuttora, anche in senso inverso. Tu hai un diritto? Senza per il momento sottilizzare sulla differenza tra diritti reali e diritti di obbligazione, se questo diritto non lo eserciti per un dato lasso di tempo, variabile a seconda dei casi, allora lo perdi. È il reciproco dell’usucapione. È la PRESCRIZIONE. Ed è presente sia nel diritto civile che nel diritto penale.

Vediamo che cos’è la prescrizione: articolo 2934 Codice Civile; la prescrizione è l’istituto giuridico che produce l’estinzione di un diritto soggettivo per l’inerzia del suo titolare che non lo esercita o non ne usa, per un determinato periodo di TEMPO previsto dalla legge. Il suo fondamento è analogo a quello dell’usucapione: l’esigenza di dare certezza ai rapporti giuridici e alle situazioni di fatto che devono intendersi consolidate in ragione del loro protrarsi nel TEMPO.

Se un diritto soggettivo non viene esercitato per lungo tempo si forma nella generalità delle persone la convinzione che lo stesso non esista, o che sia stato “abbandonato” dal titolare. D’altro canto, se sorgono contestazioni, è molto difficile, dopo un lungo lasso di TEMPO, la dimostrazione della nascita e della correlativa estinzione di un rapporto giuridico: se ci contestano un mancato pagamento, per esempio di un debito di decine di anni fa, come si può pensare o pretendere che si sia conservata la ricevuta per dimostrare che il pagamento è stato effettuato?

L’esigenza di certezza nei rapporti giuridici è così importante che la prescrizione è un istituto di ordine pubblico: ciò significa che le norme che stabiliscono l’estinzione del diritto e il TEMPO necessario per l’estinzione sono INDEROGABILI (articolo 2936 Codice Civile). Quindi le parti non possono rinunciare preventivamente alla prescrizione, con un contratto, né possono prolungare o abbreviare i TEMPI previsti dalla legge.

Diversa è invece la situazione rispetto alla rinunzia successiva al decorso del termine di prescrizione: una volta verificatasi la prescrizione con il decorso del termine previsto, sarà interesse esclusivo del soggetto che se ne è avvantaggiato decidere se farla valere o meno.

È  il soggetto, che decide se avvalersi del TEMPO trascorso. Gli altri dovranno subire la sua decisione, e poco importa che la vivano, ancora una volta, come un’iniquità, non cogliendo il confine tra Diritto e Giustizia. Diciamo che avvalersi della prescrizione estintiva, infatti, può non sembrare conforme all’etica, apparendo come un ”empium remedium“ (il compratore ha ricevuto a suo tempo la merce, sa di non aver pagato, ma si avvale della prescrizione). Perciò il nostro Codice Civile si rimette alla valutazione dell’interessato: l’articolo 2937, comma 3, del Codice Civile consente la rinuncia alla prescrizione una volta che essa si è compiuta.

Sempre in virtù del principio per cui la prescrizione non opera automaticamente, il debitore che abbia pagato spontaneamente un debito prescritto non può poi farsi restituire quanto versato: filosoficamente potremmo dire che, se si è avvalso del decorso del TEMPO, del TEMPO deve accettare le regole e non può poi tornare … al passato!

La prescrizione presuppone, in capo al titolare del diritto, un’inerzia INGIUSTIFICATA (e l’etimologia ci riconduce ancora alla GIUSTIZIA): essa quindi non opera quando vi sia una causa che giustifichi l’inerzia, bensì rimane sospesa (per particolari rapporti intercorrenti tra le parti; o per una condizione del titolare (per esempio, il titolare è minorenne, o militare in guerra).

La prescrizione opera anche nell’ambito del diritto penale. Valga solo un accenno.

Si distingue la prescrizione del reato dalla prescrizione della pena. La differenza sta nel fatto che la prima opera anteriormente a una sentenza di condanna (incidendo sulla punibilità in astratto, estinguendo la potestà statale di applicare la pena minacciata) mentre la seconda ne presuppone l’emanazione.

La prima è prevista dall’articolo 157 del Codice Penale. In questo caso il reato si ESTINGUE per prescrizione, che si verifica dopo un determinato periodo di TEMPO stabilito dal codice in maniera rigorosa (ma con una macchinosità sulla quale non ci soffermiamo).

La prescrizione risponde a un principio di economia dei sistemi giudiziari in base al quale lo Stato rinuncia a perseguire l’autore di un reato, quando dalla sua commissione sia trascorso un periodo di tempo giudicato eccessivamente lungo e solitamente proporzionale alla gravità dello stesso. In altre parole, si intende evitare che la macchina giudiziaria continui – nel TEMPO – a impegnare risorse per la punizione di reati commessi troppo tempo prima e per i quali è socialmente meno sentita l’esigenza di una tutela giuridica penale, e ciò anche nell’ottica della funzione socialmente rieducativa della pena (articolo 27 della Costituzione). Inoltre l’istituto assolve, nelle intenzioni del legislatore, alla funzione di garantire l’effettivo diritto di difesa all’imputato. Infatti, col passare del TEMPO è sempre più difficile per lo stesso imputato fornire e recuperare fonti di prova a suo favore: la prescrizione evita quindi eventuali abusi da parte del sistema giudiziario che potrebbero intervenire nel caso in cui il reato venisse perseguito a lunga distanza di tempo, e funge da stimolo affinché l’azione dello Stato contro i reati sia rapida e puntuale.

I reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo sono però imprescrittibili.

Il decorso del tempo incide anche sulla pena inflitta con sentenza passata in giudicato. La prescrizione estingue la pena se dopo un determinato periodo di tempo (stabilito dalla legge) la sentenza di condanna non viene eseguita. Il decorso del tempo non estingue la pena dell’ergastolo e le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna.

3. Il diritto va fatto valere: in... TEMPO

Diritti che nascono e diritti che si perdono, e tutto per colpa del TEMPO. Sennonché io posso avere tutti i diritti che voglio, ma per farli valere devo sottostare a un preciso rispetto dei TEMPI, ossia devo osservare i TERMINI PROCESSUALI (= scadenze). Ne abbiamo per tutti i gusti: termini di decadenza, termini “perentori” o anche solo termini “ordinatori” – per non parlare dei termini “acceleratori”.

Una sentenza mi condanna? Dovrò adempiere, ma la legge mi riconosce un lasso di TEMPO prima di farlo. Persino nel diritto romano, che con i condannati non andava tanto per il sottile, al condannato era concesso un termine di 30 giorni per pagare il debito; solo trascorso questo TEMPO scattava l’ira funesta del suo creditore, il quale poteva catturarlo ovunque lo trovasse e condurlo avanti il giudice compiendo la manus iniectio (una imposizione), col diritto di tenerlo con sé legato per 60 giorni e, dopo una complessa procedura, venderlo al mercato.

4. Prevale la Norma o il Tempo? Il diritto vivente, la desuetudine, la consuetudine

Siamo partiti da concetti derivati dal diritto romano proprio per sottolineare come pure a distanza di due millenni, il TEMPO, inteso quale categoria mentale, rimane sovrano rispetto alla norma giuridica. Piaccia o non piaccia. Non è la NORMA che incide sul TEMPO. È il TEMPO che determina la NORMA. Non foss’altro che negli effetti che essa produce.

Addirittura, potremmo dire che il TEMPO governa al posto della legge.

L’uomo scrive la legge, ma non può evitare che la società si evolva. Col mutamento – nel TEMPO – dei costumi, la società si vede a un certo punto costretta ad adeguare norme che, altrimenti, sarebbero anacronistiche. Pochi esempi per tutti: le norme penali sull’offesa al pudore, o sui diritti intermatrimoniali, che nel corso degli anni hanno visto graduali ma costanti adattamenti al comune sentire, il quale non rimane sempre uguale nel TEMPO (chi non ricorda gli anni ‘70, quando il topless femminile sulle spiagge era pervicacemente perseguito dai Carabinieri su mandato di inflessibili pretori?). Ma gli esempi sono tantissimi e confermano la supremazia del TEMPO sulla legge.

Dicevamo: se, di fronte al mutare della società (mutare delle sue condizioni economiche, mutare delle sue concezioni morali ed etiche, etc.), la società non reagisse modificando la norma, quest’ultima diverrebbe anacronistica. E parlando di “anacronismo”, siamo quindi sempre fermi alla costante “TEMPO”. Se ci pensate, infatti, nell’etimologia del vocabolo “anacronismo” risiede né più né meno che un GAP TEMPORALE, poiché una condizione sociale non muta da un giorno all’altro, ma impiega un ampio lasso di TEMPO. Prima che la norma anacronistica venga formalmente modificata e adeguata, possono decorrere anche anni, e nel frattempo la società vive una situazione di conflitto interno, dove il comportamento sociale e la norma si rincorrono al punto che, prima di essere modificata formalmente, la norma varia “di fatto”: è quel fenomeno che i giuristi chiamano “diritto vivente”, in contrapposizione – o meglio, in contiguità – con il “diritto vigente”. Il diritto “vivente” non esiste formalmente, ma si impone “di fatto”, attraverso l’interpretazione della norma che viene offerta dalla giurisprudenza, proprio al fine di adeguarla – in sede applicativa - alle situazioni concrete. Può succedere anche il rovescio: che una norma, pur continuando a esistere, non venga più applicata. È la desuetudine, ossia la costante disapplicazione di una norma ormai anacronistica, e ciò malgrado la sua esistenza formale. Si sono versati fiumi di inchiostro su questi concetti, e a stretto rigore dovremmo dire che tanto la forzatura della norma attraverso la sua reinterpretazione (= diritto vivente), tanto la sua disapplicazione (= desuetudine) in sé e per sé sarebbero persino illegittimi. Ma il risultato non cambia: vuoi attraverso la reinterpretazione, vuoi per desuetudine, alla fine di questo processo la norma “formale” cederà; cederà al TEMPO che l’ha resa anacronistica e dovrà essere modificata. Modificata, o addirittura abrogata: il TEMPO ne avrà decretato la fine; il TEMPO avrà condannato a morte la norma.

In analogia a tutto questo, abbiamo la consuetudine, ossia il comportamento di fatto che diventa norma. Attenzione: non è un semplice fenomeno sociale. La consuetudine regge il Common Law anglosassone e i diritti confessionali. Ne parleremo tra poco, e vi accorgerete di come solo apparentemente la norma si imponga sul TEMPO. In realtà, ancora una volta sarà il Tempo a imporsi sulla legge e vedremo insieme come e perché.

Può una norma non formalizzata (la formalizzazione si ha attraverso il suo inserimento “scritto” in una legge, o comunque in un corpus sistematico: il cosiddetto diritto “positivo”, da positus), dicevo, può una norma non formalizzata valere come norma?: la risposta è sì; ed è ancora una volta il fattore TEMPO a conferirle questa sacralità. Già abbiamo visto nell’usucapione come il comportamento di fatto, protrattosi nel tempo, crei un diritto soggettivo. Qualcosa di analogo avviene nel diritto oggettivo, allorché un comportamento sociale, per il solo fatto di protrarsi nel TEMPO, assume per la società la valenza di opinio juris et necessitatis: è il caso della CONSUETUDINE.

Nel diritto italiano, affinché un uso o consuetudine assurga a fonte di diritto occorrono due elementi: un elemento materiale (oggettivo) e un elemento psicologico (soggettivo). L’elemento materiale consiste in una pratica uniforme e costante, tenuta per lungo tempo dalla generalità degli interessati in un particolare ambito di rapporti. Non è possibile fissare in termini precisi e generalmente validi la durata minima necessaria affinché una pratica si consolidi in consuetudine (il Codice di Diritto Canonico, al canone 27, la fissa in 40 anni; il Common Law, che vedremo, esige che sia anteriore all’anno 1189, la fine del regno di Enrico II). Nel diritto italiano possiamo solo dire che non è necessario che essa risalga a tempi immemorabili; è sufficiente che il TEMPO decorso le abbia consentito di acquistare dignità di norma agli occhi dei consociati. L’elemento psicologico si forma di conseguenza, allorché la pratica costante viene tenuta con la convinzione che essa sia obbligatoria, perché conforme a una regola giuridica (appunto, l’opinio juris et necessitatis); in mancanza di questa convinzione si ha solo un uso di fatto: dare la mancia, scambiarsi doni natalizi, sono consuetudini di fatto, prive di carattere normativo, quindi non creano diritto.

Invece, stipulare un contratto di locazione di un appartamento dando al contratto, invece che la durata dell’anno solare, quella dell’annata agraria (11 maggio / 11 novembre) che pure con l’appartamento non c’entrerebbe nulla, questa sì, è una consuetudine fonte di diritto (è un uso locale, ed è tipico del piacentino!).

5. I sistemi giuridici consuetudinari. Il Common Law

La consuetudine (uso o consuetudine, è la stessa cosa) è fonte di diritto nel nostro sistema giuridico in via subordinata e accessoria, ma non è così in tutti i differenti sistemi, poiché nel diritto anglosassone (Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, India, etc.) essa è la principale, se non unica, fonte di diritto, con prevalenza persino sulla norma scritta. Qui ci sono ragioni storiche. Prima dell’anno 1000 sul territorio britannico coesistevano norme di origine germanica e norme di diritto romano e canonico. Con la conquista del 1066 ad opera del normanno Guglielmo il Conquistatore (battaglia di Hastings, illustrata nell’arazzo di Baieux) inizia l’unificazione politica di Gran Bretagna (esclusa la Scozia), Irlanda, Normandia, Bretagna francese e giù lungo la costa atlantica quasi sino alla Linguadoca, con conseguente unificazione anche del diritto. Questo diritto unificato venne chiamato “diritto comune”, cioè Common Law. La corte reale divenne il centro della vita amministrativa e giuridica del nuovo regno. Intorno alla curia regis si condensò ben presto un ceto professionale forense che, basandosi sulla stratificazione della casistica affrontata via via nel TEMPO, decideva le controversie applicando di volta in volta la regola del “precedente” giurisprudenziale. Facciamo un salto di secoli per dire, sia pure con molta approssimazione, che ancora oggi il fulcro del diritto anglosassone risiede nel Common Law e nell’applicazione ad ogni caso concreto del principio di diritto che scaturisce non da una norma scritta, bensì da un precedente giurisprudenziale. Un precedente nel TEMPO. Vale a dire che nel Common Law sono le sentenze che valgono, oltre che nel caso concreto in cui vengono pronunciate, anche come regola per il successivi casi analoghi. Il che non avviene nel nostro sistema, dove la giurisprudenza (l’insieme delle decisionioni dei giudici) è solo indicativa, ma non obbliga il giudice successivo a decidere conformemente ai casi precedenti. Il Common Law è perciò un diritto essenzialmente consuetudinario.

Con la consuetudine si profila una situazione paradossale: il protrarsi di un comportamento, il reiterarsi di un “precedente”, diventa legge. In una parola: il TEMPO determina la formazione della norma; quest’ultima a sua volta tenderà a governare tirannicamente sul TEMPO che l’ha creata, opponendosi a qualsiasi trasformazione da parte del suo creatore. Diciamo che la cristallizzazione della norma consuetudinaria tenderà a rimanere stabile nel TEMPO, questo sì, ma dovrà soccombere e vedremo come.

6. I sistemi giuridici consuetudinari confessionali

Questa tendenza all’immutabilità della norma è ciò che riscontriamo nei sistemi giuridici di impronta confessionale: i diritti tribali, ma soprattutto il diritto islamico. I sistemi giuridici confessionali, in quanto ispirati alla religione, inevitabilmente pretendono di essere immutabili nel TEMPO. E non potrebbe essere diversamente, poiché altrimenti è come se negassero la validità oggettiva dei precetti religiosi cui si rapportano, intangibili per definizione.

Nelle società arcaiche o primitive, che si autodisciplinano col senso di responsabilità collettiva, emerge sempre l’individuo che si arroga la conoscenza di un comportamento “giusto” per eccellenza (elaborato empiricamente, o rivelatogli per trascendenza). Costui tende così a imporre ai consociati quel comportamento come norma, paventando una superiore punizione collettiva alla devianza (le dieci piaghe d’Egitto, comminate dal dio del Vecchio Testamento per punire il comportamento del faraone sugli ebrei).

TEMPO, comportamento e valori si ricompongono in una unità indistinta che si riverbera sul diritto: vedasi il senso del dharma per il diritto indiano (contrapposto al vyavahara, il diritto civile) che, se non rispettato, imprigiona nel ciclo delle reincarnazioni (samsara) per un TEMPO eterno; in parte, anche il fa nel diritto cinese, il precetto giuridico che si affianca al li, precetto morale. In tutti, il TEMPO è condizione essenziale.

Nel diritto tribale, campo variegatissimo, un esempio per tutti può essere quello dei fady e dei fomba delle tribù del Madagascar: i Fady, ascritti agli antenati e rielaborati dai saggi del villaggio, sono dei taboo, ossia delle interdizioni che possono riguardare per esempio il cibo, i luoghi, il tempo per compiere certi atti, il sesso, etc. A poco vale la resistenza che i giovani malgasci, più moderni, cercano di opporre: i Fady rimangono il principio regolatore della vita sociale e individuale. Molti Fady sono in stretta relazione col divino (Vintana) mentre altri riguardano la sfera sociale; per esempio, negare l’ospitalità ad uno straniero può essere un Fady. Queste consuetudini, col passare del TEMPO, nella loro sacralità possono diventare dei Fomba, ossia precetti etico-religiosi assistiti da efficacia coattiva, e quindi giuridica. Non rispettare un costume di questo tipo significa offendere la tradizione e, di riflesso, gli antenati. Un esempio: quando si beve, durante un avvenimento, bisogna versare un goccio della bevanda a terra per offrirla agli antenati. Offendere gli antenati equivale a offendere il consorzio sociale in cui si vive e comporta una reazione sanzionatoria da parte della tribù, che va ad aggiungersi a quella spirituale: qui il precetto etico-religioso si fa precetto giuridico. Concettualmente non siamo molto distanti dagli albori della storia romana, allorquando, non essendosi ancora formato il ius, la società latina era regolata dal fas (da cui nefas, nefasto) fino all’avvento delle XII Tavole (450 a.C.).

Il diritto islamico (sharia), altro diritto di natura confessionale, com’è noto trova le sua fondamenta negli insegnamenti che il profeta Mohamed ha riversato nel Corano quale rivelazione divina. Siamo nel VII secolo. La rivelazione, in verità, si era poi vista oggetto di un processo di elaborazione teologica troppo rapida e ardita; per cui, a partire dal IX secolo il Corano venne integrato con altri testi, che raccoglievano i comportamenti e i detti (adith = editto), del Profeta, da cui desumere regole di comportamento non espresse dal Corano: il loro insieme costituisce la tradizione sacra, o Sunna. Corano e Sunna lasciavano però ancora troppi problemi insoluti, per risolvere i quali era necessario il consenso della comunità dei giuristi e dei teologi musulmani; consenso che, per essere valido, doveva essere unanime. Nella difficoltà di questa unanimità, nacquero quattro scuole ortodosse (hanafita, malikita, shafiita e hanbalita) e numerose scuole eretiche, che operarono l’estensione della sharia con una certa libertà sino alla caduta della dinastia degli Abbasidi (anno 935) e alla conseguente chiusura della “porta dello sforzo” (bab al-ijtihad), lo sforzo esegetico ed ermeneutico, e alla cristallizzazione del diritto islamico come lo conosciamo oggi (il fiq). Ma ecco che interviene il TEMPO a rompere le uova nel paniere.

Affinché un sistema giuridico che si professi immutabile possa attagliarsi a una società che, inevitabilmente, si evolve nel TEMPO, occorrono degli adattamenti: questi sono le fictio[nes] juris, ossia delle finzioni, appunto. Esistono anche nel diritto italiano, ma nel diritto islamico sono emblematiche. La sharia vieta il prestito a interesse? Sì, però non vieta la donazione, anzi la incoraggia in quanto atto di liberalità. Così io oggi dono a te 100 monete e tu ti impegni a donare a me 110 tra un anno. Vogliamo anche aggiungere un pegno? Il diritto sacro lo vieta, ma non vieta la vendita di merci. Così, in aggiunta al prestito simulato, tu oggi mi vendi un bene per 100 monete e io mi impegno a rivendertelo tra un anno allo stesso prezzo, allorché tu mi avrai donato i 110 che dicevamo prima. Voglio lasciare la mia eredità tutta al mio figlio maschio e non anche alla femmina? Il diritto sacro assicura i diritti delle donne, ma incoraggia anche le istituzioni benefiche. Così, mi basterà destinare la mia eredità a una fondazione che sarà istituita alla mia morte e che avrà lo scopo statutario di beneficiare tutte le iniziative che prenderà il mio figlio maschio. Insomma: se la legge pretende di essere immutabile, sarà il TEMPO a governare al suo posto.

7. Tempo e Norma nel diritto penale

Ma vi è un ambito in cui, invece, il rapporto NORMA/TEMPO sembra divenire ambiguo: il diritto penale. Rispetto al diritto civile, qui le esigenze sono molto diverse: a fronte del verificarsi di una condotta criminosa il sistema giuridico reagisce, da una parte, tentando di mantenere integra la difesa sociale; dall’altra, incidendo sul soggetto agente sottoponendolo a una sanzione di natura restrittiva della sua libertà. Ma qui la situazione si complica, poiché nelle scuole di pensiero che si sono succedute all’insegnamento del Beccaria, alla natura afflittiva della sanzione si è voluto associare un intento rieducativo e di reinserimento sociale del reo. Ecco che alla misura sanzionatoria topica – ossia il carcere – si sono sostituite o affiancate altre forme di sanzione volte a mitigare l’aspetto afflittivo in favore di quello recuperatorio (esempi: gli arresti domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali, ecc.; o addirittura la sostituzione della pena detentiva con pene pecuniarie, dove si dà il valore di 250 euro ad ogni giorno di detenzione sostituito, ma – il TEMPO! – per non oltre tre mesi). Non è questa la sede per approfondire questo tema; ciò che invece importa sottolineare è che nel diritto penale il rimedio che la società ha per ovviare alla devianza non va ricercato – purtroppo! - in strumenti preventivi, ma nella sanzione, che per definizione è ex post. E la sanzione è ancora una volta affidata al TEMPO, poiché è al TEMPO che essa viene commisurata. Afflittiva o rieducativa che sia, la detenzione in quanto tale non produce effetti se non in stretta relazione – oltre che alle sue modalità - alla sua durata. Perché dicevamo che nel diritto penale il rapporto NORMA/TEMPO si fa ambiguo? perché nessuno dei due può fare a meno dell’altro.

NORMA (sanzionatoria) e TEMPO sono tra loro in stretta e inscindibile correlazione. Nessuno “comanda” più dell’altro. Ciascuno “definisce” l’altro. È così che la determinazione di una pena detentiva, sia nel momento in cui è stabilita dalla legge attraverso un delta tra minimo e massimo, sia nel momento in cui è concretamente applicata dal giudice, deve soddisfare una duplice esigenza: essere di rimedio al sistema di difesa sociale che è stato leso dalla condotta criminosa; ed essere efficace nei confronti del colpevole/condannato. Ignorare questa esigenza equivarrebbe a fare una inutile astrazione del diritto dalla realtà, come avrebbe voluto Kelsen (e comunque, anche Kelsen si trovava costretto ad ammettere che il precetto normativo esiste “quantisticamente” nel momento in cui viene applicato validamente, e non solo pensato in astratto).

Sì, è proprio questo inscindibile rapporto tra la sanzione e il TEMPO che induce il giudice a ragguagliare la prima al secondo: non potendo eliminare il rapporto, si punta a variare i due termini della frazione. Ecco che avremo un variegato panorama in cui la pena detentiva subirà le più innumerevoli variazioni: le aggravanti la accresceranno (nella durata, quindi nel TEMPO); le attenuanti la allevieranno (nella durata, quindi nel TEMPO); il cumulo di più reati tra loro collegati condurrà alla comminazione della sola pena per il reato più grave, ma con un aumento (nella durata, quindi nel TEMPO); sanzioni alternative potranno sostituire quella principale, ma con precisi rapporti di durata (quindi nel TEMPO); e alla fine, un ergastolo potrà aggiungersi a un altro: e poco importa che si viva una volta sola (nel TEMPO) …

8. Nel diritto amministrativo il Tempo può... tornare indietro!

E non abbiamo ancora parlato di un’altra branca del diritto: il diritto amministrativo, ossia quel corpus che regola il funzionamento della Pubblica Amministrazione e i suoi rapporti con il cittadino. Solo un cenno, niente paura. Di fronte ad un atto amministrativo che incide sulla sua posizione giuridica, il cittadino ha possibilità di impugnazione avanti un tribunale, e qui giocano termini processuali e quant’altro, che già abbiamo visto. Un atto amministrativo che non venga impugnato nei termini, diviene definitivo nei confronti del soggetto verso cui è diretto ma … con un “ma”. Un “ma” tutto particolare. Se i termini sono decorsi, quindi se il TEMPO è trascorso, il cittadino rimane inciso dal provvedimento. Ma siccome nel diritto amministrativo vige il superiore principio della buona amministrazione, qualora l’ente che ha emesso l’atto si ravveda in punto alla legittimità dell’atto medesimo, può revocarlo d’ufficio, come suol dirsi, in autotutela (nel senso che la P.A. si “autotutela” riaffermando il principio di buona amministrazione che essa deve perseguire ma che aveva violato).

In pratica, il privato, di fronte a un atto amministrativo per lui lesivo che il TEMPO ha reso definitivo, può ancora invocare un rimedio in autotutela da parte dell’amministrazione. Il che equivale a dire, per quanto interessa la nostra conversazione, che il TEMPO ha sì determinato l’insorgere di una situazione giuridica nuova rendendo definitivo un atto non impugnato nei termini; ma (ecco il “ma”) il diritto tornerà a prevalere sul TEMPO, con un processo a ritroso, ricostituendo lo status quo ante. Ciò che non è possibile alla Fisica, è possibile al Diritto.

Sommario:

1. Con il TEMPO, un diritto nasce: l’usucapione;

2. Con il TEMPO, un diritto muore: la prescrizione;

3. Il diritto va fatto valere: in... TEMPO;

4. Prevale la Norma o il Tempo? Il diritto vivente, la desuetudine, la consuetudine;

5. I sistemi giuridici consuetudinari. Il Common Law;

6. I sistemi giuridici consuetudinari confessionali;

7. Tempo e Norma nel diritto penale;

8. Nel diritto amministrativo il Tempo può... tornare indietro!

 

Abstract

In questa conferenza, tenuta il 25 settembre 2015 a Piacenza nel più ampio ciclo “Il tempo: grande scultore”, gli Autori dissertano in modo divulgativo su come il Tempo possa influire sulla formazione delle norme e, più in generale, sui sistemi giuridici.

 

1. Con il TEMPO, un diritto nasce: l’usucapione

Nel sistema romano, e di riflesso quindi nel sistema giuridico nostro e di buona parte dei paesi dell’Europa continentale e dell’America latina, il fattore TEMPO era quasi un’ossessione: dal trascorrere del tempo poteva dipendere l’esistenza o meno di un diritto della persona.

Molto in generale: non essere titolari di un diritto non era (non è) un problema: è sufficiente averlo esercitato di fatto per un certo lasso di tempo, che quel diritto si può acquisirlo, divenirne titolari. È quella che viene chiamata usucapione, da usu-càpere, ottenere con l’uso.

L’usucapione è ancora presente nel nostro ordinamento: ancor oggi il possesso protratto per un determinato periodo di tempo fa acquisire al possessore la titolarità del diritto reale corrispondente alla situazione di fatto esercitata (articolo 1158 Codice Civile). Costituisce, quindi, un modo di acquisto a titolo originario (quindi senza che vi sia un “dante causa”, un soggetto che me lo cede) del diritto di proprietà e dei diritti reali minori.

La ratio dell’usucapione va ricercata nell’opportunità, dal punto di vista sociale, di favorire chi, nel tempo, utilizza e rende produttivo il bene a fronte di un proprietario che lo trascura. Quest’ultimo, tuttavia, lo vive come un’ingiustizia.

Possono acquisirsi per usucapione tutti i beni: immobili (quindi case, terreni: quante volte avrete sentito parlare dell’usucapione dei terreni agricoli); mobili, beni mobili registrati… con esclusione dei soli beni demaniali e dei beni del patrimonio indisponibile dello Stato.

I requisiti quali sono?

1) Il POSSESSO del bene: da notarsi che rileva non solo il possesso in buona fede ma anche “di mala fede”. Tuttavia se il possesso illegittimo viene acquisito con violenza (rapina) o clandestinità (furto) il decorso del tempo utile per usucapire inizia a computarsi solo quando cessano la violenza o la clandestinità: è solo da tale momento, infatti, che il precedente possessore, vittima dell’atto violento o clandestino, potrebbe agire in giudizio per ottenere il recupero del bene: se omette di farlo deve subire le conseguenze della sua colpevole inerzia.

2) La CONTINUITA’ nel possesso del bene per un determinato periodo di tempo. Peraltro chi intende usucapire non ha l’obbligo di aver posseduto per tutto il tempo necessario, dimostrando il possesso giorno per giorno (prova diabolica, come diabolico è il TEMPO!): è sufficiente che il possessore dimostri di possedere ora e di aver posseduto in un tempo più remoto: la legge agevola il possessore, presumendo che il possesso si sia protratto anche per il periodo intermedio.

In epoca romana, il TEMPO aveva tale forza che si poteva diventare proprietari persino… della moglie! Infatti, nel diritto romano il pater familias, in quanto titolare di una posizione giuridica legittimante all’interno della famiglia, era il titolare di tutti i diritti ascrivibili alla famiglia stessa (la patria potestas, nei confronti dei figli; la dominica potestas, sui beni della famiglia – schiavi e cose). Il diritto romano era così coerente che, a quel punto, doveva riconoscere che il marito potesse diventare proprietario persino della consorte: tale era la manus maritalis. Sennonché, in quel sistema giuridico (con molte differenze rispetto all’antico diritto greco) la moglie era anch’essa soggetto giuridico (non dimentichiamo che essa rimaneva proprietaria dei suoi beni personali, i cosiddetti paraphernalia) e ciò entrava in stridente contrasto col fatto di poter cadere in proprietà di chicchessia, marito compreso. Per evitare il conflitto normativo si ricorreva a una fictio juris, ossia una finzione giuridica: ogni anno la moglie si allontanava dalla famiglia per tre notti (trinoctii usurpatio) e così facendo si interrompeva il periodo temporale dell’usus.

2. Con il TEMPO, un diritto muore: la prescrizione

Il decorrere del tempo operava, e opera tuttora, anche in senso inverso. Tu hai un diritto? Senza per il momento sottilizzare sulla differenza tra diritti reali e diritti di obbligazione, se questo diritto non lo eserciti per un dato lasso di tempo, variabile a seconda dei casi, allora lo perdi. È il reciproco dell’usucapione. È la PRESCRIZIONE. Ed è presente sia nel diritto civile che nel diritto penale.

Vediamo che cos’è la prescrizione: articolo 2934 Codice Civile; la prescrizione è l’istituto giuridico che produce l’estinzione di un diritto soggettivo per l’inerzia del suo titolare che non lo esercita o non ne usa, per un determinato periodo di TEMPO previsto dalla legge. Il suo fondamento è analogo a quello dell’usucapione: l’esigenza di dare certezza ai rapporti giuridici e alle situazioni di fatto che devono intendersi consolidate in ragione del loro protrarsi nel TEMPO.

Se un diritto soggettivo non viene esercitato per lungo tempo si forma nella generalità delle persone la convinzione che lo stesso non esista, o che sia stato “abbandonato” dal titolare. D’altro canto, se sorgono contestazioni, è molto difficile, dopo un lungo lasso di TEMPO, la dimostrazione della nascita e della correlativa estinzione di un rapporto giuridico: se ci contestano un mancato pagamento, per esempio di un debito di decine di anni fa, come si può pensare o pretendere che si sia conservata la ricevuta per dimostrare che il pagamento è stato effettuato?

L’esigenza di certezza nei rapporti giuridici è così importante che la prescrizione è un istituto di ordine pubblico: ciò significa che le norme che stabiliscono l’estinzione del diritto e il TEMPO necessario per l’estinzione sono INDEROGABILI (articolo 2936 Codice Civile). Quindi le parti non possono rinunciare preventivamente alla prescrizione, con un contratto, né possono prolungare o abbreviare i TEMPI previsti dalla legge.

Diversa è invece la situazione rispetto alla rinunzia successiva al decorso del termine di prescrizione: una volta verificatasi la prescrizione con il decorso del termine previsto, sarà interesse esclusivo del soggetto che se ne è avvantaggiato decidere se farla valere o meno.

È  il soggetto, che decide se avvalersi del TEMPO trascorso. Gli altri dovranno subire la sua decisione, e poco importa che la vivano, ancora una volta, come un’iniquità, non cogliendo il confine tra Diritto e Giustizia. Diciamo che avvalersi della prescrizione estintiva, infatti, può non sembrare conforme all’etica, apparendo come un ”empium remedium“ (il compratore ha ricevuto a suo tempo la merce, sa di non aver pagato, ma si avvale della prescrizione). Perciò il nostro Codice Civile si rimette alla valutazione dell’interessato: l’articolo 2937, comma 3, del Codice Civile consente la rinuncia alla prescrizione una volta che essa si è compiuta.

Sempre in virtù del principio per cui la prescrizione non opera automaticamente, il debitore che abbia pagato spontaneamente un debito prescritto non può poi farsi restituire quanto versato: filosoficamente potremmo dire che, se si è avvalso del decorso del TEMPO, del TEMPO deve accettare le regole e non può poi tornare … al passato!

La prescrizione presuppone, in capo al titolare del diritto, un’inerzia INGIUSTIFICATA (e l’etimologia ci riconduce ancora alla GIUSTIZIA): essa quindi non opera quando vi sia una causa che giustifichi l’inerzia, bensì rimane sospesa (per particolari rapporti intercorrenti tra le parti; o per una condizione del titolare (per esempio, il titolare è minorenne, o militare in guerra).

La prescrizione opera anche nell’ambito del diritto penale. Valga solo un accenno.

Si distingue la prescrizione del reato dalla prescrizione della pena. La differenza sta nel fatto che la prima opera anteriormente a una sentenza di condanna (incidendo sulla punibilità in astratto, estinguendo la potestà statale di applicare la pena minacciata) mentre la seconda ne presuppone l’emanazione.

La prima è prevista dall’articolo 157 del Codice Penale. In questo caso il reato si ESTINGUE per prescrizione, che si verifica dopo un determinato periodo di TEMPO stabilito dal codice in maniera rigorosa (ma con una macchinosità sulla quale non ci soffermiamo).

La prescrizione risponde a un principio di economia dei sistemi giudiziari in base al quale lo Stato rinuncia a perseguire l’autore di un reato, quando dalla sua commissione sia trascorso un periodo di tempo giudicato eccessivamente lungo e solitamente proporzionale alla gravità dello stesso. In altre parole, si intende evitare che la macchina giudiziaria continui – nel TEMPO – a impegnare risorse per la punizione di reati commessi troppo tempo prima e per i quali è socialmente meno sentita l’esigenza di una tutela giuridica penale, e ciò anche nell’ottica della funzione socialmente rieducativa della pena (articolo 27 della Costituzione). Inoltre l’istituto assolve, nelle intenzioni del legislatore, alla funzione di garantire l’effettivo diritto di difesa all’imputato. Infatti, col passare del TEMPO è sempre più difficile per lo stesso imputato fornire e recuperare fonti di prova a suo favore: la prescrizione evita quindi eventuali abusi da parte del sistema giudiziario che potrebbero intervenire nel caso in cui il reato venisse perseguito a lunga distanza di tempo, e funge da stimolo affinché l’azione dello Stato contro i reati sia rapida e puntuale.

I reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo sono però imprescrittibili.

Il decorso del tempo incide anche sulla pena inflitta con sentenza passata in giudicato. La prescrizione estingue la pena se dopo un determinato periodo di tempo (stabilito dalla legge) la sentenza di condanna non viene eseguita. Il decorso del tempo non estingue la pena dell’ergastolo e le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna.

3. Il diritto va fatto valere: in... TEMPO

Diritti che nascono e diritti che si perdono, e tutto per colpa del TEMPO. Sennonché io posso avere tutti i diritti che voglio, ma per farli valere devo sottostare a un preciso rispetto dei TEMPI, ossia devo osservare i TERMINI PROCESSUALI (= scadenze). Ne abbiamo per tutti i gusti: termini di decadenza, termini “perentori” o anche solo termini “ordinatori” – per non parlare dei termini “acceleratori”.

Una sentenza mi condanna? Dovrò adempiere, ma la legge mi riconosce un lasso di TEMPO prima di farlo. Persino nel diritto romano, che con i condannati non andava tanto per il sottile, al condannato era concesso un termine di 30 giorni per pagare il debito; solo trascorso questo TEMPO scattava l’ira funesta del suo creditore, il quale poteva catturarlo ovunque lo trovasse e condurlo avanti il giudice compiendo la manus iniectio (una imposizione), col diritto di tenerlo con sé legato per 60 giorni e, dopo una complessa procedura, venderlo al mercato.

4. Prevale la Norma o il Tempo? Il diritto vivente, la desuetudine, la consuetudine

Siamo partiti da concetti derivati dal diritto romano proprio per sottolineare come pure a distanza di due millenni, il TEMPO, inteso quale categoria mentale, rimane sovrano rispetto alla norma giuridica. Piaccia o non piaccia. Non è la NORMA che incide sul TEMPO. È il TEMPO che determina la NORMA. Non foss’altro che negli effetti che essa produce.

Addirittura, potremmo dire che il TEMPO governa al posto della legge.

L’uomo scrive la legge, ma non può evitare che la società si evolva. Col mutamento – nel TEMPO – dei costumi, la società si vede a un certo punto costretta ad adeguare norme che, altrimenti, sarebbero anacronistiche. Pochi esempi per tutti: le norme penali sull’offesa al pudore, o sui diritti intermatrimoniali, che nel corso degli anni hanno visto graduali ma costanti adattamenti al comune sentire, il quale non rimane sempre uguale nel TEMPO (chi non ricorda gli anni ‘70, quando il topless femminile sulle spiagge era pervicacemente perseguito dai Carabinieri su mandato di inflessibili pretori?). Ma gli esempi sono tantissimi e confermano la supremazia del TEMPO sulla legge.

Dicevamo: se, di fronte al mutare della società (mutare delle sue condizioni economiche, mutare delle sue concezioni morali ed etiche, etc.), la società non reagisse modificando la norma, quest’ultima diverrebbe anacronistica. E parlando di “anacronismo”, siamo quindi sempre fermi alla costante “TEMPO”. Se ci pensate, infatti, nell’etimologia del vocabolo “anacronismo” risiede né più né meno che un GAP TEMPORALE, poiché una condizione sociale non muta da un giorno all’altro, ma impiega un ampio lasso di TEMPO. Prima che la norma anacronistica venga formalmente modificata e adeguata, possono decorrere anche anni, e nel frattempo la società vive una situazione di conflitto interno, dove il comportamento sociale e la norma si rincorrono al punto che, prima di essere modificata formalmente, la norma varia “di fatto”: è quel fenomeno che i giuristi chiamano “diritto vivente”, in contrapposizione – o meglio, in contiguità – con il “diritto vigente”. Il diritto “vivente” non esiste formalmente, ma si impone “di fatto”, attraverso l’interpretazione della norma che viene offerta dalla giurisprudenza, proprio al fine di adeguarla – in sede applicativa - alle situazioni concrete. Può succedere anche il rovescio: che una norma, pur continuando a esistere, non venga più applicata. È la desuetudine, ossia la costante disapplicazione di una norma ormai anacronistica, e ciò malgrado la sua esistenza formale. Si sono versati fiumi di inchiostro su questi concetti, e a stretto rigore dovremmo dire che tanto la forzatura della norma attraverso la sua reinterpretazione (= diritto vivente), tanto la sua disapplicazione (= desuetudine) in sé e per sé sarebbero persino illegittimi. Ma il risultato non cambia: vuoi attraverso la reinterpretazione, vuoi per desuetudine, alla fine di questo processo la norma “formale” cederà; cederà al TEMPO che l’ha resa anacronistica e dovrà essere modificata. Modificata, o addirittura abrogata: il TEMPO ne avrà decretato la fine; il TEMPO avrà condannato a morte la norma.

In analogia a tutto questo, abbiamo la consuetudine, ossia il comportamento di fatto che diventa norma. Attenzione: non è un semplice fenomeno sociale. La consuetudine regge il Common Law anglosassone e i diritti confessionali. Ne parleremo tra poco, e vi accorgerete di come solo apparentemente la norma si imponga sul TEMPO. In realtà, ancora una volta sarà il Tempo a imporsi sulla legge e vedremo insieme come e perché.

Può una norma non formalizzata (la formalizzazione si ha attraverso il suo inserimento “scritto” in una legge, o comunque in un corpus sistematico: il cosiddetto diritto “positivo”, da positus), dicevo, può una norma non formalizzata valere come norma?: la risposta è sì; ed è ancora una volta il fattore TEMPO a conferirle questa sacralità. Già abbiamo visto nell’usucapione come il comportamento di fatto, protrattosi nel tempo, crei un diritto soggettivo. Qualcosa di analogo avviene nel diritto oggettivo, allorché un comportamento sociale, per il solo fatto di protrarsi nel TEMPO, assume per la società la valenza di opinio juris et necessitatis: è il caso della CONSUETUDINE.

Nel diritto italiano, affinché un uso o consuetudine assurga a fonte di diritto occorrono due elementi: un elemento materiale (oggettivo) e un elemento psicologico (soggettivo). L’elemento materiale consiste in una pratica uniforme e costante, tenuta per lungo tempo dalla generalità degli interessati in un particolare ambito di rapporti. Non è possibile fissare in termini precisi e generalmente validi la durata minima necessaria affinché una pratica si consolidi in consuetudine (il Codice di Diritto Canonico, al canone 27, la fissa in 40 anni; il Common Law, che vedremo, esige che sia anteriore all’anno 1189, la fine del regno di Enrico II). Nel diritto italiano possiamo solo dire che non è necessario che essa risalga a tempi immemorabili; è sufficiente che il TEMPO decorso le abbia consentito di acquistare dignità di norma agli occhi dei consociati. L’elemento psicologico si forma di conseguenza, allorché la pratica costante viene tenuta con la convinzione che essa sia obbligatoria, perché conforme a una regola giuridica (appunto, l’opinio juris et necessitatis); in mancanza di questa convinzione si ha solo un uso di fatto: dare la mancia, scambiarsi doni natalizi, sono consuetudini di fatto, prive di carattere normativo, quindi non creano diritto.

Invece, stipulare un contratto di locazione di un appartamento dando al contratto, invece che la durata dell’anno solare, quella dell’annata agraria (11 maggio / 11 novembre) che pure con l’appartamento non c’entrerebbe nulla, questa sì, è una consuetudine fonte di diritto (è un uso locale, ed è tipico del piacentino!).

5. I sistemi giuridici consuetudinari. Il Common Law

La consuetudine (uso o consuetudine, è la stessa cosa) è fonte di diritto nel nostro sistema giuridico in via subordinata e accessoria, ma non è così in tutti i differenti sistemi, poiché nel diritto anglosassone (Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, India, etc.) essa è la principale, se non unica, fonte di diritto, con prevalenza persino sulla norma scritta. Qui ci sono ragioni storiche. Prima dell’anno 1000 sul territorio britannico coesistevano norme di origine germanica e norme di diritto romano e canonico. Con la conquista del 1066 ad opera del normanno Guglielmo il Conquistatore (battaglia di Hastings, illustrata nell’arazzo di Baieux) inizia l’unificazione politica di Gran Bretagna (esclusa la Scozia), Irlanda, Normandia, Bretagna francese e giù lungo la costa atlantica quasi sino alla Linguadoca, con conseguente unificazione anche del diritto. Questo diritto unificato venne chiamato “diritto comune”, cioè Common Law. La corte reale divenne il centro della vita amministrativa e giuridica del nuovo regno. Intorno alla curia regis si condensò ben presto un ceto professionale forense che, basandosi sulla stratificazione della casistica affrontata via via nel TEMPO, decideva le controversie applicando di volta in volta la regola del “precedente” giurisprudenziale. Facciamo un salto di secoli per dire, sia pure con molta approssimazione, che ancora oggi il fulcro del diritto anglosassone risiede nel Common Law e nell’applicazione ad ogni caso concreto del principio di diritto che scaturisce non da una norma scritta, bensì da un precedente giurisprudenziale. Un precedente nel TEMPO. Vale a dire che nel Common Law sono le sentenze che valgono, oltre che nel caso concreto in cui vengono pronunciate, anche come regola per il successivi casi analoghi. Il che non avviene nel nostro sistema, dove la giurisprudenza (l’insieme delle decisionioni dei giudici) è solo indicativa, ma non obbliga il giudice successivo a decidere conformemente ai casi precedenti. Il Common Law è perciò un diritto essenzialmente consuetudinario.

Con la consuetudine si profila una situazione paradossale: il protrarsi di un comportamento, il reiterarsi di un “precedente”, diventa legge. In una parola: il TEMPO determina la formazione della norma; quest’ultima a sua volta tenderà a governare tirannicamente sul TEMPO che l’ha creata, opponendosi a qualsiasi trasformazione da parte del suo creatore. Diciamo che la cristallizzazione della norma consuetudinaria tenderà a rimanere stabile nel TEMPO, questo sì, ma dovrà soccombere e vedremo come.

6. I sistemi giuridici consuetudinari confessionali

Questa tendenza all’immutabilità della norma è ciò che riscontriamo nei sistemi giuridici di impronta confessionale: i diritti tribali, ma soprattutto il diritto islamico. I sistemi giuridici confessionali, in quanto ispirati alla religione, inevitabilmente pretendono di essere immutabili nel TEMPO. E non potrebbe essere diversamente, poiché altrimenti è come se negassero la validità oggettiva dei precetti religiosi cui si rapportano, intangibili per definizione.

Nelle società arcaiche o primitive, che si autodisciplinano col senso di responsabilità collettiva, emerge sempre l’individuo che si arroga la conoscenza di un comportamento “giusto” per eccellenza (elaborato empiricamente, o rivelatogli per trascendenza). Costui tende così a imporre ai consociati quel comportamento come norma, paventando una superiore punizione collettiva alla devianza (le dieci piaghe d’Egitto, comminate dal dio del Vecchio Testamento per punire il comportamento del faraone sugli ebrei).

TEMPO, comportamento e valori si ricompongono in una unità indistinta che si riverbera sul diritto: vedasi il senso del dharma per il diritto indiano (contrapposto al vyavahara, il diritto civile) che, se non rispettato, imprigiona nel ciclo delle reincarnazioni (samsara) per un TEMPO eterno; in parte, anche il fa nel diritto cinese, il precetto giuridico che si affianca al li, precetto morale. In tutti, il TEMPO è condizione essenziale.

Nel diritto tribale, campo variegatissimo, un esempio per tutti può essere quello dei fady e dei fomba delle tribù del Madagascar: i Fady, ascritti agli antenati e rielaborati dai saggi del villaggio, sono dei taboo, ossia delle interdizioni che possono riguardare per esempio il cibo, i luoghi, il tempo per compiere certi atti, il sesso, etc. A poco vale la resistenza che i giovani malgasci, più moderni, cercano di opporre: i Fady rimangono il principio regolatore della vita sociale e individuale. Molti Fady sono in stretta relazione col divino (Vintana) mentre altri riguardano la sfera sociale; per esempio, negare l’ospitalità ad uno straniero può essere un Fady. Queste consuetudini, col passare del TEMPO, nella loro sacralità possono diventare dei Fomba, ossia precetti etico-religiosi assistiti da efficacia coattiva, e quindi giuridica. Non rispettare un costume di questo tipo significa offendere la tradizione e, di riflesso, gli antenati. Un esempio: quando si beve, durante un avvenimento, bisogna versare un goccio della bevanda a terra per offrirla agli antenati. Offendere gli antenati equivale a offendere il consorzio sociale in cui si vive e comporta una reazione sanzionatoria da parte della tribù, che va ad aggiungersi a quella spirituale: qui il precetto etico-religioso si fa precetto giuridico. Concettualmente non siamo molto distanti dagli albori della storia romana, allorquando, non essendosi ancora formato il ius, la società latina era regolata dal fas (da cui nefas, nefasto) fino all’avvento delle XII Tavole (450 a.C.).

Il diritto islamico (sharia), altro diritto di natura confessionale, com’è noto trova le sua fondamenta negli insegnamenti che il profeta Mohamed ha riversato nel Corano quale rivelazione divina. Siamo nel VII secolo. La rivelazione, in verità, si era poi vista oggetto di un processo di elaborazione teologica troppo rapida e ardita; per cui, a partire dal IX secolo il Corano venne integrato con altri testi, che raccoglievano i comportamenti e i detti (adith = editto), del Profeta, da cui desumere regole di comportamento non espresse dal Corano: il loro insieme costituisce la tradizione sacra, o Sunna. Corano e Sunna lasciavano però ancora troppi problemi insoluti, per risolvere i quali era necessario il consenso della comunità dei giuristi e dei teologi musulmani; consenso che, per essere valido, doveva essere unanime. Nella difficoltà di questa unanimità, nacquero quattro scuole ortodosse (hanafita, malikita, shafiita e hanbalita) e numerose scuole eretiche, che operarono l’estensione della sharia con una certa libertà sino alla caduta della dinastia degli Abbasidi (anno 935) e alla conseguente chiusura della “porta dello sforzo” (bab al-ijtihad), lo sforzo esegetico ed ermeneutico, e alla cristallizzazione del diritto islamico come lo conosciamo oggi (il fiq). Ma ecco che interviene il TEMPO a rompere le uova nel paniere.

Affinché un sistema giuridico che si professi immutabile possa attagliarsi a una società che, inevitabilmente, si evolve nel TEMPO, occorrono degli adattamenti: questi sono le fictio[nes] juris, ossia delle finzioni, appunto. Esistono anche nel diritto italiano, ma nel diritto islamico sono emblematiche. La sharia vieta il prestito a interesse? Sì, però non vieta la donazione, anzi la incoraggia in quanto atto di liberalità. Così io oggi dono a te 100 monete e tu ti impegni a donare a me 110 tra un anno. Vogliamo anche aggiungere un pegno? Il diritto sacro lo vieta, ma non vieta la vendita di merci. Così, in aggiunta al prestito simulato, tu oggi mi vendi un bene per 100 monete e io mi impegno a rivendertelo tra un anno allo stesso prezzo, allorché tu mi avrai donato i 110 che dicevamo prima. Voglio lasciare la mia eredità tutta al mio figlio maschio e non anche alla femmina? Il diritto sacro assicura i diritti delle donne, ma incoraggia anche le istituzioni benefiche. Così, mi basterà destinare la mia eredità a una fondazione che sarà istituita alla mia morte e che avrà lo scopo statutario di beneficiare tutte le iniziative che prenderà il mio figlio maschio. Insomma: se la legge pretende di essere immutabile, sarà il TEMPO a governare al suo posto.

7. Tempo e Norma nel diritto penale

Ma vi è un ambito in cui, invece, il rapporto NORMA/TEMPO sembra divenire ambiguo: il diritto penale. Rispetto al diritto civile, qui le esigenze sono molto diverse: a fronte del verificarsi di una condotta criminosa il sistema giuridico reagisce, da una parte, tentando di mantenere integra la difesa sociale; dall’altra, incidendo sul soggetto agente sottoponendolo a una sanzione di natura restrittiva della sua libertà. Ma qui la situazione si complica, poiché nelle scuole di pensiero che si sono succedute all’insegnamento del Beccaria, alla natura afflittiva della sanzione si è voluto associare un intento rieducativo e di reinserimento sociale del reo. Ecco che alla misura sanzionatoria topica – ossia il carcere – si sono sostituite o affiancate altre forme di sanzione volte a mitigare l’aspetto afflittivo in favore di quello recuperatorio (esempi: gli arresti domiciliari, l’affidamento ai servizi sociali, ecc.; o addirittura la sostituzione della pena detentiva con pene pecuniarie, dove si dà il valore di 250 euro ad ogni giorno di detenzione sostituito, ma – il TEMPO! – per non oltre tre mesi). Non è questa la sede per approfondire questo tema; ciò che invece importa sottolineare è che nel diritto penale il rimedio che la società ha per ovviare alla devianza non va ricercato – purtroppo! - in strumenti preventivi, ma nella sanzione, che per definizione è ex post. E la sanzione è ancora una volta affidata al TEMPO, poiché è al TEMPO che essa viene commisurata. Afflittiva o rieducativa che sia, la detenzione in quanto tale non produce effetti se non in stretta relazione – oltre che alle sue modalità - alla sua durata. Perché dicevamo che nel diritto penale il rapporto NORMA/TEMPO si fa ambiguo? perché nessuno dei due può fare a meno dell’altro.

NORMA (sanzionatoria) e TEMPO sono tra loro in stretta e inscindibile correlazione. Nessuno “comanda” più dell’altro. Ciascuno “definisce” l’altro. È così che la determinazione di una pena detentiva, sia nel momento in cui è stabilita dalla legge attraverso un delta tra minimo e massimo, sia nel momento in cui è concretamente applicata dal giudice, deve soddisfare una duplice esigenza: essere di rimedio al sistema di difesa sociale che è stato leso dalla condotta criminosa; ed essere efficace nei confronti del colpevole/condannato. Ignorare questa esigenza equivarrebbe a fare una inutile astrazione del diritto dalla realtà, come avrebbe voluto Kelsen (e comunque, anche Kelsen si trovava costretto ad ammettere che il precetto normativo esiste “quantisticamente” nel momento in cui viene applicato validamente, e non solo pensato in astratto).

Sì, è proprio questo inscindibile rapporto tra la sanzione e il TEMPO che induce il giudice a ragguagliare la prima al secondo: non potendo eliminare il rapporto, si punta a variare i due termini della frazione. Ecco che avremo un variegato panorama in cui la pena detentiva subirà le più innumerevoli variazioni: le aggravanti la accresceranno (nella durata, quindi nel TEMPO); le attenuanti la allevieranno (nella durata, quindi nel TEMPO); il cumulo di più reati tra loro collegati condurrà alla comminazione della sola pena per il reato più grave, ma con un aumento (nella durata, quindi nel TEMPO); sanzioni alternative potranno sostituire quella principale, ma con precisi rapporti di durata (quindi nel TEMPO); e alla fine, un ergastolo potrà aggiungersi a un altro: e poco importa che si viva una volta sola (nel TEMPO) …

8. Nel diritto amministrativo il Tempo può... tornare indietro!

E non abbiamo ancora parlato di un’altra branca del diritto: il diritto amministrativo, ossia quel corpus che regola il funzionamento della Pubblica Amministrazione e i suoi rapporti con il cittadino. Solo un cenno, niente paura. Di fronte ad un atto amministrativo che incide sulla sua posizione giuridica, il cittadino ha possibilità di impugnazione avanti un tribunale, e qui giocano termini processuali e quant’altro, che già abbiamo visto. Un atto amministrativo che non venga impugnato nei termini, diviene definitivo nei confronti del soggetto verso cui è diretto ma … con un “ma”. Un “ma” tutto particolare. Se i termini sono decorsi, quindi se il TEMPO è trascorso, il cittadino rimane inciso dal provvedimento. Ma siccome nel diritto amministrativo vige il superiore principio della buona amministrazione, qualora l’ente che ha emesso l’atto si ravveda in punto alla legittimità dell’atto medesimo, può revocarlo d’ufficio, come suol dirsi, in autotutela (nel senso che la P.A. si “autotutela” riaffermando il principio di buona amministrazione che essa deve perseguire ma che aveva violato).

In pratica, il privato, di fronte a un atto amministrativo per lui lesivo che il TEMPO ha reso definitivo, può ancora invocare un rimedio in autotutela da parte dell’amministrazione. Il che equivale a dire, per quanto interessa la nostra conversazione, che il TEMPO ha sì determinato l’insorgere di una situazione giuridica nuova rendendo definitivo un atto non impugnato nei termini; ma (ecco il “ma”) il diritto tornerà a prevalere sul TEMPO, con un processo a ritroso, ricostituendo lo status quo ante. Ciò che non è possibile alla Fisica, è possibile al Diritto.