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Brevi cenni sul regime giuridico delle “Res mancipi” e delle “Res nec mancipi”

La distinzione tra “res mancipi” e “res nec mancipi” venne delineata primariamente dal giurista romano Gaio, nel commentario secondo delle sue “Institutiones”, precisando come tale distinzione si ponga all’interno del più ampio insieme di beni composto dalle “res privatae”.

Il giureconsulto, invero, sottolineando la “magna differentia” intercorrente tra i due generi di beni, contava tra le “res mancipi” i fondi, gli schiavi, gli animali da soma e da tiro, nonché le servitù prediali.

Tali erano senz’altro i beni di maggiore rilevanza economica, sia per il loro più elevato costo di produzione e valore venale, sia soprattutto per la somma ed il pregio maggiore delle utilità che esse prestavano all’uomo nelle opere di pace e di guerra (FILIPPO GALLO, Studi sulla distinzione fra “Res mancipi” e “Res nec mancipi”, in Rivista di Diritto Romano, IV, 2004, p. 13) e definite per tale ragione “pretiosores”.

Il giurista romano, così delineava la “divisio” in argomento:

Gai. Inst. 2.14 a – 17: Res <praeterea aut mancipi sunt aut> nec mancipi. Mancipi <sunt velut fundus in Italico solo>, item aedes in Italico solo <item servi et ea animalia quae colo dorsove domari solent, velut boves equi muli asini; item servitutes praediorum rusticorum. Nam servitutes> praediorum urbanorum nec mancipi <sunt>. Item stipendiaria pradia et tributaria nec mancipi sunt. Sed quod diximus <ea animalia quae domari solent> mancipi esse, <nostri quidem praeceptores haec animalia> statim ut nata sunt mancipi esse putant; Nerva vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse putant, quam si domita sunt; et si propter nimiam feritatem domari non possunt, tunc videri mancipi esse incipere, cum ad eam aetatem pervenirint in qua domari solent. <Aut> ferae bestiae nec mancipi sunt, velut ursi leones item ea animalia quae fere bestiarum numero sunt, veluti elephanti et cameli; et ideo ad rem non pertinet , quod haec animalia etiam collo dorsove domari solent,; nam ne nomen quidem eorum, animalium illo tempore <notum> fuit, quod constituebatur quasdam res mancipi esse, quasdam nec mancipi. Item fere omnia quae incorporalia sunt, nec mancipi sunt, exceptis servitutibus praediorum rusticorum; nam eas res mancipi esse constat, quamvis sint ex numero rerum incorporalium.

Orbene, secondo l’autorevole opinione di Pietro Bonfante «nell’una classe sono inclusi i beni di interesse sociale e nell’altra i beni che rivestono, per contro, un interesse esclusivamente individuale» (PIETRO BONFANTE, Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana, in Scritti giuridici varii, II, Torino, 1918, p.217); nondimeno, la distinzione tra “res mancipi” e “res nec mancipi” è rimasta a base del diritto romano per tutta l’epoca classica (PIETRO BONFANTE, Forme primitive, cit., p. 306 e ss.).

Dunque, tutte le “res mancipi” avevano un’esistenza duratura e presentavano un’autonoma individualità, e riunivano quindi in se stesse quelle qualità che, unitamente al loro più elevato pregio, rispetto alle altre cose, rendevano possibile e opportuna la realizzazione, in ordine ad esse, di una tutela più efficace al traffico giuridico, rispetto a quella realizzata in ordine alle altre cose (FILIPPO GALLO, Studi, cit., p. 36).

Tuttavia, la rilevanza giuridica di tale distinzione, atteneva più che altro ai modi di alienazione dei beni, diversificati a seconda che si trattasse di “res mancipi “ovvero di “res nec mancipi”: per le prime occorreva la “mancipatio” (la quale probabilmente in origine era l’unica forma di alienazione di tale genere di cose e che veniva definita “propria species alienationis rerum mancipi”, tanto che Gaio, in Inst. 2.22, fa derivare da essa il nome di “res mancipi”), ovvero anche la “in iure cessio” (il quale negozio serviva per tutte le “res”).

Il “dominium ex iure Quiritium” delle “res nec mancipi”, invece, si trasferiva oltre che per “in iure cessio”, anche per semplice “traditio”, pur tenendo presente che dal punto di vista della struttura tale ultimo negozio consisteva nella consegna materiale della cosa, ed era in primo luogo, un modo di trasferimento del possesso (MARIO TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 435).

E così:

Gai., Inst. 2.22: mancipi vero sunt quae per mancipationem ad alium transferuntur; unde etiam mancipi res sunt dictae.

Come anche:

Epitome Ulpiani, 19.3: mancipatio propria species alienationis est rerum mancipi.

Per quanto attiene al solenne atto della “mancipatio”, esso era deputato a trasferire, come detto, la proprietà dei beni maggiormente rilevanti, e poteva essere eseguito soltanto dai cittadini romani.

Rispetto alla più semplice “traditio”, la “mancipatio” comportava una più effettiva protezione alla “res” ceduta.

Dunque, posto che le “res mancipi” erano chiamate tali perché cedute attraverso la solenne forma negoziale della “mancipatio”, si ritiene comunemente che il giureconsulto Gaio abbia utilizzato tale ultimo vocabolo, corrente e diffuso ai suoi tempi, al posto del più arcaico “mancipium”.

Abbiamo visto che accanto alla “mancipatio” era altresì prevista, quale modalità di trasferimento della proprietà delle “res pretiosores”, altresì l’“in iure cessio”, sebbene l’ambito di applicazione di tale secondo negozio era costituito ̶ all’interno del “genus” dei diritti reali ̶ dai “iura in re aliena”, i quali, tranne per quanto attiene alle servitù prediali rustiche che potevano anche costituirsi con il rito “per aes et libram”, non si ritenevano passibili di “mancipatio” ovvero di “traditio”.

Successivamente, in era postclassica, con l’avvento di Giustiniano, la distinzione tra “res mancipi” e “res nec mancipi” cadde per mano della costituzione C.I. 7.31.1.5.

Invero, si ritiene più che altro che tale processo di decadimento sia avvenuto in concomitanza alla scomparsa dei negozi della “mancipatio” e della “iniure cessio”, fino addirittura al riconoscimento, all’interno del “ius praetorum”, della “traditio” quale valido metodo di trasferimento della proprietà anche per le “res mancipi”.

Dunque, se nella “traditio” in diritto classico veniva identificato un istituto deputato al trasferimento solo della “possessio” della cosa, la “mancipatio” invece era atta a trasferirne sempre la proprietà: l’eliminazione giustinianea di qualsivoglia riferimento alla “mancipatio” ha fatto sì che la “traditio” fosse funzionale anch’essa ai fini del trasferimento del diritto di proprietà (FILIPPO BRIGUGLIO, Studi sul procurator, Milano, Giuffè, 2007, p. 504).

Questo processo condusse, in epoca postclassica, altresì al notevole avvicinamento delle posizioni del possesso e della proprietà, proprio in virtù delle nuove potenzialità ricollegabili all’istituto giuridico della “traditio”, deputata a trasferire, a partire dal I. sec. a.C., l’“in bonis habere” per le “res mancipi”.

La distinzione tra “res mancipi” e “res nec mancipi” venne delineata primariamente dal giurista romano Gaio, nel commentario secondo delle sue “Institutiones”, precisando come tale distinzione si ponga all’interno del più ampio insieme di beni composto dalle “res privatae”.

Il giureconsulto, invero, sottolineando la “magna differentia” intercorrente tra i due generi di beni, contava tra le “res mancipi” i fondi, gli schiavi, gli animali da soma e da tiro, nonché le servitù prediali.

Tali erano senz’altro i beni di maggiore rilevanza economica, sia per il loro più elevato costo di produzione e valore venale, sia soprattutto per la somma ed il pregio maggiore delle utilità che esse prestavano all’uomo nelle opere di pace e di guerra (FILIPPO GALLO, Studi sulla distinzione fra “Res mancipi” e “Res nec mancipi”, in Rivista di Diritto Romano, IV, 2004, p. 13) e definite per tale ragione “pretiosores”.

Il giurista romano, così delineava la “divisio” in argomento:

Gai. Inst. 2.14 a – 17: Res <praeterea aut mancipi sunt aut> nec mancipi. Mancipi <sunt velut fundus in Italico solo>, item aedes in Italico solo <item servi et ea animalia quae colo dorsove domari solent, velut boves equi muli asini; item servitutes praediorum rusticorum. Nam servitutes> praediorum urbanorum nec mancipi <sunt>. Item stipendiaria pradia et tributaria nec mancipi sunt. Sed quod diximus <ea animalia quae domari solent> mancipi esse, <nostri quidem praeceptores haec animalia> statim ut nata sunt mancipi esse putant; Nerva vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse putant, quam si domita sunt; et si propter nimiam feritatem domari non possunt, tunc videri mancipi esse incipere, cum ad eam aetatem pervenirint in qua domari solent. <Aut> ferae bestiae nec mancipi sunt, velut ursi leones item ea animalia quae fere bestiarum numero sunt, veluti elephanti et cameli; et ideo ad rem non pertinet , quod haec animalia etiam collo dorsove domari solent,; nam ne nomen quidem eorum, animalium illo tempore <notum> fuit, quod constituebatur quasdam res mancipi esse, quasdam nec mancipi. Item fere omnia quae incorporalia sunt, nec mancipi sunt, exceptis servitutibus praediorum rusticorum; nam eas res mancipi esse constat, quamvis sint ex numero rerum incorporalium.

Orbene, secondo l’autorevole opinione di Pietro Bonfante «nell’una classe sono inclusi i beni di interesse sociale e nell’altra i beni che rivestono, per contro, un interesse esclusivamente individuale» (PIETRO BONFANTE, Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana, in Scritti giuridici varii, II, Torino, 1918, p.217); nondimeno, la distinzione tra “res mancipi” e “res nec mancipi” è rimasta a base del diritto romano per tutta l’epoca classica (PIETRO BONFANTE, Forme primitive, cit., p. 306 e ss.).

Dunque, tutte le “res mancipi” avevano un’esistenza duratura e presentavano un’autonoma individualità, e riunivano quindi in se stesse quelle qualità che, unitamente al loro più elevato pregio, rispetto alle altre cose, rendevano possibile e opportuna la realizzazione, in ordine ad esse, di una tutela più efficace al traffico giuridico, rispetto a quella realizzata in ordine alle altre cose (FILIPPO GALLO, Studi, cit., p. 36).

Tuttavia, la rilevanza giuridica di tale distinzione, atteneva più che altro ai modi di alienazione dei beni, diversificati a seconda che si trattasse di “res mancipi “ovvero di “res nec mancipi”: per le prime occorreva la “mancipatio” (la quale probabilmente in origine era l’unica forma di alienazione di tale genere di cose e che veniva definita “propria species alienationis rerum mancipi”, tanto che Gaio, in Inst. 2.22, fa derivare da essa il nome di “res mancipi”), ovvero anche la “in iure cessio” (il quale negozio serviva per tutte le “res”).

Il “dominium ex iure Quiritium” delle “res nec mancipi”, invece, si trasferiva oltre che per “in iure cessio”, anche per semplice “traditio”, pur tenendo presente che dal punto di vista della struttura tale ultimo negozio consisteva nella consegna materiale della cosa, ed era in primo luogo, un modo di trasferimento del possesso (MARIO TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 435).

E così:

Gai., Inst. 2.22: mancipi vero sunt quae per mancipationem ad alium transferuntur; unde etiam mancipi res sunt dictae.

Come anche:

Epitome Ulpiani, 19.3: mancipatio propria species alienationis est rerum mancipi.

Per quanto attiene al solenne atto della “mancipatio”, esso era deputato a trasferire, come detto, la proprietà dei beni maggiormente rilevanti, e poteva essere eseguito soltanto dai cittadini romani.

Rispetto alla più semplice “traditio”, la “mancipatio” comportava una più effettiva protezione alla “res” ceduta.

Dunque, posto che le “res mancipi” erano chiamate tali perché cedute attraverso la solenne forma negoziale della “mancipatio”, si ritiene comunemente che il giureconsulto Gaio abbia utilizzato tale ultimo vocabolo, corrente e diffuso ai suoi tempi, al posto del più arcaico “mancipium”.

Abbiamo visto che accanto alla “mancipatio” era altresì prevista, quale modalità di trasferimento della proprietà delle “res pretiosores”, altresì l’“in iure cessio”, sebbene l’ambito di applicazione di tale secondo negozio era costituito ̶ all’interno del “genus” dei diritti reali ̶ dai “iura in re aliena”, i quali, tranne per quanto attiene alle servitù prediali rustiche che potevano anche costituirsi con il rito “per aes et libram”, non si ritenevano passibili di “mancipatio” ovvero di “traditio”.

Successivamente, in era postclassica, con l’avvento di Giustiniano, la distinzione tra “res mancipi” e “res nec mancipi” cadde per mano della costituzione C.I. 7.31.1.5.

Invero, si ritiene più che altro che tale processo di decadimento sia avvenuto in concomitanza alla scomparsa dei negozi della “mancipatio” e della “iniure cessio”, fino addirittura al riconoscimento, all’interno del “ius praetorum”, della “traditio” quale valido metodo di trasferimento della proprietà anche per le “res mancipi”.

Dunque, se nella “traditio” in diritto classico veniva identificato un istituto deputato al trasferimento solo della “possessio” della cosa, la “mancipatio” invece era atta a trasferirne sempre la proprietà: l’eliminazione giustinianea di qualsivoglia riferimento alla “mancipatio” ha fatto sì che la “traditio” fosse funzionale anch’essa ai fini del trasferimento del diritto di proprietà (FILIPPO BRIGUGLIO, Studi sul procurator, Milano, Giuffè, 2007, p. 504).

Questo processo condusse, in epoca postclassica, altresì al notevole avvicinamento delle posizioni del possesso e della proprietà, proprio in virtù delle nuove potenzialità ricollegabili all’istituto giuridico della “traditio”, deputata a trasferire, a partire dal I. sec. a.C., l’“in bonis habere” per le “res mancipi”.