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La condizione giuridica e sociale dei liberti

I liberti o libertini sono gli schiavi che hanno acquistato la libertà mediante manomissione, mediante cioè l’atto volontario del loro padrone che li scioglie dalla dominica potestas. Diverse sono le teorie formulate in merito alla condizione di cui godevano questi soggetti: la dottrina dominante afferma, sulla base dell’esame delle fonti classiche, che la condizione giuridica dei liberti cittadini abbia vissuto un processo di evoluzione. Secondo il Cosentini, invece, gli schiavi manomessi in un primo periodo avrebbero goduto di una condizione di diritto uguale a quella degli ingenui ed, in un secondo periodo si ebbe un processo di progressiva involuzione che determinò la loro netta inferiorità rispetto agli ingenui e nei confronti del manomissore. Un altro autore, il Kaser, avanza poi una tesi del tutto peculiare. Scopo di questo lavoro è presentare tutte le principali ricostruzioni sul tema al fine di delineare un quadro più dettagliato possibile.

I liberti sono gli schiavi che hanno acquistato la libertà mediante manomissione. Le categorie dei liberti sono varie nel diritto romano: cittadini, latini, latini iuniani e peregrini. Liberti cittadini sono gli schiavi liberati mediante le forme cosiddette civili di manomissione: vindicta, censu, testamento.

La prima forma civile di manomissione è denominata vindicta. La dottrina dominante ritiene la manumissio vindicta un caso di in iure cessio, per cui dinanzi al pretore si presentava in iure un adsertor libertatis che rivendicava la libertà dello schiavo toccandolo con una verghetta, il dominus che avrebbe potuto legittimamente sostenere il proprio diritto sullo schiavo, non contraddiceva e veniva così riconosciuto dal magistrato lo status libertatis del servo. Già verso la fine della repubblica, tuttavia, tale forma di manomissione si presenta con caratteristiche molto diverse; essa si svolge dinanzi ad un magistrato competente, in qualunque luogo e non richiede l’intervento  dell’adsertor libertatis. È il dominus che dichiara con certa et solemnia verba di voler liberare il servo, accompagnando la dichiarazione con gesti rituali, fra i quali quello di toccare lo schiavo con la vindicta ed il magistrato dà efficacia a tale dichiarazione confermandola. Nel diritto giustinianeo poi, si ha testimonianza del fatto che la manumissio vindicta si riduce ad una dichiarazione, senza particolari formalità, resa dal domino al magistrato competente.

La seconda forma, la manumissio censu, consiste nell’iscrizione del servo nelle liste censuali degli uomini liberi, fatta con l’assenso del padrone in occasione delle operazioni di censimento svolte dai censori ogni cinque anni. L’iscrizione era fatta dal magistrato e da ciò si può chiaramente scorgere che il conferimento della cittadinanza e della relativa libertà erano rimesse alla discrezione di un organo della civitas. Dalle fonti risulta che la manumissio censu aveva luogo con l’iscrivere gli schiavi, iussu dominorum, nelle liste del censo.

La terza ed ultima forma di manomissione civile è mortis causa, ed è la manumissio testamento, disposta dal testatore in forma diretta ed imperativa. È questa la forma di manomissione più vantaggiosa per lo schiavo che diviene liberto senza patrono, non essendo legato da vincoli di soggezione verso chi lo ha manomesso, essendo questi ormai defunto.

Le fonti offrono rari spunti sulle origini delle manomissioni. In particolare un passo di Gaio, elenca le forme di manumissio secondo lo ius civile. È difficile stabilire se l’enumerazione gaiana sia storica, nel senso che la manumissio vindicta abbia un’origine più risalente rispetto a quelle censu e testamento, o se l’ordine dato rispecchi una maggiore importanza dell’una rispetto alle altre, anche perché altrove l’elenco risulta seguire una diversa successione: vindicta, testamento, censu. Molto discussi sono, in particolare, gli effetti e le origini della manumissio testamento.

Effetti delle varie forme di manumissione

Per quanto riguarda gli effetti delle varie forme di manumissio nota è la tesi del Mommsen secondo cui le manomissioni primitive non avrebbero assunto ancora una configurazione giuridica, avendo rilevanza solo di fatto.

La rinuncia allo schiavo avrebbe reso quest’ultimo soltanto una res derelicta. Tra l’altro, con la manomissione, i liberti non avrebbero certo acquistato lo status sociale del patriziato, originariamente unico presupposto per l’acquisto della cittadinanza, ma sarebbero divenuti clienti e plebei. Tra patrono e liberto si sarebbe stabilito solo un particolare rapporto clientelare che avrebbe dato luogo ad una sorta di libertà paragonabile all’in libertate morari dello schiavo manomesso in un periodo successivo senza forme solenni. Per questi motivi, inizialmente, le manumissiones non avrebbero conferito anche la cittadinanza. Anche Kaser si è occupato dell’origine e dello sviluppo delle diverse forme di manomissione, giungendo alla conclusione che sia la manumissio vindicta, sia la manumissio censu avrebbero comportato libertas e civitas fin dalla loro apparizione. Diversa la situazione per le manomissioni mortis causa, possibili fin dalle XII Tavole, che avrebbero conferito agli schiavi liberati, protetti però dal fortissimo legame della fides, uno status clientelare. Nella molteplicità di tesi più o meno contrapposte sui nessi tra manomissione e cittadinanza, disparità che è chiaramente favorita dalla quantità esigua di fonti a volte discordanti, appare arduo il tentativo di delineare un quadro della reale situazione. Per quanto riguarda la manumissio vindicta merita consenso la tesi secondo cui tale forma di manomissione sarebbe stata istituita a favore di cittadini che avessero perso la loro libertà o a causa di rapporti economici interni, come l’insolvenza dei debitori, o per delitti come il furto.

Per quanto concerne, invece, la manomissione censu è evidente che l’iscrizione nelle liste di censo significa la concessione definitiva della cittadinanza a pieno titolo.

Diversa è la situazione per la manomissione testamentaria. Quest’ultima ha creato maggiori difficoltà agli studiosi quanto al conferimento della cittadinanza, proprio per la mancanza – almeno per quanto riguarda la manumissio effettuata nell’ambito del testamentum per aes et libram – di partecipazione di organi in qualche modo rappresentativi della civitas quali il pretore per la vindicta o i censori per la censu. Da più parti è stata sottolineata l’antichità di questa forma di manomissione che sarebbe, quindi, da ricollegare alle forme testamentarie più risalenti, vale a dire soprattutto al testamentum calatis comitiis.

La libertinitas cioè lo stato di ex-schiavo affrancato, determinava limitazioni di capacità non solo iure publico (particolarmente con riguardo al ius honorum), ma anche iure privato. Anche quando il liberto, essendo stato affrancato con manumissio iusta ac legittima, acquistava la cittadinanza romana, la sua condizione era deteriore rispetto a quella dell’ingenuus nato libero: per esempio , la donna libertina per potersi liberare della tutela in base al ius liberorum delle leggi Giulia e Papia, doveva dimostrare di aver avuto almeno quattro figli, mentre per la donna ingenua erano sufficienti tre figli. Le limitazioni più sensibili però derivavano dal c.d. patronatus, cioè dal rapporto che si istituiva, a seguito della manumissio, tra l’ex-domino (patronus) e lo schiavo affrancato. A questo rapporto si sottraevano soltanto i c.d. liberti orcini, cioè gli schiavi manomessi dal padrone col suo testamento (il cui patrono era ab initio inesistente perché defunto); i liberti nullius (liberti dipendenti da nessun patrono), cioè gli schiavi affrancati eccezionalmente d’autorità, senza la volontaria manumissio del dominus; e gli ex-liberti, cioè coloro su cui il patrono avesse perduto il patronatus per disposizione di legge o per rinuncia.

Dall’indagine sulla natura ed il fondamento di queste forme di manomissione di ritiene che gli schiavi manomessi avrebbero dovuto godere di una condizione di diritto uguale a quella degli ingenui. Contraria a tale orientamento è però la testimonianza delle fonti classiche, che ci rappresenta i liberti in un’evidente condizione di inferiorità rispetto agli ingenui.

In realtà la dottrina è divisa sul punto; il Cosentini al riguardo è dell’idea che la parità giuridica tra liberti ed ingenui si ebbe solo nell’età più antica del diritto romano e che poi inseguito a leggi, editti pretori e vari altri interventi normativi si verificò un processo di progressiva involuzione della loro netta inferiorità rispetto agli ingenui e nei confronti del manomissore. La dottrina dominante, invece, è di diverso avviso, riscontrando nello studio della condizione giuridica dei liberti cittadini un processo di evoluzione che da una condizione iniziale di inferiorità sarebbe poi passata ad una condizione di parità comparativamente agli ingenui.

La dottrina ha affermato che la condizione dei liberti nei confronti del manomissore sarebbe stata sin dalle origini di netta inferiorità, anzi addirittura di soggezione, e che la manomissione non avrebbe estinto completamente il dovere del servizio domestico dell’ex schiavo, ma più semplicemente avrebbe attribuito ad esso un carattere ed un fondamento nuovo; in sostanza il cambiamento del manomesso da schiavo in liberto, pur importando un mutamento nella sua condizione giuridica non avrebbe influito sul complesso di doveri cui egli sarebbe stato tenuto nei confronti dell’antico dominus. Invero, alla dominica potestas, che prima gravava su di lui, si sarebbe sostituita in conseguenza della manomissione, una potestas patronale ugualmente rigorosa ed assoluta che avrebbe tenuto il liberto in uno stato di quasi servitù.

Uno dei motivi che ha deciso in dottrina il sorgere e la formulazione di una tale tesi è stato il riconoscimento di un particolare dovere cui sarebbe stato tenuto ab origine il liberto nei confronti del patrono: il dovere di obsequium. Si è detto che in conseguenza della manomissione all’obsequium servitutis dello schiavo verso il dominus si sarebbe sostituito l’obsequium liberti, che avrebbe importato, sul fondamento di una potestas patronale originaria, la continuazione post manumissionem del dovere dei servizi dell’ex schiavo verso l’antico dominus, ora chiamato patronus.

Il Kaser, tratteggiando in un breve studio la storia generale del diritto di patronato, ha sostenuto una tesi sulla condizione dei liberti negli antichissimi tempi dello stato romano, che è indubbiamente originale e per ciò stesso attraente.

L’Autore suppone come il Mommsen che già prima che fossero state introdotte le forme di manomissione civile, il dominus avrebbe avuto la possibilità di manomettere i suoi schiavi, precisando però che la manomissione in tale epoca non avrebbe potuto conferire ai servi la piena libertà giuridica poiché anche la manumissio testamento (secondo gli Autori già utilizzata in quest’epoca) non avrebbe potuto procurare al manomesso, anche attraverso l’approvazione dei comizi curiati, l’ingresso in alcuna delle gentes e quindi l’acquisto di una libertà protetta dal primitivo ius civile. La manomissione, in tale epoca, avrebbe avuto efficacia all’infuori dell’ambito dello ius civile e avrebbe conferito al liberto una libertà di fatto nell’ambito della domus patronale.

Il Kaser perciò non esita a concludere che l’atto di manomissione in tale epoca, sempre secondo le norme dello ius civile, avrebbe fatto permanere sul liberto la potestas del manomissore poiché il liberto giuridicamente sarebbe rimasto sempre uno schiavo. Di conseguenza il patrono avrebbe avuto il diritto di revocare a suo piacimento la libertà di fatto concessa al suo servo, avrebbe potuto trattare il liberto come un servo ed obbligarlo ai servizi più duri senza che per ciò potesse incorrere in alcuna sanzione. Se quanto ora detto secondo lo ius civile sarebbe potuto accadere impunemente, sarebbe però intervenuta, secondo il Kaser, una norma morale a disciplinare l’esercizio della potestas patronale su questi manomessi di fatto e a distinguere e diversificare nella domus patronale la condizione di costoro da quella dei servi: la fides. Questa norma morale,la fides appunto, era quella stessa fides che presiedeva ai rapporti tra patroni e clienti.

Nell’ambito della fides del patrono il liberto avrebbe trovato il riconoscimento della libertà di fatto acquisita e la disciplina dei doveri cui sarebbe stato tenuto verso il suo manomissore, se secondo il Kaser, l’ordinamento patriarcale primitivo avrebbe pure tutelato il liberto prendendo in considerazione ogni abuso del patrono.

Il potere di coercizione dei patroni sarebbe stato affidato ai censori, ma a tal proposito l’Autore fa notare come non ci sia pervenuta nessuna testimonianza di nota censoria contro un patrono ingiusto, però rileva che quando Dionisio dice che i censori intervengono per gli abusi di potere del dominus verso gli schiavi, non si possa dubitare che dovevano intervenire anche per proteggere i liberti. Ma l’ordinamento sacrale e la fides dei patroni secondo il Kaser avrebbero perduto la loro importanza con l’introduzione della manumissio vindicta, venuta in uso, secondo Livio, nel primo anno della Repubblica. Mediante le forme di manomissione civili il liberto acquistava una piena libertà nell’ambito dello ius civile e quindi questo ordinamento veniva naturalmente a sostituirsi a quello primitivo della fides del patrono. Ma il Kaser rileva che nonostante gli effetti della manomissione civile il liberto si sarebbe trovato sempre in condizione di inferiorità rispetto al patrono, per un insieme di particolari dall’Autore esaminati e discussi.

Bisogna comunque dire che le testimonianze analogiche addotte dal Kaser a favore dell’esistenza della fides del patrono non possono valere per i liberti, a meno che non si debba a questi attribuire la medesima condizione dei clienti a cui quelle testimonianze di riferiscono; i liberti però non ebbero certo la condizione di clienti nella civitas costituita e dopo che furono introdotte le forme di manomissione civile. Potrebbe, invece, essere vero che la condizione dei liberti fosse stata uguale a quella dei clienti nel periodo originario che del resto è il periodo in cui il Kaser utilizza quelle testimonianze, tuttavia ciò rientra nell’ambito delle mere supposizioni ed in ogni modo non potrebbe valere in relazione all’ordinamento delle gentes. Può dirsi che è possibile far luogo alla congettura del Kaser per un età più remota rispetto a quella cui viene riferita dall’Autore e nell’ambito dei rapporti privati tra uomini e servi eccedenti le norme dello ius civile.

In ogni caso, anche entro questi limiti, la tesi de qua potrebbe accogliersi al più come ipotesi originale ed attraente ma priva di fondamento testuale.

Premesso che la schiavitù prese consistenza a Roma proprio intorno al sec. V (e che prima essa era un fenomeno socio-economico poco rilevante), sembra potersi accogliere, nelle sue grandi linee la tesi del Cosentini, secondo cui sin dall’inizio i liberti furono, dal punto di vista strettamente giuridico, in condizioni di piena parità con i patroni e, con ogni altro soggetto giuridico, sì che le limitazioni alla loro capacità (ed in particolare le limitazioni connesse al riconoscimento di una potestas sui liberti) devono attribuirsi a provvedimenti normativi del periodo della respublica nazionale. Tesi altamente convincente per vari motivi: sia perché, se i liberti fossero stati originariamente in condizioni di clientes, la clientela non si sarebbe estinta, ma avrebbe continuato a sussistere, pur se con qualche modifica, in persona delle foltissime masse dei manumissi; sia perché la traduzione in termini di obbligatorietà giuridica dei rapporti tra patroni e liberti mostra chiaramente, ad un’analisi spassionata, di essersi verificata solo in epoche relativamente avanzate.

Personalmente ritengo che originariamente (a partire dal V sec. a.C.) i doveri reciproci tra liberti e patroni avessero natura esclusivamente sociale e religiosa: come comprovato dal fatto che i patroni, per potersi garantire le operae officiales, dovevano ottenere la promissio iurata liberti.

La condizione nel diritto privato

Con riferimento alla capacità giuridica di diritto privato dei liberti cittadini può dirsi che, almeno per le origini, ci fu una perfetta corrispondenza tra gli effetti che avrebbero dovuto derivare dalle forme di manomissione civile e i diritti di cui in concreto il liberto cittadino godeva. Questi infatti godeva nella civitas dello ius connubi e commerci con gli altri cittadini e della testamenti factio attiva e passiva .  In ordine al commercium il liberto aveva in generale, come gli altri cives, la possibilità di compiere tutti i negozi giuridici.

A partire da una certa epoca nel commercium si fa rientrare anche la testamenti factio, cioè il diritto di figurare in un testamento, come testimonio, come onorato, come disponente. Relativamente alla possibilità di disporre per testamento dei suoi beni si è passati da un primo periodo in cui il diritto accordava al liberto una facoltà illimitata di testare, ad un regime vincolato per cui in seguito a delle riforme pretorie il liberto avrebbe dovuto lasciare una parte dei suoi beni al patrono. Un passo di Gaio ( Gai Inst. III.40) è una viva ed inequivocabile testimonianza sulla capacità illimitata di testare del liberto secondo le norme dello ius civile. Tale illimitata capacità nel compiere un atto della portata del testamento, sta evidentemente a significare che, secondo le norme del diritto nella civitas, il liberto godeva di una capacità giuridica piena. La restrizione che il diritto pretorio apportò alla capacità di testare il liberto, sta a significare che si deve scorgere in uno dei mezzi di evoluzione del diritto romano la fonte che limitò la originariamente illimitata capacità del liberto di fare testamento e di disporre liberamente dei suoi beni. Per quanto riguarda il connubium parte autorevole della dottrina sostiene che fra gli appartenenti alla categoria degli ingenui e quella dei liberti non vi fosse stato connubium ab antiquo e che il divieto di connubium fosse stato tolto dalla lex Iulia et Papia, sia pure solo ufficialmente, perché già sin dall’epoca di Cicerone sull’invalidità di tali nozze si sarebbe stabilita una regola più mite.

A giudizio di altra parte autorevole della dottrina le nozze tra ingenui e liberti non sarebbero state mai iniustae, per mancanza di connubium, ma solo riprovate dal costume, per ragioni di carattere sociale, che avrebbero fatto considerare sfavorevolmente l’unione di un nato libero con una ex schiava, o viceversa di un ex schiavo con una ingenua. Si deve rilevare che i riferiti insegnamenti non traggono spunto, per le opposte conclusioni cui pervengono, da fonti differenti, ma bensì dai medesimi testi, i quali sono diversamente interpretati dai sostenitori dell’uno o dell’altro indirizzo. Parte della dottrina ritiene che già dall’epoca di Cicerone, per quanto aveva riguardo alla illiceità delle nozze tra ingenui e liberti, si sarebbero stabilite delle regole più miti e che la lex Julia avrebbe dato solo come il crisma ufficiale a questa prassi già da lungo tempo seguita. Alcuni passi delle opere del sommo oratore sono espliciti infatti nell’ammettere la validità delle nozze tra ingenui e liberte. Nel pro Sex.52.110 di un cavaliere romano è detto che non libidinis causa, sed ut plebicola videretur, libertinam duxit uxorem.

È evidente che il testo depone per la validità delle nozze tra ingenui e liberte, se pure il giureconsulto faccia notare che il cavaliere aveva sposato la liberta ut plebicola videretur, per dimostrare cioè i suoi sentimenti democratici, diremmo oggi, e di simpatia verso il popolo e in particolare verso una donna che non era del suo stesso rango sociale.  Altri testi di Cicerone testimoniano in questo senso. Dato l’esplicito contenuto dei testi di Cicerone, si potrebbe ammettere, se mai, non tanto l’invalidità delle nozze tra ingenui e liberte,quanto invece che l’unione tra un ingenuo e una liberta sarebbe stata riguardata con un certo sfavore, specialmente nell’epoca repubblicana, quando, accresciutosi sempre più il numero dei manomessi, la categoria dei libertini fu oggetto di una serie di provvedimenti, allo scopo di restringere la precedente illimitata capacità di diritto privato di cui quelli avevano goduto. Possiamo allora concludere sulla capacità giuridica di diritto privato dei liberti cittadini che, almeno per le origini, ci fu una perfetta corrispondenza tra gli effetti che avrebbero dovuto derivare dalle forme di manomissione civile e i diritti di cui in concreto il liberto cittadino godeva. 

La condizione nel diritto pubblico

Nell’ ambito del diritto pubblico le limitazioni della capacità dei liberti riguardano la loro partecipazione al senato, la posizione tenuta nei comizi, l’elettorato attivo e passivo, soprattutto a causa della mancanza di gentilità e, per quanto concerne i comizi centuriati,che erano ordinati sulla base del censo, delle precarie condizioni economiche e finanziarie in cui versava la maggioranza degli ex schiavi. Nel 24 d.C. una lex Visellia stabilì pene molto gravi contro i liberti che avessero occupato magistrature municipali. Per contro, sotto Augusto, vengono istituite delle cariche di spettanza esclusivamente dei manomessi; sarà poi con Claudio ed altri imperatori che i liberti ascenderanno ai supremi fastigi della vita pubblica e politica. Durante il Principato, come si è detto la condizione nell’ambito del diritto pubblico dei liberti subisce un profondo mutamento. Per ciò che concerne gli altri diritti dei liberti dello Stato non possiamo enumerarli con certezza.

È interessante a tal proposito lo studio compiuto dal Boulvert proprio sulla condizione degli schiavi e dei liberti c.d. del principe. L’Autore mette in luce come Augusto esercitando il suo potere, non per un anno come i magistrati repubblicani, ma in maniera permanente dovesse ricorrere all’ausilio di uomini capaci che lo rappresentassero nei suoi affari privati, ma che lo assistessero anche negli affari pubblici. Sempre dallo studio effettuato dal Boulvert emerge come Augusto per le mansioni più importanti ricorresse all’ausilio dei membri della nobiltà equestre, mentre per gli incarichi più modesti si rivolgesse proprio ai liberti. Lo studio di questa categoria sociale e dell’utilizzazione dei suoi membri da parte dell’imperatore presenta un notevole interesse, in quanto permette, altresì, di apprezzare l’importanza del ruolo giocato da questi individui nel funzionamento delle istituzioni. Emerge poi una categoria particolare di schiavi: gli schiavi pubblici. I Romani arrivano a possedere des esclaves publics che assistono i sacerdoti o i magistrati e che vigilano sul buon funzionamento dei servizi pubblici.

Anche Halkin si è occupato di questa particolare categoria. L’Autore sostiene che sia possibile dividere gli schiavi dei Greci e dei Romani in due grandi classi: la prima, la più considerevole, comprende coloro che appartengono ai privati e sono costretti a penosi lavori nei campi ed in città; la seconda comprende coloro che sono di proprietà dello Stato o della città e che sono chiamati perciò schiavi pubblici.

Presso gli Ateniesi, i demosioi sono posti al servizio dei magistrati, sono impiegati nei templi o svolgono funzioni subalterne, la loro condizione è in generale migliore di quella degli schiavi privati. Nella società romana, i publici svolgono un ruolo molto importante, che può studiarsi non soltanto nell’epoca della repubblica, ma ancora di più e soprattutto sotto l’impero. Questi schiavi non appartengono ad un singolo ma al Popolo romano sono posti al servizio dei magistrati, ed anche dei sacerdoti. Ciò che sorprende maggiormente studiando il ruolo svolto dai servi publici dei magistrati è l’enorme sproporzione che esiste, per quanto riguarda la quantità, tra il numero di questi servi e il numero di coloro che sono al servizio dei sacerdoti. Le iscrizione ne fanno a stento menzione, tuttavia è certo che i magistrati del popolo romano avevano il diritto di servirsi dei publici.

Come spiegare questa singolarità? Mommsen ne trovò la ragione nel carattere temporaneo delle funzioni dei magistrati; inoltre nei loro rapporti quotidiani con i cittadini essi continuavano ad evitare il più possibile l’utilizzo degli schiavi; i sacerdoti, al contrario, non avevano ragione di provare simili scrupoli, poiché i più erano nominati a vita. Halkin nella sua opera si occupa anche dei liberti dello Stato. Determinare le prerogative speciali di cui godevano i liberti dello Stato è piuttosto difficile, proprio a causa dell’esiguo numero di indicazioni al riguardo che troviamo nelle fonti. Tuttavia un punto è certo, ed è che i liberti dello Stato avevano il diritto di riunirsi in associazioni. Conosciamo solo un esempio di collegio che essi avevano formato: si trattava degli schiavi proscritti divenuti servi publici e che Silla esonerò nell’ 81 a.C..; divennero allora libertini ricevendo il nome di CorneliiPer ciò che concerne gli altri diritti dei liberti dello Stato non possiamo enumerarli con certezza, sappiamo però che i liberti delle città potevano citare liberamente i cittadini in giudizio e formare delle unioni coniugali aventi effetti legali, avevano la facoltà di conservare il proprio peculio e potevano fare richiesta di eredità. Per analogia sembra possibile ritenere che anche il liberto dello Stato godesse di questi diritti, poiché le condizioni erano in gran parte le stesse di quelle dei liberti cittadini. Halkin conclude rilevando che con i successori di Augusto, i Romani, ormai padroni del mondo vogliono solo creare un’organizzazione che potesse soddisfare tutti i bisogni di un impero così vasto. Ed è proprio allora che nascono i grandi servizi pubblici e i vari meccanismi tipici di un’abile amministrazione, dove un posto più o meno importante è riservato all’attività dei servi publici.

Il loro ruolo diventò, in questo periodo, maggiormente importante grazie alla creazione di nuove funzioni loro riservate. Durante i secoli seguenti, al contrario, è possibile constatare una sensibile diminuzione del numero degli schiavi pubblici utilizzati dallo Stato, in tutti i servizi amministrativi i publici sono messi in secondo piano o addirittura sostituiti. La loro fortuna era intimamente legata a quella del Senato, sotto il Principato, i Cesari sembrano lasciare al Senato ancora un certo ruolo nel governo; in realtà a poco a poco vengono invasi i dominii riservati fino ad allora alla competenza senatoriale e si tende a centralizzare tutti i servizi dello Stato nelle mani del Princeps.  A questo svilimento dell’importanza del ruolo ricoperto dagli schiavi pubblici, corrisponde un accrescimento della categoria degli schiavi e liberti imperiali, nei i quali gli imperatori riponevano maggiore fiducia e che potevano meglio governare a loro piacimento.

I liberti o libertini sono gli schiavi che hanno acquistato la libertà mediante manomissione, mediante cioè l’atto volontario del loro padrone che li scioglie dalla dominica potestas. Diverse sono le teorie formulate in merito alla condizione di cui godevano questi soggetti: la dottrina dominante afferma, sulla base dell’esame delle fonti classiche, che la condizione giuridica dei liberti cittadini abbia vissuto un processo di evoluzione. Secondo il Cosentini, invece, gli schiavi manomessi in un primo periodo avrebbero goduto di una condizione di diritto uguale a quella degli ingenui ed, in un secondo periodo si ebbe un processo di progressiva involuzione che determinò la loro netta inferiorità rispetto agli ingenui e nei confronti del manomissore. Un altro autore, il Kaser, avanza poi una tesi del tutto peculiare. Scopo di questo lavoro è presentare tutte le principali ricostruzioni sul tema al fine di delineare un quadro più dettagliato possibile.

I liberti sono gli schiavi che hanno acquistato la libertà mediante manomissione. Le categorie dei liberti sono varie nel diritto romano: cittadini, latini, latini iuniani e peregrini. Liberti cittadini sono gli schiavi liberati mediante le forme cosiddette civili di manomissione: vindicta, censu, testamento.

La prima forma civile di manomissione è denominata vindicta. La dottrina dominante ritiene la manumissio vindicta un caso di in iure cessio, per cui dinanzi al pretore si presentava in iure un adsertor libertatis che rivendicava la libertà dello schiavo toccandolo con una verghetta, il dominus che avrebbe potuto legittimamente sostenere il proprio diritto sullo schiavo, non contraddiceva e veniva così riconosciuto dal magistrato lo status libertatis del servo. Già verso la fine della repubblica, tuttavia, tale forma di manomissione si presenta con caratteristiche molto diverse; essa si svolge dinanzi ad un magistrato competente, in qualunque luogo e non richiede l’intervento  dell’adsertor libertatis. È il dominus che dichiara con certa et solemnia verba di voler liberare il servo, accompagnando la dichiarazione con gesti rituali, fra i quali quello di toccare lo schiavo con la vindicta ed il magistrato dà efficacia a tale dichiarazione confermandola. Nel diritto giustinianeo poi, si ha testimonianza del fatto che la manumissio vindicta si riduce ad una dichiarazione, senza particolari formalità, resa dal domino al magistrato competente.

La seconda forma, la manumissio censu, consiste nell’iscrizione del servo nelle liste censuali degli uomini liberi, fatta con l’assenso del padrone in occasione delle operazioni di censimento svolte dai censori ogni cinque anni. L’iscrizione era fatta dal magistrato e da ciò si può chiaramente scorgere che il conferimento della cittadinanza e della relativa libertà erano rimesse alla discrezione di un organo della civitas. Dalle fonti risulta che la manumissio censu aveva luogo con l’iscrivere gli schiavi, iussu dominorum, nelle liste del censo.

La terza ed ultima forma di manomissione civile è mortis causa, ed è la manumissio testamento, disposta dal testatore in forma diretta ed imperativa. È questa la forma di manomissione più vantaggiosa per lo schiavo che diviene liberto senza patrono, non essendo legato da vincoli di soggezione verso chi lo ha manomesso, essendo questi ormai defunto.

Le fonti offrono rari spunti sulle origini delle manomissioni. In particolare un passo di Gaio, elenca le forme di manumissio secondo lo ius civile. È difficile stabilire se l’enumerazione gaiana sia storica, nel senso che la manumissio vindicta abbia un’origine più risalente rispetto a quelle censu e testamento, o se l’ordine dato rispecchi una maggiore importanza dell’una rispetto alle altre, anche perché altrove l’elenco risulta seguire una diversa successione: vindicta, testamento, censu. Molto discussi sono, in particolare, gli effetti e le origini della manumissio testamento.

Effetti delle varie forme di manumissione

Per quanto riguarda gli effetti delle varie forme di manumissio nota è la tesi del Mommsen secondo cui le manomissioni primitive non avrebbero assunto ancora una configurazione giuridica, avendo rilevanza solo di fatto.

La rinuncia allo schiavo avrebbe reso quest’ultimo soltanto una res derelicta. Tra l’altro, con la manomissione, i liberti non avrebbero certo acquistato lo status sociale del patriziato, originariamente unico presupposto per l’acquisto della cittadinanza, ma sarebbero divenuti clienti e plebei. Tra patrono e liberto si sarebbe stabilito solo un particolare rapporto clientelare che avrebbe dato luogo ad una sorta di libertà paragonabile all’in libertate morari dello schiavo manomesso in un periodo successivo senza forme solenni. Per questi motivi, inizialmente, le manumissiones non avrebbero conferito anche la cittadinanza. Anche Kaser si è occupato dell’origine e dello sviluppo delle diverse forme di manomissione, giungendo alla conclusione che sia la manumissio vindicta, sia la manumissio censu avrebbero comportato libertas e civitas fin dalla loro apparizione. Diversa la situazione per le manomissioni mortis causa, possibili fin dalle XII Tavole, che avrebbero conferito agli schiavi liberati, protetti però dal fortissimo legame della fides, uno status clientelare. Nella molteplicità di tesi più o meno contrapposte sui nessi tra manomissione e cittadinanza, disparità che è chiaramente favorita dalla quantità esigua di fonti a volte discordanti, appare arduo il tentativo di delineare un quadro della reale situazione. Per quanto riguarda la manumissio vindicta merita consenso la tesi secondo cui tale forma di manomissione sarebbe stata istituita a favore di cittadini che avessero perso la loro libertà o a causa di rapporti economici interni, come l’insolvenza dei debitori, o per delitti come il furto.

Per quanto concerne, invece, la manomissione censu è evidente che l’iscrizione nelle liste di censo significa la concessione definitiva della cittadinanza a pieno titolo.

Diversa è la situazione per la manomissione testamentaria. Quest’ultima ha creato maggiori difficoltà agli studiosi quanto al conferimento della cittadinanza, proprio per la mancanza – almeno per quanto riguarda la manumissio effettuata nell’ambito del testamentum per aes et libram – di partecipazione di organi in qualche modo rappresentativi della civitas quali il pretore per la vindicta o i censori per la censu. Da più parti è stata sottolineata l’antichità di questa forma di manomissione che sarebbe, quindi, da ricollegare alle forme testamentarie più risalenti, vale a dire soprattutto al testamentum calatis comitiis.

La libertinitas cioè lo stato di ex-schiavo affrancato, determinava limitazioni di capacità non solo iure publico (particolarmente con riguardo al ius honorum), ma anche iure privato. Anche quando il liberto, essendo stato affrancato con manumissio iusta ac legittima, acquistava la cittadinanza romana, la sua condizione era deteriore rispetto a quella dell’ingenuus nato libero: per esempio , la donna libertina per potersi liberare della tutela in base al ius liberorum delle leggi Giulia e Papia, doveva dimostrare di aver avuto almeno quattro figli, mentre per la donna ingenua erano sufficienti tre figli. Le limitazioni più sensibili però derivavano dal c.d. patronatus, cioè dal rapporto che si istituiva, a seguito della manumissio, tra l’ex-domino (patronus) e lo schiavo affrancato. A questo rapporto si sottraevano soltanto i c.d. liberti orcini, cioè gli schiavi manomessi dal padrone col suo testamento (il cui patrono era ab initio inesistente perché defunto); i liberti nullius (liberti dipendenti da nessun patrono), cioè gli schiavi affrancati eccezionalmente d’autorità, senza la volontaria manumissio del dominus; e gli ex-liberti, cioè coloro su cui il patrono avesse perduto il patronatus per disposizione di legge o per rinuncia.

Dall’indagine sulla natura ed il fondamento di queste forme di manomissione di ritiene che gli schiavi manomessi avrebbero dovuto godere di una condizione di diritto uguale a quella degli ingenui. Contraria a tale orientamento è però la testimonianza delle fonti classiche, che ci rappresenta i liberti in un’evidente condizione di inferiorità rispetto agli ingenui.

In realtà la dottrina è divisa sul punto; il Cosentini al riguardo è dell’idea che la parità giuridica tra liberti ed ingenui si ebbe solo nell’età più antica del diritto romano e che poi inseguito a leggi, editti pretori e vari altri interventi normativi si verificò un processo di progressiva involuzione della loro netta inferiorità rispetto agli ingenui e nei confronti del manomissore. La dottrina dominante, invece, è di diverso avviso, riscontrando nello studio della condizione giuridica dei liberti cittadini un processo di evoluzione che da una condizione iniziale di inferiorità sarebbe poi passata ad una condizione di parità comparativamente agli ingenui.

La dottrina ha affermato che la condizione dei liberti nei confronti del manomissore sarebbe stata sin dalle origini di netta inferiorità, anzi addirittura di soggezione, e che la manomissione non avrebbe estinto completamente il dovere del servizio domestico dell’ex schiavo, ma più semplicemente avrebbe attribuito ad esso un carattere ed un fondamento nuovo; in sostanza il cambiamento del manomesso da schiavo in liberto, pur importando un mutamento nella sua condizione giuridica non avrebbe influito sul complesso di doveri cui egli sarebbe stato tenuto nei confronti dell’antico dominus. Invero, alla dominica potestas, che prima gravava su di lui, si sarebbe sostituita in conseguenza della manomissione, una potestas patronale ugualmente rigorosa ed assoluta che avrebbe tenuto il liberto in uno stato di quasi servitù.

Uno dei motivi che ha deciso in dottrina il sorgere e la formulazione di una tale tesi è stato il riconoscimento di un particolare dovere cui sarebbe stato tenuto ab origine il liberto nei confronti del patrono: il dovere di obsequium. Si è detto che in conseguenza della manomissione all’obsequium servitutis dello schiavo verso il dominus si sarebbe sostituito l’obsequium liberti, che avrebbe importato, sul fondamento di una potestas patronale originaria, la continuazione post manumissionem del dovere dei servizi dell’ex schiavo verso l’antico dominus, ora chiamato patronus.

Il Kaser, tratteggiando in un breve studio la storia generale del diritto di patronato, ha sostenuto una tesi sulla condizione dei liberti negli antichissimi tempi dello stato romano, che è indubbiamente originale e per ciò stesso attraente.

L’Autore suppone come il Mommsen che già prima che fossero state introdotte le forme di manomissione civile, il dominus avrebbe avuto la possibilità di manomettere i suoi schiavi, precisando però che la manomissione in tale epoca non avrebbe potuto conferire ai servi la piena libertà giuridica poiché anche la manumissio testamento (secondo gli Autori già utilizzata in quest’epoca) non avrebbe potuto procurare al manomesso, anche attraverso l’approvazione dei comizi curiati, l’ingresso in alcuna delle gentes e quindi l’acquisto di una libertà protetta dal primitivo ius civile. La manomissione, in tale epoca, avrebbe avuto efficacia all’infuori dell’ambito dello ius civile e avrebbe conferito al liberto una libertà di fatto nell’ambito della domus patronale.

Il Kaser perciò non esita a concludere che l’atto di manomissione in tale epoca, sempre secondo le norme dello ius civile, avrebbe fatto permanere sul liberto la potestas del manomissore poiché il liberto giuridicamente sarebbe rimasto sempre uno schiavo. Di conseguenza il patrono avrebbe avuto il diritto di revocare a suo piacimento la libertà di fatto concessa al suo servo, avrebbe potuto trattare il liberto come un servo ed obbligarlo ai servizi più duri senza che per ciò potesse incorrere in alcuna sanzione. Se quanto ora detto secondo lo ius civile sarebbe potuto accadere impunemente, sarebbe però intervenuta, secondo il Kaser, una norma morale a disciplinare l’esercizio della potestas patronale su questi manomessi di fatto e a distinguere e diversificare nella domus patronale la condizione di costoro da quella dei servi: la fides. Questa norma morale,la fides appunto, era quella stessa fides che presiedeva ai rapporti tra patroni e clienti.

Nell’ambito della fides del patrono il liberto avrebbe trovato il riconoscimento della libertà di fatto acquisita e la disciplina dei doveri cui sarebbe stato tenuto verso il suo manomissore, se secondo il Kaser, l’ordinamento patriarcale primitivo avrebbe pure tutelato il liberto prendendo in considerazione ogni abuso del patrono.

Il potere di coercizione dei patroni sarebbe stato affidato ai censori, ma a tal proposito l’Autore fa notare come non ci sia pervenuta nessuna testimonianza di nota censoria contro un patrono ingiusto, però rileva che quando Dionisio dice che i censori intervengono per gli abusi di potere del dominus verso gli schiavi, non si possa dubitare che dovevano intervenire anche per proteggere i liberti. Ma l’ordinamento sacrale e la fides dei patroni secondo il Kaser avrebbero perduto la loro importanza con l’introduzione della manumissio vindicta, venuta in uso, secondo Livio, nel primo anno della Repubblica. Mediante le forme di manomissione civili il liberto acquistava una piena libertà nell’ambito dello ius civile e quindi questo ordinamento veniva naturalmente a sostituirsi a quello primitivo della fides del patrono. Ma il Kaser rileva che nonostante gli effetti della manomissione civile il liberto si sarebbe trovato sempre in condizione di inferiorità rispetto al patrono, per un insieme di particolari dall’Autore esaminati e discussi.

Bisogna comunque dire che le testimonianze analogiche addotte dal Kaser a favore dell’esistenza della fides del patrono non possono valere per i liberti, a meno che non si debba a questi attribuire la medesima condizione dei clienti a cui quelle testimonianze di riferiscono; i liberti però non ebbero certo la condizione di clienti nella civitas costituita e dopo che furono introdotte le forme di manomissione civile. Potrebbe, invece, essere vero che la condizione dei liberti fosse stata uguale a quella dei clienti nel periodo originario che del resto è il periodo in cui il Kaser utilizza quelle testimonianze, tuttavia ciò rientra nell’ambito delle mere supposizioni ed in ogni modo non potrebbe valere in relazione all’ordinamento delle gentes. Può dirsi che è possibile far luogo alla congettura del Kaser per un età più remota rispetto a quella cui viene riferita dall’Autore e nell’ambito dei rapporti privati tra uomini e servi eccedenti le norme dello ius civile.

In ogni caso, anche entro questi limiti, la tesi de qua potrebbe accogliersi al più come ipotesi originale ed attraente ma priva di fondamento testuale.

Premesso che la schiavitù prese consistenza a Roma proprio intorno al sec. V (e che prima essa era un fenomeno socio-economico poco rilevante), sembra potersi accogliere, nelle sue grandi linee la tesi del Cosentini, secondo cui sin dall’inizio i liberti furono, dal punto di vista strettamente giuridico, in condizioni di piena parità con i patroni e, con ogni altro soggetto giuridico, sì che le limitazioni alla loro capacità (ed in particolare le limitazioni connesse al riconoscimento di una potestas sui liberti) devono attribuirsi a provvedimenti normativi del periodo della respublica nazionale. Tesi altamente convincente per vari motivi: sia perché, se i liberti fossero stati originariamente in condizioni di clientes, la clientela non si sarebbe estinta, ma avrebbe continuato a sussistere, pur se con qualche modifica, in persona delle foltissime masse dei manumissi; sia perché la traduzione in termini di obbligatorietà giuridica dei rapporti tra patroni e liberti mostra chiaramente, ad un’analisi spassionata, di essersi verificata solo in epoche relativamente avanzate.

Personalmente ritengo che originariamente (a partire dal V sec. a.C.) i doveri reciproci tra liberti e patroni avessero natura esclusivamente sociale e religiosa: come comprovato dal fatto che i patroni, per potersi garantire le operae officiales, dovevano ottenere la promissio iurata liberti.

La condizione nel diritto privato

Con riferimento alla capacità giuridica di diritto privato dei liberti cittadini può dirsi che, almeno per le origini, ci fu una perfetta corrispondenza tra gli effetti che avrebbero dovuto derivare dalle forme di manomissione civile e i diritti di cui in concreto il liberto cittadino godeva. Questi infatti godeva nella civitas dello ius connubi e commerci con gli altri cittadini e della testamenti factio attiva e passiva .  In ordine al commercium il liberto aveva in generale, come gli altri cives, la possibilità di compiere tutti i negozi giuridici.

A partire da una certa epoca nel commercium si fa rientrare anche la testamenti factio, cioè il diritto di figurare in un testamento, come testimonio, come onorato, come disponente. Relativamente alla possibilità di disporre per testamento dei suoi beni si è passati da un primo periodo in cui il diritto accordava al liberto una facoltà illimitata di testare, ad un regime vincolato per cui in seguito a delle riforme pretorie il liberto avrebbe dovuto lasciare una parte dei suoi beni al patrono. Un passo di Gaio ( Gai Inst. III.40) è una viva ed inequivocabile testimonianza sulla capacità illimitata di testare del liberto secondo le norme dello ius civile. Tale illimitata capacità nel compiere un atto della portata del testamento, sta evidentemente a significare che, secondo le norme del diritto nella civitas, il liberto godeva di una capacità giuridica piena. La restrizione che il diritto pretorio apportò alla capacità di testare il liberto, sta a significare che si deve scorgere in uno dei mezzi di evoluzione del diritto romano la fonte che limitò la originariamente illimitata capacità del liberto di fare testamento e di disporre liberamente dei suoi beni. Per quanto riguarda il connubium parte autorevole della dottrina sostiene che fra gli appartenenti alla categoria degli ingenui e quella dei liberti non vi fosse stato connubium ab antiquo e che il divieto di connubium fosse stato tolto dalla lex Iulia et Papia, sia pure solo ufficialmente, perché già sin dall’epoca di Cicerone sull’invalidità di tali nozze si sarebbe stabilita una regola più mite.

A giudizio di altra parte autorevole della dottrina le nozze tra ingenui e liberti non sarebbero state mai iniustae, per mancanza di connubium, ma solo riprovate dal costume, per ragioni di carattere sociale, che avrebbero fatto considerare sfavorevolmente l’unione di un nato libero con una ex schiava, o viceversa di un ex schiavo con una ingenua. Si deve rilevare che i riferiti insegnamenti non traggono spunto, per le opposte conclusioni cui pervengono, da fonti differenti, ma bensì dai medesimi testi, i quali sono diversamente interpretati dai sostenitori dell’uno o dell’altro indirizzo. Parte della dottrina ritiene che già dall’epoca di Cicerone, per quanto aveva riguardo alla illiceità delle nozze tra ingenui e liberti, si sarebbero stabilite delle regole più miti e che la lex Julia avrebbe dato solo come il crisma ufficiale a questa prassi già da lungo tempo seguita. Alcuni passi delle opere del sommo oratore sono espliciti infatti nell’ammettere la validità delle nozze tra ingenui e liberte. Nel pro Sex.52.110 di un cavaliere romano è detto che non libidinis causa, sed ut plebicola videretur, libertinam duxit uxorem.

È evidente che il testo depone per la validità delle nozze tra ingenui e liberte, se pure il giureconsulto faccia notare che il cavaliere aveva sposato la liberta ut plebicola videretur, per dimostrare cioè i suoi sentimenti democratici, diremmo oggi, e di simpatia verso il popolo e in particolare verso una donna che non era del suo stesso rango sociale.  Altri testi di Cicerone testimoniano in questo senso. Dato l’esplicito contenuto dei testi di Cicerone, si potrebbe ammettere, se mai, non tanto l’invalidità delle nozze tra ingenui e liberte,quanto invece che l’unione tra un ingenuo e una liberta sarebbe stata riguardata con un certo sfavore, specialmente nell’epoca repubblicana, quando, accresciutosi sempre più il numero dei manomessi, la categoria dei libertini fu oggetto di una serie di provvedimenti, allo scopo di restringere la precedente illimitata capacità di diritto privato di cui quelli avevano goduto. Possiamo allora concludere sulla capacità giuridica di diritto privato dei liberti cittadini che, almeno per le origini, ci fu una perfetta corrispondenza tra gli effetti che avrebbero dovuto derivare dalle forme di manomissione civile e i diritti di cui in concreto il liberto cittadino godeva. 

La condizione nel diritto pubblico

Nell’ ambito del diritto pubblico le limitazioni della capacità dei liberti riguardano la loro partecipazione al senato, la posizione tenuta nei comizi, l’elettorato attivo e passivo, soprattutto a causa della mancanza di gentilità e, per quanto concerne i comizi centuriati,che erano ordinati sulla base del censo, delle precarie condizioni economiche e finanziarie in cui versava la maggioranza degli ex schiavi. Nel 24 d.C. una lex Visellia stabilì pene molto gravi contro i liberti che avessero occupato magistrature municipali. Per contro, sotto Augusto, vengono istituite delle cariche di spettanza esclusivamente dei manomessi; sarà poi con Claudio ed altri imperatori che i liberti ascenderanno ai supremi fastigi della vita pubblica e politica. Durante il Principato, come si è detto la condizione nell’ambito del diritto pubblico dei liberti subisce un profondo mutamento. Per ciò che concerne gli altri diritti dei liberti dello Stato non possiamo enumerarli con certezza.

È interessante a tal proposito lo studio compiuto dal Boulvert proprio sulla condizione degli schiavi e dei liberti c.d. del principe. L’Autore mette in luce come Augusto esercitando il suo potere, non per un anno come i magistrati repubblicani, ma in maniera permanente dovesse ricorrere all’ausilio di uomini capaci che lo rappresentassero nei suoi affari privati, ma che lo assistessero anche negli affari pubblici. Sempre dallo studio effettuato dal Boulvert emerge come Augusto per le mansioni più importanti ricorresse all’ausilio dei membri della nobiltà equestre, mentre per gli incarichi più modesti si rivolgesse proprio ai liberti. Lo studio di questa categoria sociale e dell’utilizzazione dei suoi membri da parte dell’imperatore presenta un notevole interesse, in quanto permette, altresì, di apprezzare l’importanza del ruolo giocato da questi individui nel funzionamento delle istituzioni. Emerge poi una categoria particolare di schiavi: gli schiavi pubblici. I Romani arrivano a possedere des esclaves publics che assistono i sacerdoti o i magistrati e che vigilano sul buon funzionamento dei servizi pubblici.

Anche Halkin si è occupato di questa particolare categoria. L’Autore sostiene che sia possibile dividere gli schiavi dei Greci e dei Romani in due grandi classi: la prima, la più considerevole, comprende coloro che appartengono ai privati e sono costretti a penosi lavori nei campi ed in città; la seconda comprende coloro che sono di proprietà dello Stato o della città e che sono chiamati perciò schiavi pubblici.

Presso gli Ateniesi, i demosioi sono posti al servizio dei magistrati, sono impiegati nei templi o svolgono funzioni subalterne, la loro condizione è in generale migliore di quella degli schiavi privati. Nella società romana, i publici svolgono un ruolo molto importante, che può studiarsi non soltanto nell’epoca della repubblica, ma ancora di più e soprattutto sotto l’impero. Questi schiavi non appartengono ad un singolo ma al Popolo romano sono posti al servizio dei magistrati, ed anche dei sacerdoti. Ciò che sorprende maggiormente studiando il ruolo svolto dai servi publici dei magistrati è l’enorme sproporzione che esiste, per quanto riguarda la quantità, tra il numero di questi servi e il numero di coloro che sono al servizio dei sacerdoti. Le iscrizione ne fanno a stento menzione, tuttavia è certo che i magistrati del popolo romano avevano il diritto di servirsi dei publici.

Come spiegare questa singolarità? Mommsen ne trovò la ragione nel carattere temporaneo delle funzioni dei magistrati; inoltre nei loro rapporti quotidiani con i cittadini essi continuavano ad evitare il più possibile l’utilizzo degli schiavi; i sacerdoti, al contrario, non avevano ragione di provare simili scrupoli, poiché i più erano nominati a vita. Halkin nella sua opera si occupa anche dei liberti dello Stato. Determinare le prerogative speciali di cui godevano i liberti dello Stato è piuttosto difficile, proprio a causa dell’esiguo numero di indicazioni al riguardo che troviamo nelle fonti. Tuttavia un punto è certo, ed è che i liberti dello Stato avevano il diritto di riunirsi in associazioni. Conosciamo solo un esempio di collegio che essi avevano formato: si trattava degli schiavi proscritti divenuti servi publici e che Silla esonerò nell’ 81 a.C..; divennero allora libertini ricevendo il nome di CorneliiPer ciò che concerne gli altri diritti dei liberti dello Stato non possiamo enumerarli con certezza, sappiamo però che i liberti delle città potevano citare liberamente i cittadini in giudizio e formare delle unioni coniugali aventi effetti legali, avevano la facoltà di conservare il proprio peculio e potevano fare richiesta di eredità. Per analogia sembra possibile ritenere che anche il liberto dello Stato godesse di questi diritti, poiché le condizioni erano in gran parte le stesse di quelle dei liberti cittadini. Halkin conclude rilevando che con i successori di Augusto, i Romani, ormai padroni del mondo vogliono solo creare un’organizzazione che potesse soddisfare tutti i bisogni di un impero così vasto. Ed è proprio allora che nascono i grandi servizi pubblici e i vari meccanismi tipici di un’abile amministrazione, dove un posto più o meno importante è riservato all’attività dei servi publici.

Il loro ruolo diventò, in questo periodo, maggiormente importante grazie alla creazione di nuove funzioni loro riservate. Durante i secoli seguenti, al contrario, è possibile constatare una sensibile diminuzione del numero degli schiavi pubblici utilizzati dallo Stato, in tutti i servizi amministrativi i publici sono messi in secondo piano o addirittura sostituiti. La loro fortuna era intimamente legata a quella del Senato, sotto il Principato, i Cesari sembrano lasciare al Senato ancora un certo ruolo nel governo; in realtà a poco a poco vengono invasi i dominii riservati fino ad allora alla competenza senatoriale e si tende a centralizzare tutti i servizi dello Stato nelle mani del Princeps.  A questo svilimento dell’importanza del ruolo ricoperto dagli schiavi pubblici, corrisponde un accrescimento della categoria degli schiavi e liberti imperiali, nei i quali gli imperatori riponevano maggiore fiducia e che potevano meglio governare a loro piacimento.