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Tributi e concessioni: il caso Tarsu sugli arenili

Tarsu sugli arenili
Tarsu sugli arenili

La Cassazione sezione sesta, nella recente ordinanza n. 27006 del 23 ottobre 2019, ha ridato impulso ad un tema importante, purtroppo spesso poco trattato: il tema della fiscalità collegata alle concessioni demaniali marittime.

La concessione demaniale è l’atto pubblico del tipo di concessione amministrativa che consente al soggetto di occupare legittimamente un’area demaniale allo scopo prefissato nello stesso atto, che può essere, come nel caso trattato, uno scopo turistico-ricreativo essendo l’area destinata a stabilimento balneare.

La Cassazione interviene dopo la pronuncia della Commissione Tributaria Regionale (di Catanzaro) con cui era stato rigettato in appello il ricorso di un operatore che aveva contestato l’avviso Tarsu anno 2008 poiché, a suo dire, non si era tenuto conto della riduzione del tributo (-50%) per l’area destinata a “spiaggia”, trattata in termini fiscali esattamente come la parte edificata caratterizzata dalla presenza di opere/manufatti. Secondo la tesi del ricorrente, invero, l’arenile doveva dirsi quale pertinenza rispetto all’area su cui erano state edificate le opere con conseguente applicazione di una tassa inferiore.

La Cassazione non entra nel merito della controversia limitandosi, quale giudice di legittimità, a respingere il ricorso per genericità della critica avanzata nei confronti della sentenza di secondo grado (ex articolo 360 codice procedura civile) ma l’ordinanza rifulge quale provvedimento importante per aver dato risalto al sistema fiscale da applicarsi agli arenili con riferimento alla richiamata Risoluzione n. 147/E del 15.9.1998 dell’Agenzia delle Entrate.

Sulla scorta di tale decisione l’AE ha previsto che il servizio reso dallo stabilimento deve essere inteso nella sua interezza, con conseguente applicazione di una sola tariffa per l’intera area.

Il dato di partenza è dunque rappresentato dall’area nella sua esatta estensione e dalla sua perimetrazione al fine della completa identificazione del bene oggetto di concessione. Occorre però, prima di meglio definire l’estensione del bene, puntualizzare l’ambito entro cui, secondo il codice marittimo, può parlarsi di pertinenza.

Potrebbe, infatti, generarsi confusione tra il concetto di pertinenza in ambito fiscale e quello in ambito amministrativo-marittimo.

Tenuto conto del Codice della Navigazione e, per inciso, dell’articolo 29, le pertinenze risultano essere “le costruzioni e le altre opere appartenenti allo Stato, che esistono entro i limiti del demanio marittimo e del mare territoriale” a cui vanno ad aggiungersi le opere inamovibili le quali, ancorché realizzate dal privato nel corso della concessione demaniale, sono devolute automaticamente allo Stato allo spirare della concessione stessa (articolo 49). Il concetto di pertinenza riguarda dunque l’edificato, sia dello Stato che per mano privata, in questo secondo caso devoluto ipso iure allo Stato una volta cessata la concessione. Non sono contemplate quali pertinenze le eventuali aree intese come “accessorie” alle opere e/o manufatti.

Fatta tale premessa, occorre partire dal dato risultante dal titolo concessorio; la concessione deve, infatti, recare, tra i suoi elementi essenziali, anche l’estensione e l’ubicazione, oltre ai confini del bene oggetto di concessione (articolo 19 comma 1 n. 1 Regolamento al Codice della Navigazione).

L’atto non può prescindere da tali elementi, che ne costituiscono il contenuto incomprimibile, né può tralasciare o, peggio, ignorare tali dati, rischiando altrimenti di risultare illegittima.

È necessario, però, tenere in debita considerazione che, a volte, la concessione, per molteplici ragioni, può non osservare puntualmente tale contenuto ed è in tale frangente che l’operatore economico può legittimamente richiedere la definizione e perimetrazione dell’area su cui esercita il proprio diritto di superficie nell’ipotesi di concessione lacunosa o, peggio, priva dei suoi elementi identificativi.

È peraltro, dovere della Pubblica Amministrazione assicurare che la concessione risulti completa in tutti i suoi elementi oltre che essere collocata in un determinato sito dell’arenile del quale occorre avere evidenza e certezza.

Peraltro, oltre al problema legato al contenuto del titolo, può sorgere quello della differente identificazione catastale degli elementi di cui si compone la stessa concessione.

Mentre, infatti, per le opere erette dal privato, una volta accatastate, risulta dalla visura che le stesse siano in regime di proprietà superficiaria in favore del soggetto/operatore che le ha erette e che ha provveduto a richiederne l’accatastamento, nel caso di arenile non occupato da manufatti, il catasto, di norma, reca soltanto il regime di proprietà in capo al Demanio dello Stato (Ramo Marina Mercantile…) senza alcuna specificazione circa il diritto dell’operatore anche su tale area.

Sarebbe quanto meno auspicabile, sul punto, un sistema di revisione a livello catastale che consenta di identificare anche qui con precisione l’effettivo diritto in capo al concessionario anche per le aree cosiddetto scoperte, considerata, oltretutto, la convergenza dei dati catastali con quelli fiscali e l’attendibilità dei primi per l’elevazione dei diversi tributi.

Non di meno appare opportuna una revision/audit di tipo fiscale al fine di correggere la stessa determinazione dell’AE (di cui alla Risoluzione n. 147/E) sotto i seguenti profili.

L’equiparazione tra “aree coperte” e “aree scoperte” potrebbe difatti risultare iniqua e creare disparità di trattamento. Si pensi al caso di concessionari le cui concessioni contemplino porzioni di arenili dotati esclusivamente dei servizi primari (quali docce e servizi igienici) senza ristoranti e/o bar, ai quali verrebbe ad applicarsi un carico impositivo analogo a quello di stabilimenti con all’interno strutture anche importanti che ospitano servizi di ristorazione e/o altri servizi. La logica che presiede l’attività impositiva basata sull’interezza del servizio erogato (senza distinzione tra “aree coperte” e aree scoperte”) dovrebbe recedere dinanzi al principio dell’attitudine degli spazi a produrre rifiuti, principio che pure viene richiamato nella Risoluzione ma che viene superato in ragione della rilevanza unica del compendio.

La stessa Risoluzione tra l’altro, nel rispondere al Comune che ha proposto il quesito, rammenta all’ente locale che lo stesso può, in autotutela, modificare la deliberazione tariffaria visto che la stessa può presentare “… vizi di legittimità sotto il profilo della sproporzione tariffaria...” ammettendosi quindi nella sostanza una disuguaglianza inaccettabile. Si aggiunge anche che gli stessi vizi, al di là dell’impugnativa dinanzi al giudice amministrativo, sarebbero censurabili in sede di ricorso alla Commissione Tributaria ex articolo 7 Decreto Legislativo n. 546/1992 con ciò dimostrandosi, ulteriormente, la debolezza della tariffa e l’esigenza di una riforma fiscale puntuale evitando, a priori, decisioni amministrative sbilanciate.

Quanto, invece, alla riduzione nell’ordine del 30% della tariffa per la stagionalità della concessione ex articolo 66 comma 3 Decreto Legislativo n. 507/1993, l’AE conferma l’applicazione della misura ridotta laddove, si puntualizza, “…risultasse confermato quanto asserito nel quesito che cioè, sebbene riguardi una concessione pluriennale, questa è riferita per ciascun anno alla stagione balneare ufficialmente limitata dall’Autorità competente ad un determinato periodo…” così nuovamente facendo spiccare l’importanza dell’atto formale di concessione.

Alla luce di quanto sopra, per comprendere ancor meglio la delicatezza della questione, non può che considerarsi, in primis, il cambio normativo in materia dal 1993 (periodo di nascita della TARSU) alla novella di cui alla Legge n. 147/2013 (istitutiva della TARI).

Si è passati, infatti, da un regime di “tassazione” basato su occupazione e/o detenzione ad un regime “tariffario” direttamente legato anche alla fattispecie del possesso (che non può non essere ricondotto ad un presunto bis in idem stando al regime IUC).

Ciò non può che differenziare il bene da colpire in ragione dell’atteggiamento umano e della capacità contributiva del soggetto passivo.

Sulla questione è evidente che sono in ballo principi costituzionalmente garantiti nonché tutelati, a livello più ampio, dal diritto euro-unitario.

Ci si riferisce in particolar modo agli artt. 3 e 53 Cost. e dell’articolo 1 prot. adle CEDU di Parigi 1952 “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni”.

Per rendersi conto di una diametrale differenza di trattamento generata dal legislatore negli anni, basti leggere l’articolo 62 del Decreto Legislativo 507/1993 il quale recita “La tassa è dovuta per l'occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa nei modi previsti dagli articoli 58 e 59, fermo restando quanto stabilito dall'articolo 59, comma 4” e l’articolo 1, co. 641, della legge n. 147/2013 che invece stabilisce “Il presupposto della TARI è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani. Sono escluse dalla TARI le aree scoperte pertinenziali o accessorie a locali tassabili, non operative, e le aree comuni condominiali di cui all'articolo 1117 del codice civile che non siano detenute o occupate in via esclusiva.

Al di là della diversa prospettazione ai fini di tassazione su cui è bene riflettere in prima battuta, pare evidente la necessità di un vaglio di legittimità costituzionale sulla questione (quantomeno posto che la nuova TARI parrebbe colpire, così come IMU e TASI, lo stesso fatto umano cioè il possesso, costituendo ciò una sorta di Bis in Idem tributario).

Resta da indagare se la pronuncia della Cassazione in esame sia isolata nel panorama giurisprudenziale e se le cosiddetto pertinenze dell’arenile, nei termini sopra specificati, siano riconducibili a certa assoggettabilità fiscale (per come indirettamente affermato dai Supremi Giudici con l’ordinanza in critica).

Già la Commissione tributaria regionale del Molise con la sentenza n. 51 del 2 dicembre 2011 ebbe ad affermare, in materia TARSU, che l’area scoperta utilizzata per le sedute sdraio e per gli ombrelloni non fosse soggetta al pagamento della tassa sui rifiuti in quanto non idonea a produrre rifiuti, dovendosi invece individuare quali superfici tassabili “solo quelle coperte destinate a ospitare lo stabilimento balneare vero e proprio”.

Di parere contrario fu, invece, la Commissione tributaria provinciale di Lecce, la quale ebbe a chiarire che i titolari di concessioni marittime su beni demaniali (con gestione degli stabilimenti balneari) in realtà fossero tenuti a pagare la tassa dei rifiuti, seppure solo nel periodo estivo, per la temporanea occupazione delle aree con ombrelloni e sdraio.

Agli stabilimenti balneari, secondo i giudici di Lecce, si sarebbe dovuta applicare la tariffa giornaliera in quanto l’uso delle aree occupate fosse da ricondurre ad un termine inferiore a 183 giorni nel corso dell’anno solare.

Attenzione, però, ad un aneddoto particolare della vicenda.

I due casi esaminati dalle Commissioni di merito (cioè la regionale Molise Campobasso e la provinciale di Lecce) pur partendo da questioni simili, nei fatti, afferiscono a due profili di applicabilità della norma del 1993 alquanto differenti attesa la diversità di tempo di occupazione e/o detenzione.

Mentre la prima pronuncia afferisce al regime di occupazione e/o detenzione prolungata di cui agli artt. 58 e seg. del Decreto Legislativo 507/1993, la seconda pronuncia rientra nella casistica della cosiddetto “occupazione temporanea” con limite massimo a 183 giorni.

Il caso dell’occupazione temporanea afferisce alla disciplina di cui all’articolo 77 del suddetto Decreto lgs. degli anni novanta con cui si prescrive esattamente che “Per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni o equiparati prodotti dagli utenti che occupano o detengono temporaneamente, con o senza autorizzazione, locali od aree pubbliche, di uso pubblico, o aree gravate da servitù di pubblico passaggio, i comuni devono istituire con il regolamento di cui all'articolo 68, la tassa di smaltimento da applicare in base a tariffa giornaliera. Per temporaneo si intende l'uso inferiore a 183 giorni di un anno solare… omissis”.

Ne deriva, anche alla luce delle due pronunce sopra richiamate, la necessità di una interpretazionepiana” delle disposizioni tributarie che consenta di dirimere le questioni relative alle aree scoperte, nel caso assoggettabili ad una imposizione piena e/o ridotta, e quelle relative alla temporaneità dell’uso.

Si aggiunga, nell’iter logico deduttivo accennato, che l'arenile in quanto tale, anche se artificiale o di ridotte dimensioni, non può essere di proprietà privata.

Tale bene, infatti, presenta la connotazione di spiaggia o lido del mare e non può che appartenere allo Stato, rientrando tra i beni del demanio marittimo necessario, ex articolo 822 comma 1 del c.c. e come affermato dalla Cassazione con l'ordinanza n. 26877 del 22.10.2019 (giorno prima della decisione della Suprema Corte n. 27006 in esame).

In pratica i giudici di legittimità, antecedentemente rispetto alla decisione da cui è partito l’approfondimento in questione, ebbero a definire che “l'area oggetto della contesa è da considerarsi come una spiaggia”, quindi, rientrante nel demanio necessario, senza che vi fosse bisogno di alcun provvedimento dell'Amministrazione specificando che per “lido del mare deve intendersi una porzione di riva a contatto diretto con le acque del mare da cui resta normalmente coperta per le ordinarie mareggiate, ovvero spiaggia (compreso l'arenile), che comprende quei tratti di terra prossimi al mare, che siano sottoposti alle mareggiate straordinarie”.

Tale bene, per il Collegio decidente, prima che fosse emanata l’ordinanza n. 27006 in esame, detta porzione di lido “assume i connotati naturali di bene appartenente al demanio marittimo necessario” indipendentemente da qualsiasi atto pubblico.

Ciò sta a significare che, anche “oltre” l’ordinanza in esame, nel merito della vicenda tributaria è imprescindibile una puntuale attività ricognitiva e di tipizzazione al fine di inquadrare perfettamente le fattispecie di assoggettabilità ai fini TARSU (ora ricondotte a TARI anche se il possesso è un fattore giuridico sopraggiunto con la norma del 2013) inerenti i cosiddetto arenili.

È in gioco il rapporto di tipicità tributario, il quale senza una chiara corrispettività normativa rischia di rimanere labile ed al tempo stesso terreno incerto con buona violazione del principio di capacità contributiva reale costituzionalmente garantito e del rispetto dei beni del cittadino sanciti dalla CEDU.