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Trilussa, er poeta de Roma che aveva fede

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di Massimo Scarpin

 

Settanta anni fa, il 21 dicembre 1950, moriva er poeta de Roma: Carlo Alberto Salustri, noto come Trilussa, anagramma del suo cognome (Roma 1871 - ivi 1950).

Grazie a lui il dialetto romano diventa più prossimo alla lingua italiana, nel periodo in cui la Città Eterna diventa capitale dello Stato italiano. Oltre a scrivere numerosi sonetti, affreschi dialettali e pettegoli della Roma piccolo-borghese, reinventa la favola, in cui animali parlanti e cose sono sarcastici osservatori delle miserie della vita, delle guerricciole tra partiti, delle piccole e grandi lotte sociali.

Proprio le Favole portano il messaggio universale del poeta oltre i confini di Roma. Ne citiamo in fretta quattro, ad esempio. Er Coccodrillo, pubblicata nel 1908, ci presenta due coniugi che riposano in riva al mare. All’improvviso un coccodrillo assale «er povero marito» e lo divora «come magnasse un pollo a l’osteria» mentre la moglie fugge. Il giorno seguente riappare la vedova che, invece di farsi intenerire dal reiterato «pianto» della belva, acidamente le dice: «Dio mio, quanto sei scemo! Ancora piagni?».

Er Gatto e er Cane, pubblicata nel 1901, rappresenta un gatto soriano che prima si vanta di fronte a un cane di non portare «rispetto nemmanco ar padrone» e poi gli rimprovera di essere troppo servile accettando tutti i «belli capricci» dell’uomo. La risposta candida del barbone è un monumento all’amicizia: «Ma io... je so' amico!».

Ne La carità, un poveruomo, a cui il presidente di una società protettrice degli animali rifiuta la carità, si toglie il cappello e, indicando il cranio, con insistenza lo prega: «Fatelo pe’ ‘ste povere bestiole».

Ne L'elezzione der Presidente, pubblicata nel 1901, troviamo L'asino che passava per leone di Esopo, ma con una profonda variante: a differenza di quello del favolista greco, vissuto all'inizio del secolo VI a. C., l’asino deriva il potere da libere elezioni, non da se stesso. Il popolo, che si accorge «de lo sbajo / d’avé pijato un ciuccio pun leone», è arringato dalleletto: «Silenzio! e rispettate er Presidente!».

Proprio queste quattro favole romanesche stimolarono l’interesse di un compositore e pianista torinese - uno dei maggiori del Novecento italiano insieme a Respighi e Pizzetti - come leggiamo nella lettera inviata al nostro favolista dall’editore Arnoldo Mondadori il 17 settembre 1923: «Il Maestro Alfredo Casella mi ha chiesto l’autorizzazione a musicare quattro tue Favole e cioè Er Coccodrillo, Er Gatto e er Cane, La carità, L'elezzione der Presidente. Io gli ho comunicato il mio nulla osta, riservandomi di interpellarti. Ora occorre che tu mi mandi la tua autorizzazione perché io possa farla conoscere al Casella» (Trilussa, Tutte le poesie, Mondadori 2004, p. CXII).

«Nacquero così in poche settimane» (A. Casella, I segreti della giara, Firenze 1941, p. 143) le Quattro favole romanesche di Trilussa, op. 38, per voce e pianoforte di Alfredo Casella (Torino 1883 - Roma 1947). In circa dieci minuti di musica brillante, il compositore penetra nello spirito del poeta romano e ne deriva spunti di comicità incontenibile. Proprio in quell’anno il Casella «avanguardista» e internazionale diventa «neoclassico», raggiunge cioè la vera musica italo-moderna, secondo quanto egli stesso affermava: «Ritengo che sole queste mie musiche scritte dopo il 1923 rappresentino veramente una meta, mentre tutte le precedenti non furono che tappe più o meno felici di un ventenne travaglio» (A. Casella, 21+26, Olschki, Firenze 2001, p. 25). Gli accordi complicati e sovrapposti, certi giochi timbrici, grandi blocchi fonici protratti in lunga vibrazione, suoni estremi usati ripetutamente lasciano il posto alla melodia e, soprattutto, al ritmo vigoroso.

La Guida, una delle due poesie di Trilussa sulla fede, è recitata in un romanesco approssimativo dal veneto Papa Giovanni Paolo I all’inizio della seconda delle sue uniche quattro udienze generali, incentrata sulla prima virtù teologale: «Quela Vecchietta ceca, che incontrai / la sera che mi spersi in mezzo ar bosco, / me disse: - Se la strada nun la sai / te ciaccompagno io, che la conosco. / Se ciai la forza de venimme appresso / de tanto in tanto te darò na voce, / fino là in fonno, dove c'è un cipresso, / fino là in cima, dove c'è una croce. / Io risposi: Sarà... ma trovo strano / che me possa guidà chi nun ce vede... / La ceca, allora, me pijò la mano / e sospirò: - Cammina -. Era la fede».

Il «Papa del sorriso» definisce questa poesia «graziosa», ma «difettosa» da un punto di vista teologico. «Difettosa - sottolinea - perché quando si tratta di fede, il grande regista è Dio, perché Gesù ha detto: nessuno viene a me se il Padre mio non lo attira […] Ecco che cosa è la fede: arrendersi a Dio, ma trasformando la propria vita. Cosa non sempre facile» (Giovanni Paolo I, Udienza generale del 13 settembre 1978).

Nonostante le imperfezioni teologiche rilevate da Giovanni Paolo I ne La Guida, da quello e da altri componimenti emerge un Carlo Alberto Salustri con un tratto preciso:

«Sulla fede appresa dalle labbra materne e praticata forse con fervore nel Collegio di San Giuseppe, a Piazza di Spagna, sarà caduta molta polvere, ma non la ventata della miscredenza. Forse il rispetto umano, forse la consapevolezza del contrasto tra la purezza della fede e le fragilità della vita gli avranno consigliato di non professarla a bandiera spiegata ma non di disfarsene. “Fin da bambino - ha scritto - per un istinto profondo ed invincibile ho avuto una fede assoluta in una Provvidenza che regna sugli uomini, in una Bontà e Saggezza suprema che governano il mondo: in Dio. Mi piace soprattutto dirlo ai ragazzi, perché in questo argomento la mia fede è rimasta assoluta, intatta e semplice, come quando ero ragazzo. E mi ha sempre aiutato e confortato nella vita”. È una sua preziosa confessione, che ho pescata nel Corriere dei Piccoli del 7 luglio 1935» (D. Mondrone, Trilussa da vicino, ne La Civiltà Cattolica, Roma 1940, p. 218).