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Trump ha fretta di annunciare l’accordo coi talebani

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di Gianandre Gaiani

Dopo due anni di annunci e smentite sembra che gli Stati Uniti abbiano raggiunto un accordo con i talebani per una tregua che entrerà in vigore “molto presto” e che potrebbe portare al ritiro dall’Afghanistan degli ultimi militari americani e di conseguenza anche dei contingenti forniti dagli Stati europei della NATO e da altri alleati.

Lo riportava ieri l’agenzia Associated Press citando una fonte dell’amministrazione Trump che ha aggiunto come l’accordo preveda “una riduzione delle violenze” per un periodo di sette giorni, che sarà seguito entro dieci giorni da allora dall’avvio di veri e propri negoziati di pace tra tutte le parti.

Di Afghanistan e prospettive di intesa con gli insorti hanno discusso in questi giorni a Monaco, il segretario di stato americano Mike Pompeo, il segretario alla Difesa Mark Esper, il presidente afghano Ashraf Ghani, il generale Scott Miller, comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan e Zalmay Khalilzad, l’inviato speciale Usa che negozia a Doha (Qatar) con i talebani.

“Gli Usa e i talebani hanno negoziato una proposta per una riduzione della violenza per sette giorni” ha dichiarato Esper al vertice NATO a Bruxelles e se Donald Trump aveva twittato che i negoziati tra Stati Uniti e talebani hanno segnato un “notevole progresso” la CNN sostiene che la Casa Bianca vorrebbe annunciare un accordo con i talebani entro i prossimi giorni.

“Oggi ho ricevuto con piacere una chiamata del segretario di Stato Pompeo che mi informava dei notevoli progressi raggiunti nei negoziati, che continuano, con i talebani che offrono una significativa e durevole riduzione della violenza” ha twittato il presidente afghano Ghani con il quale però finora i talebani si sono rifiutati di dialogare considerandolo “un fantoccio degli Stati Uniti”.

Anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha mostrato ottimismo dando “il benvenuto a qualsiasi passo che possa portare a una riduzione della violenza in Afghanistan” e aggiungendo che i talebani “non vinceranno sul campo di battaglia e devono sedersi al tavolo negoziale ed impegnarsi in vere trattative di pace”.

Affermazioni forse un po’ azzardate. Il vero problema è che gli USA e la NATO non hanno vinto in Afghanistan e oggi devono negoziate con i jihadisti che avrebbero dovuto sbaragliare, aggrappandosi a fragili e traballanti promesse di “riduzione della violenza” per avere un appiglio col quale giustificare il ritiro di buona parte dei circa 20mila militari alleati (14mila statunitensi) ancora presenti in Afghanistan.

Ai circa 13mila militari americani (8mila assegnati all’operazione NATO “Resolute Support” di appoggio e addestramento alle forze afghane e altri 5mila all’operazione “combat” tutta americana “Freedom Sentinel”) si aggiungono gli 8.700 forniti dagli Stati europei della NATO e da altri alleati tra i quali 1.300 tedeschi, 1.100 britannici, 900 italiani, altrettanti georgiani, 800 rumeni, 600 turchi, 350 polacchi, 300 australiani, altrettanti cechi, 230 mongoli, 200 portoghesi mentre Olanda, Danimarca e Bulgaria schierano ognuna circa 160 militari, 130 l’Albania, 120 Azerbaigian, Croazia e Armenia mentre una ventina di altri contingenti nazionali hanno consistenze puramente simboliche inferiori ai 100 effettivi.

Un ritiro oggi ancor più importante per Trump che punta anche sull’effetto mediatico del rientro a casa dei soldati in guerra per sostenere la campagna elettorale che sembra portarlo verso la conferma alla Casa Bianca.

Come accadde con i ritiri affrettati di Richard Nixon dal Vietnam (1972) e più recentemente di Barack Obama da Iraq e Afghanistan (fine della missione di combattimento), anche quello che Trump sta negoziando coi talebani rischia di risultare disastroso, soprattutto per il governo di Kabul.

I limiti di questa intesa ancora tutta da vedere nei dettagli sono fin da ora fumosi e incerti, si parla genericamente di una “riduzione della violenza” ma non di una tregua o di un cessate il fuoco. Secondo il generale John Hyten, vice capo di stato maggiore interforze americano, l’Afghanistan “è così dispersivo e le comunicazioni sono così difficili che ci saranno sempre problemi” ma in realtà è possibile che i talebani riducano gli attacchi ai soldati americani ma non alle più deboli forze di Kabul.

Anche se le violenze calassero per una settimana questo non significherebbe né una smobilitazione delle milizie talebane né una riduzione della loro minaccia.

Il governo di Kabul ha reso noto il 15 febbraio che le azioni militari contro gli estremisti islamici stanno continuando mentre nelle precedenti 24 ore erano stati compiuti cinque raid aerei dalle forze aeree americane.

L’8 febbraio, nella provincia orientale di Nangarhar, due militari americani e un soldato afghano erano stati uccisi da un uomo che indossava l’uniforme dell’Esercito Nazionale Afghano. I talebani del resto sono attivi in quasi tutte le province afghane, dove sono presenti anche altri gruppi armati islamici come il ramo locale dell’Isis e al-Qaeda. Davvero a Washington pensano di avviare il ritiro dei loro ultimi militari schierati in Afghanistan dopo soli pochi giorni di relativa calma?

Se così fosse i talebani avrebbero tutto l’interesse a fermare gli attacchi e attendere il ritiro di gran parte delle forze alleate per marciare su Kabul. Un esito che ricorderebbe la caduta di Saigon tre anni dopo la firma degli accordi di pace di Parigi e che vanificherebbe quasi 20 anni di guerra costati 157mila, tra cui 43 mila civili agli afghani (dati dello studio della Brown University) e 3.302 caduti alle forze alleate, inclusi 2.448 statunitensi e 54 italiani.