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Trump, il wrestling e l'America profonda

Trump e Putin
Trump e Putin

“L'era della globalizzazione è finita”, tuona uno spavaldo Donald Trump ai microfoni di Fox Business, investito dalla Storia in movimento e infiammando la sua solidissima base. D'altronde l'elezione del tycoon newyorchese, non nascondiamocelo, è stato sociologicamente l'evento cardine del XXI secolo: uno scenario distopico divenuto realtà, degradante per alcuni, quasi messianico per altri; tra questi c'è anche chi ha riconosciuto in Trump la raffigurazione del concetto biblico − e poi ripreso tra gli altri da Carl Schmitt − di κατέχον, un potere che si muove in un contesto quasi escatologico e in grado di frenare l'avanzata dell'Anticristo.

Basta approfondire senza pregiudizi, come il De André della Città vecchiaquell'America profonda dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi. Qui, tra rigurgiti nazionalisti e diritti sociali depredati dalle gloriosi sorti del libero mercato, Trump ha spopolato ribaltando il paradigma: non si tratta più di destra e sinistra bensì di alto contro basso, come continuano a ripetere incessantemente i suoi sostenitori. Tra questi spicca l'apocalittico movimento denominato QAnon, una “teoria della cospirazione” in crescita esponenziale che ha individuato in Trump la luce contro le tenebre, il rappresentante del popolo nella lotta senza quartiere alla dittatura finanziaria e al Deep State (lo Stato Profondo composto da banchieri, giornalisti, signori della finanza, uomini più ricchi del pianeta e via discorrendo).

Dietro o per meglio dire sotto alla narrazione mainstream e allo storytelling hollywoodiano, la figura di Trump assume connotati decisivi per le sorti dell'Occidente, quasi religiosi; non è un caso che gli evangelici americani lo abbiano sostenuto come mai fatto prima con nessun altro presidente nella storia degli States (più dell'80% dei voti). Donald diventa così il mezzo imperfetto per un disegno perfetto, quello di riportare gli USA - e non solo - alle proprie radici: una vera e propria filosofia apocalittica in cui il termine, come da etimo, non indica una “fine” bensì un nuovo inizio, una “rivelazione” - ἀπο κάλυψιςsvelare ciò che era nascosto, in questo caso le trame del Nuovo Ordine Mondiale.

Certo che investire Trump del ruolo di rappresentante della Sacra Tradizione, capirete, può apparire un po' avventato. E proprio qui si consuma il paradosso tra significante e significato nella parabola del tycoon facendo emergere l'altro Donald, quello di sempre, che la connection l'aveva stabilita non tanto con gli evangelici o i rednecks (letteralmente i colli rossi, i lavoratori dei campi scottati implacabilmente dal sole) bensì con un'America ugualmente profonda ma più volgare e commerciale: in senso lato, l'America del wrestling. Come ha infatti evidenziato il magazine sportivo Bleacher Report:

“La storia WWE non è completa senza Trump, così come la storia di Trump non è completa senza la WWE”.

Quello fra Trump e il wrestling è un rapporto pluridecennale che si sviluppa secondo due direttrici: 1) lo storico legame con il Chairman della WWE, quel Vince McMahon che ha trasformato uno sport-entertainment itinerante e circense in un fenomeno pop e nazionale − usando metodi trumpiani ante litteram; 2) un immaginario comune fatto di contenuti, linguaggio e gestualità che hanno assicurato ad entrambi un successo populista e popolare, dal basso, senza mediazioni.

Gli incroci fra Donald e il wrestling d'altronde partono da lontano, per la precisione dal 1988, quando la Federazione non si chiamava ancora WWE bensì WWF. Trump decide di ospitare la quarta edizione di Wrestlemania (l'evento più importante dell'anno, il Superbowl del wrestling), nella sua Trump Plaza di Atlantic City: per la creatura di Vince McMahon è già un importante riconoscimento e, complice il successo dell'iniziativa, nasce un rapporto che si consolida nel tempo - e che comporta il bis dell'atto successivo.

“Non ho mai venduto biglietti per qualcosa così facilmente come per questo” (Donald Trump, in 'The True Story of Wrestlemania')

Negli anni a venire diverse comparsate e interviste fino all'entrata in grande stile. 2007, Monday Night Raw. Vince McMahon interpreta il classico padre padrone, ricco e autoritario self-made man, e stuzzica il pubblico nella sua Fan Appreciation Night provocando i soliti fischi e boati di disapprovazione. Questo fino a che sul maxischermo non compare Donald Trump, sfidando mister McMahon e “facendo” piovere sulla folla migliaia di dollari. Il guanto di sfida era stato lanciato: nella successiva edizione di Wrestlemania Trump e McMahon si sarebbero sfidati nella “Battle of Billionaires”, ognuno con un lottatore a rappresentarli sul ring.

Naturalmente il cavallo di Trump trionfa e il miliardario sconfitto, come da clausola, deve farsi rasare a zero i capelli dall'avversario: pensate all'istrionico Donald a centro ring, armato di macchinetta, lamette e schiuma da barba, mentre bullizza un rantolante Vince McMahon sulla poltrona da barbiere. Ce lo vedete? Assolutamente sì. Sarà anche questo sketch a consentirgli nel 2013, a coronamento dello storico sodalizio, di entrare nella Hall of Fame della WWE, la “sala della gloria” destinata a chi ha scritto un pezzo di storia del wrestling.

Insomma, abbiamo riassunto all'osso la parte più noiosa e visibile del legame fra Trump e il wrestling, ma non era questo in realtà ad interessarci. Ci preme invece capire quale sia stato l'immaginario, il brodo culturale comune capace di sedurre e conquistare gli americani: per farlo, non possiamo che partire dai luoghi e dal rapporto con il pubblico. Iniziamo col dire che Trump nelle sue campagne elettorali ha battuto a tappeto Stati e contee (primarie repubblicane prima, elezioni presidenziali poi), riuscendo a montare dal basso un autentico movimento con eventi assai partecipati e palazzetti gremiti, e sempre mettendoci tutto il peso della sua presenza.

Come accaduto per la WWF delle origini, si è trattato di un'ascesa quanto mai fisica che i media hanno prima ignorato, poi ridicolizzato, infine stigmatizzato. Senza grandi finanziatori - quelli stavano dalla parte dei Repubblicani “ufficiali” o dei Democratici - Trump ha imposto presenza, temi e linguaggio in un vuoto di potere ma ancor prima di rappresentanza; si è rivolto direttamente al popolo senza mediazioni o velleità educative, sullo stile del primo Vince McMahon. Ed in effetti quest'ultimo, come scrive Andrea Cassini sull'Ultimo Uomo, già da anni aveva capito quanto fosse importante la conquista dell'immaginario:

“(Vince) si era accorto in anticipo di quanto spazio il rock, insieme al suo immaginario, avrebbe avuto nella colonna sonora degli anni ’80, dalla progressiva commercializzazione di certi rami dell’heavy metal – non a caso la stella degli anni ’80, Hulk Hogan, bazzicava dalle stesse parti dei Metallica – passando per gli appariscenti gruppi glam e il rock più patinato, sconfinante nel pop. La WWF che aveva in mente Vince si sarebbe inserita alla perfezione in un panorama che parlava di musica ad alto volume, motociclette, muscoli, giubbotti di pelle, violenza come mezzo di risoluzione dei problemi e una sana dose di patriottismo”.

Il successo del wrestling americano nasce con queste premesse e, come per la narrazione trumpiana, più il prodotto è scorretto e violento, più l'attenzione generale aumenta. Nel comune palazzetto il pubblico ha finalmente un luogo in cui sentirsi rappresentato, senza castrazioni o intenti didattici. Donald e Vince cavalcano un'esigenza libertaria degli istinti, pre-razionale, irriducibile alle buone norme del progresso che condanna pulsioni e pensieri, azioni e linguaggio.

È un po’ come per noi essere allo stadio o anche al bar sport, luoghi in cui sfuggire alle costrizioni sociali, alla repressione intellettuale, alla condanna morale, più generalmente al nostro destino di animali braccati. Qui possiamo recuperare dialetto e turpiloquio, dare sfogo a pulsioni costitutive dell’uomo, canalizzare in gesti e parole quell’ “aggressività” naturale presente in ognuno di noi (e che oggi si esprime con nevrosi quotidiane e ripetute, al volante, in ufficio o tra le mura domestiche).

Quasi un rifiuto della troppa educazione, reso ancora più seducente da un’estetica studiata nei minimi particolari; è la presentazione che rende vincente la WWF prima e The Donald poi. Gli eventi elettorali di quest’ultimo, tra musiche d’entrata e giochi di luce come negli show di wrestling, sono pensati per evitare il principale problema dei politici di professione, la noia. In quest’atmosfera, soprattutto per un animale da palcoscenico come Trump, diventa un gioco da ragazzi trasformare la politica in entertainment.

Mimica studiata a tavolino, e sviluppata con il successo televisivo tra espressioni facciali, smorfie e gestualità delle mani; tempi gestiti alla perfezione – con relative pause sceniche e ammiccamenti al pubblico; identificazione e ancor di più indicazione del “nemico” sepolto dai fischi e dalla disapprovazione del pubblico (nella WWE il cattivo di turno, negli eventi di Trump i giornalisti in prima fila o gli avversari soprannominati con simpatici nomignoli cattura-attenzione, tipici anche del wrestling: Crooked Hillary, Sleepy Joe, Lyin’ Ted, Rocket Man per Kim Jong-un etc).

Da qui si arriva al linguaggio e ai contenuti, che poi secondo alcuni filosofi sono la stessa cosa: dove altro avete visto il cosiddetto trash talking di Trump se non nel wrestling americano? Egli ha dato il via a delle “faide” – tutte che lo hanno visto indubbiamente vincitore – con gli stessi copioni studiati per i wrestler. Trame semplici e lineari ma tremendamente efficaci, in cui parla il linguaggio della gente, promette di dare al pubblico ciò che vuole e non ha paura di ricorrere alle “sane” maniere forti per farsi rispettare (qui un leggendario tweet/meme in cui riprese le immagini della sua aggressione a McMahon, applicando sulla testa di Vince il simbolo della #FraudNews CNN).

Donald è l’eroe della situazione che, con il sostegno popolare, smaschera i bugiardi e corrotti protetti invece dai poteri forti (i cattivi WWE sono magari appoggiati dal perfido Chairman, i democratici da tutti i media e i giornali). Sotto questo aspetto, insieme al suo amico Vince, incarna quell’anti-tradizione americana fatta di imprenditori e uomini forti che ne hanno abbastanza dei giri di parole, dei dibattiti infiniti, dell’establishment, e che invece traggono linfa ed energia vitale dalla gente; anche perché a livello di immaginario, nel bene e nel male, dall’America elementare ma profonda non si sono mai distaccati.

“La WWE, se non è LA chiave, è certamente una chiave importante del fenomeno Donald Trump” (Kurt Andersen, co-fondatore del magazine ‘Spy’)

Quello del wrestling e di Trump non è stato solo il trionfo, rispettivamente, di uno sport non sport e di un politico non politico, ma ancor prima è stato un successo di connessione sentimentale e intellettuale con il pubblico; un pubblico ormai con tutti i difetti del mondo, che quando pensava bene era “soggetto rivoluzionario” e adesso è presto ridotto a gregge zotico, ignorante e para-razzista.

La verità è che il popolo è lo stesso da sempre, vuole sempre le stesse cose e si muove costantemente secondo gli stessi meccanismi psicologici. Che poi lo si voglia educare, emancipare o invece fomentare, questo non spetta a noi dirlo. Da parte nostra, anti-americani fin dal giorno zero, non possiamo che riconoscere in Trump e Vince McMahon una grande e autentica storia a stelle e strisce.