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UEFA e FIFA, non ci sono poteri buoni

management del calcio
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Ormai lo sappiamo, sono bastate quarantotto ore a derubricare la maggiore rivoluzione calcistica a più fragoroso fallimento manageriale dello sport professionistico. Le dichiarazioni imbarazzate rilasciate a Reuters da parte di Andrea Agnelli hanno posto la pietra tombale su un aborto ancora embrionale, mentre Florentino Perez accantonava in radio i toni trionfalistici per passare a quelli vittimisti: «Ci hanno voluto uccidere, come se avessimo tirato una bomba atomica. In vita mia non avevo mai visto tanta aggressività». Quindi mezze frasi sullo “stop ma non la fine” del progetto, e su possibili penali che tuttavia per ora non verranno esercitate.

Insomma, al di là dei sofismi, è “vittoria”. Ai rintocchi delle campane a morto hanno risposto quelle dei giorni di festa. Hanno perso i cattivi, i secessionisti, quelli che volevano distruggere questo sport, eliminare la meritocrazia, sottrarre ai tifosi la loro gioia. Ma chi ha vinto? La domanda è banale, la risposta però non è scontata. Nelle storie che ci raccontano vincono sempre i buoni, e forse ci illudiamo sia successo anche qui. Vincono i tifosi del Chelsea, assiepati per le strade a protestare con i fumogeni blues. Vincono i tifosi dell’Arsenal, a cui i Gunners hanno addirittura chiesto scusa versando lacrime di coccodrillo. Vincono i giocatori del Liverpool, uniti nella prima protesta a reti social unificate.

Purtroppo, dietro le manifestazioni di comprensibile sdegno e protesta dei tifosi, dei media, degli addetti ai lavori, la faccia angosciata di Aleksander Čeferin cavalcava un’implacabile onda di populismo. Il presidente della UEFA ha fatto propri, in questi giorni di pura follia, tutti i cliché ormai cristallizzati del calcio, e così ha provato a rifarsi una verginità ormai perduta.

«Per qualcuno i tifosi sono diventati consumatori, i fan sono diventati clienti, le competizioni sono diventati prodotti. Non si guardano più le formazioni ma i followers (…). L’egoismo deve essere rimpiazzato dalla solidarietà. I soldi sono diventati più importanti della gloria e della realtà, della passione».

– Aleksander Čeferin

La solidarietà, la stessa in nome della quale ad esempio la UEFA lancia il suo programma di “volontari” per organizzare gli europei, ripagandoli addirittura con “un’esperienza indimenticabile” e con la trasmissione dei valori dello sport. Comunque, da tutta questa storia, sicuramente la federazione europea ne è uscita rafforzata, investita dell’onerosa responsabilità di salvare il calcio. «Solo una piccola parte del mondo del calcio è corrotta. Accecata da avidità, a cui del calcio non interessa. Alcuni club non pensano alle reti segnate ma ai loro conti in banca», ha rincarato la dose Čeferin, in una demagogia surreale e spudorata.

Passata la tempesta è però tempo di calcolare i danni e soppesare le conseguenze. Chiedersi magari da dove nasca un’idea tanto scellerata da incappare nella (sacrosanta) “gogna mediatica”. Nel processo anabolizzante del sistema calcio la UEFA, infatti, non è stata certo esente da colpe. L’istituzione che oggi condanna “la sporca dozzina” e i privatizzatori del pallone è la stessa che ha incluso nella sua confederazione diversi paesi asiatici, smaniosa di spremere risorse azere o kazake. È la stessa che ha già lanciato la squallida Conference League per il 2022, con finale in quel di Tirana, Albania.

La droga è arrivata sotto forma di diritti tv ricchissimi e ricavi da sponsor mostruosi, gonfiati a dismisura anche a discapito del valore sportivo del prodotto. Per questo oggi abbiamo l’estenuante Europa League, l’inutile Nations League e dal prossimo anno, appunto, la misteriosa Conference League. Un circolo vizioso falsamente combattuto dall’UEFA a dosi di un metadone chiamato Financial Fair Play: un fallimentare progetto che ha contribuito solo ad aumentare le disparità e la trasparenza, invece di combatterle.

Una misura istituita per favorire un auto-sostentamento economico che invece ha solo avvantaggiato i più scaltri analisti di bilancio i quali, in quelle pieghe, hanno saputo nascondere i loro finanziamenti illeciti. Primo tra tutti il Paris Saint Germain, salvato da vizi procedurali, ma che avrebbe ampiamente infranto il codice del FFP. E l’ennesima beffa è arrivata dalle agenzie iniziate a circolare nella notte: Nasser Al-Khelaifi è il nuovo presidente della ECA.

«Vorrei congratularmi con l’ECA per aver scelto Nasser come nuovo presidente. Il calcio ha bisogno di brave persone nei ruoli di responsabilità e Al-Khelaifi è qualcuno che ha dimostrato di essere capace di guardare gli interessi di tanti club e non solo a quelli del suo, cosa che dovrebbe essere un prerequisito per la poltrona di presidente dell’ECA.

Non vedo l’ora di lavorare con lui per dare forma al futuro dei club calcistici a livello europeo. È un uomo di cui mi posso fidare.»

Questo il commento alla nomina della stesso Čeferin, che stride rispetto alle speranze di sostenibilità ed equità del sistema: un sistema malato che il board della Superlega pensava di sanare iniettando altra liquidità. La stessa medicina che propone Čeferin, rilanciando sul panno verde una Champions League allargata (ma non lo era già?) a 36 squadre e con un budget aumentato a 7 miliardi. In fondo, una delle poche verità scagliata dalla diarchia Perez-Agnelli è stata:

«se continuiamo così il calcio muore».

Per questo la UEFA dovrebbe contribuire a riformarlo, rendendo sostenibile un sistema inefficiente. L’ha chiarito anche Marotta prima di Spezia-Inter ai microfoni di Sky: «Il calcio rischia il default. E parlo dell’intero sistema. Nessuna azienda potrebbe continuare a vivere con un monte-ingaggi pari a al 60-70% del fatturato». Non sarà un’iniezione di liquidità nelle casse a risolvere il problema, ma solo a rimandarlo. Il punto è invece limitare quelle percentuali folli, non semplicemente aumentare il giro d’affari. È questa la grande questione da affrontare, dal calcio di base a quello dei “grandi”.

Anche la FIFA comunque non ha fatto mancare il suo apporto a Čeferin, anche se più defilata in termini di dichiarazioni e prese di posizioni rispetto alla Superlega. Forse perché proprio qualche settimana fa proprio Infantino aveva proposto una Superlega africana per rinverdire il movimento del continente nero. D’altra parte la FIFA, un “coacervo di corruzione” come la definì Karl-Heinz Rummenigge, ha raccolto un’antologia di scandali da far impallidire molte organizzazioni criminali: solo l’ultimo, in ordine di tempo, è quello dei Mondiali in Qatar, che si giocheranno nel 2022 in dicembre stravolgendo i calendari del calcio globale.

Gli stessi Mondiali di cui la FIFA ha le mani sporche del sangue di circa 6.500 operai morti nella costruzione degli impianti. Una tragedia silenziata con maestria, ma esplosa come un ordigno negli ultimi mesi che ha portato anche alle – tardive se non ridicole – proteste dei calciatori.

Insomma, questa non è stata una guerra tra alto e basso, tra cattivi e buoni. Al contrario è stata una lotta tra ricchi, tra élite con la stessa visione del mondo, solamente con una – quella dei golpisti – peggiore dell’altra: più volgare e spudorata, più disumana o anzi post-umana (almeno l’altra prevede ancora che il risultato del campo conti qualcosa, che ci possa un miracolo Leicester, seppur sempre più isolato in una struttura anno dopo anno più elitaria).

Ad ogni modo il capitolo sulla Superlega si è finalmente chiuso. Questa guerra lampo, come l’abbiamo chiamata per analogie belliche, è stata persa dai cattivi ma non è stata certo vinta dai buoni. E per gli appassionati, al massimo, è una vittoria mutilata. Questa è la consapevolezza da cui il nuovo management del calcio – in una successione inevitabile dopo il fallimento della vecchia guardia – dovrebbe ripartire. In fondo la Superlega era anche un’opportunità, per gli altri, di mettere tutto in discussione, di ricominciare da basi nuove (per dirne una il modello tedesco, con la partecipazione societaria dei tifosi): sfumato il golpe resta solo il vecchio regime, oggi più potente che mai.