x

x

Unioni civili e rettificazione di sesso

Unioni civili
Unioni civili

Unioni civili e rettificazione di sesso

Incostituzionale l’automatico scioglimento dell’unione civile: il timido passo avanti della Consulta rimarca il dislivello fra le unioni civili e il matrimonio.

ABSTRACT (Italiano):

Il presente contributo si pone l’obiettivo di illustrare le attuali divergenze di disciplina che interessano il matrimonio e le unioni civili, con specifico riferimento al caso di rettificazione di attribuzione di sesso. Le predette divergenze sono state oggetto di valutazione in una recentissima sentenza della Corte costituzionale, che ha concluso per l’illegittimità costituzionale dell’automatico scioglimento dell’unione civile a seguito di rettificazione di sesso di uno dei suoi componenti.

ABSTRACT (Inglese):

The aim of this contribution is to illustrate the current divergences between the rules governing marriage and civil unions, with specific reference to the case of sex rectification. The aforementioned divergences were the subject of an assessment in a very recent ruling by the Constitutional Court, which concluded that the automatic dissolution of a civil union following the sex rectification of one of its members is unconstitutional.

 

 

Unioni civili e rettificazione di sesso

 

La sentenza n. 66/2024 della Corte costituzionale

In data 22 aprile 2024 è stata depositata la sentenza della Corte costituzionale n. 66/2024. La pronuncia si inseriva all’interno del giudizio di legittimità costituzionale sollevato in via incidentale dal Tribunale di Torino nel corso di un procedimento di rettificazione di attribuzione di sesso.

La questione di legittimità costituzionale riguardava, inter alia, l’art. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione (quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

L’attore del procedimento principale aveva introdotto un giudizio di rettificazione di attribuzione di sesso, acquisendo una identità psicosessuale femminile non corrispondente al sesso attribuitogli nell’atto di nascita, in costanza di unione civile con il proprio partner. Per l’automatismo che ne consegue, il vincolo dell’unione precedentemente contratta veniva inevitabilmente a cessare.


Le differenti tutele del matrimonio, da un lato, e delle unioni civili, dall’altro

Tale conseguenza deriva dall’impianto della summenzionata legge n. 76 del 2016:

  • all’art. 1, comma 27 la stessa dispone infatti che, ove i coniugi uniti in matrimonio abbiano manifestato personalmente e congiuntamente al giudice, nel corso del giudizio per rettificazione di sesso, la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso;
  • invece, il comma 26 del medesimo art. 1 dispone che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso.

Evidente è l’assenza di una disposizione analoga al comma 27 per coppie unite civilmente che, a seguito di una sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, esprimano la propria determinazione a mantenere gli effetti dell’unione. Il rimettente del procedimento principale, pertanto, lamentava una ingiustificata disparità di trattamento in situazioni analoghe – dal matrimonio all’unione civile ma non viceversa – ed una ingiustificata limitazione alla libertà fondamentale dell’individuo, considerato l’automatico scioglimento dell’unione civile. In sintesi, un diverso trattamento riservato alle coppie omoaffettive rispetto a quelle coniugate.


Il problema all’origine: l’ontologica diversità degli istituti

Come spesso accade, il problema è a monte.

Il motivo di una simile discrepanza va ricercata, invero, nella ontologica diversità del matrimonio, da una parte, e dell’unione civile, dall’altra, diversità che si traduce in una differente copertura costituzionale: il matrimonio, da intendersi quale unione fra persone di sesso diverso, si riconduce all’art. 29 Cost. e alla tutela della famiglia; l’unione civile, invece, ottiene giuridico riconoscimento attraverso l’art. 2 Cost., configurandosi quale formazione sociale in cui l’individuo svolge la propria personalità.

In definitiva, gli effetti prodotti dal vincolo dell’unione civile mostrano un’innegabile assonanza con quelli derivanti dal vincolo matrimoniale; purtuttavia, non coincidono con questi, e si caratterizzano per una estensione inevitabilmente ridotta.


La soluzione della Corte costituzionale: l’illegittimità costituzionale

Pertanto, dato atto dell’impossibilità per la Consulta di instaurare automaticamente il vincolo matrimoniale a seguito di scioglimento dell’unione civile (scioglimento quale esito del percorso di transizione sessuale di uno dei suoi componenti, in forza degli artt. 1 e 4, legge n. 164/1982), la stessa ha proceduto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 26 della legge n. 76 del 2016, in riferimento all’art. 2 Cost.

Nella specie, la Corte costituzionale ha voluto salvaguardare il diritto inviolabile della persona di mantenere senza soluzione di continuità la pregressa tutela derivante dall’unione civile (propria del precedente status) una volta condotto a compimento il percorso di affermazione della propria identità di genere, mirando ad escludere un “sacrificio integrale del pregresso vissuto”, per usare le parole della Corte.

L’impianto normativo attuale, infatti, pone l’individuo nella drammatica condizione di dover scegliere tra la realizzazione della propria personalità (nel caso in esame, per mezzo della scelta di genere, alla quale si accompagna l’automatismo caducatorio dell’unione civile già goduta) e la conservazione delle garanzie giuridiche che alla pregressa unione si accompagnano.

La Consulta ha pertanto ricercato uno strumento di tutela che evitasse ai componenti dell’unione civile, per il tempo necessario alla celebrazione del matrimonio, una discontinuità nel rapporto di coppia dovuta all’acquisita nuova identità di genere di uno dei suoi componenti. Tale strumento è stato individuato nella sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento dell’unione civile per 180 giorni, tempo necessario a che le parti, che abbiano congiuntamente manifestato una siffatta volontà davanti al giudice della rettificazione anagrafica entro l’udienza di precisazione delle conclusioni, celebrino il matrimonio.

La scelta circa la durata di tale sospensione è mutuata – ironia della sorte, ndr – proprio dal termine fissato dal Codice civile per la celebrazione del matrimonio eterosessuale a far data dalle pubblicazioni ex art. 99, c. 2 c.c.

Con un simile rimedio, si è voluto garantire agli uniti civilmente la tutela propria del rapporto già goduto e riconosciuto nell’ordinamento, nelle more della celebrazione del matrimonio.

La vicenda di Torino getta luce, ancora una volta, sul dislivello che il nostro ordinamento ammette relativamente alla disciplina del matrimonio per persone di sesso diverso e delle unioni civili per persone del medesimo sesso, oltre che sulla irrinunciabile funzione nomopoietica della Corte costituzionale.