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Vecchio, pazzo Cézanne: è tra i piedi da un secolo ma più attuale che mai

Tra i piedi da oltre un secolo e più attuale che mai
Paul Cezanne
Paul Cezanne

Vecchio, pazzo Cézanne: è tra i piedi da un secolo ma più attuale che mai

Maledetto Cézanne! Tra i piedi da oltre un secolo e più attuale che mai. Padre-padrone dei migliori tra i pittori moderni, stregone che ha imposto la continuazione della propria ricerca, pena la mediocrità, riuscendo a imporre i soggetti e il modo per risolverli, il ritorno alla struttura e alla tessitura aperta della pennellata.           

Tutto questo quando la sua voce ormai taceva e alla coltre dell’indifferenza che lo aveva isolato da vivo era pensabile dovesse sovrapporsi quella dell’oblio. Invece no, dopo la sua scomparsa, e soltanto allora si comprese la sua lezione, si riconobbe la nobiltà del suo magistero elaborato in solitudine e a cosa fosse servita una vita condotta nel silenzio e nell’incomprensione da parte degli stessi amici e colleghi.

Effettivamente gli esordi di Cézanne pittore lasciavano ben poco a sperare, le copie da autori del passato o certi ritratti e nature morte trattati a spatola, come se ne trovano anche nella mostra romana, non erano certo in grado di assicurare un futuro di gloria, e non c’è la peggio che partire con il piede sbagliato. Neppure i suoi colleghi impressionisti, salvo Pissarro, stravidero per lui, lo stesso Monet, anni più tardi, oscillava ancora nel dire e non dire pur definendolo “il Flaubert della pittura, un po’ goffo, ostinato, grande lavoratore, a volte esitante come un genio che lotta per affermare sé stesso”. Un giudizio indeciso nel quale però si possono leggere certi caratteri distintivi che saranno la forza del Nostro. 

Cezanne

Con queste credenziali Cézanne si accollò l’impegno di riformare la pittura, da solo, senza nulla chiedere e niente pretendere. Sostenuto da una non comune carica di energia si mosse come un predestinato, indifferente all’incomprensione e refrattario all’insuccesso. Ebbe una piccola fortuna, sicuramente l’unica della sua vita, quella di una rendita assicuratagli dall’eredità paterna, che gli permise di disporre a suo piacere della propria esistenza. Da giovane, a Parigi, aveva provato anche lui la ristrettezza dei mezzi e quindi poteva ora sentirsi sollevato dal bisogno e pensare unicamente alla pittura sapendosi vaccinato alle difficoltà. Poteva vantare una discreta cultura classica, arricchita sui testi latini e coltivata nel rapporto con Flaubert, amico d’infanzia, di fanciullezza e di scuola.  Assieme si erano tuffati negli svaghi campestri e Cézanne vi aveva contratto quell’amore per la natura che sarà la sua felice ossessione di pittore.

Nel rapporto con gli impressionisti aveva compreso l’importanza delle loro scoperte ma ne aveva anche intravisto il limite. Una volta rianimata la pittura quegli artisti pensavano di poter godere del miracolo vivendo alla giornata; per Cézanne invece il problema si presentava proprio allora, capiva che era tutto da fare e si tormentava al pensiero delle fondamenta da gettare per ricostruire l’edificio di quel ministero della pittura come lui la intendeva. 

Era giusto e salutare il tripudio di luce impressionista, preziosa la ricerca di atmosfere e necessaria la scomposizione dei colori primari per esaltarne la purezza. Cézanne partecipò e andò oltre, vide la natura fondersi nel crogiolo della luce ma ripensò le forme, il chiaroscuro, la corposità, i volumi, la pesantezza. Come gli altri aveva constatato la fine della pittura per asfissia e quindi salutato la ritrovata vita all’aria aperta, il ricorso alla natura. Se non avesse recepito, forse lui solo o comunque più degli altri, l’ammonimento che veniva dal Louvre, sicuramente si sarebbe lasciato andare coi valorosi colleghi; invece cercò un’altra via, intuì che doveva esserci un percorso per riunirsi alla strada maestra, quella di sempre, che partiva dalle origini e, attraverso i grandi maestri, avrebbe dovuto ricongiungersi alla modernità.  Decise di avventurarsi nella ricerca comprendendo che era quello il suo compito e il suo destino. La cocciutaggine del carattere, la vocazione alla solitudine, la resistenza alla fatica e alle tentazioni mondane lo confortarono nel cammino; proprio la sua cultura classica lo indusse a farsi selvaggio, tornare “primitivo”, ritrovare sé stesso e rinnovare la tradizione nella modernità, “rifare Poussin sulla natura”, un pensiero che non lo abbandonerà mai. La pittura fu per lui un’amante dispotica, possessiva e intransigente; l’amava e la temeva, il burbero solitario, l’invasato, “il vecchio pazzo per la pittura”, come già aveva detto di sé Hokusai, il collega giapponese che sperava di arrivare a centodieci anni per rendere viva una linea o un solo punto. Cézanne, compreso nella stessa ossessione, sperò di stupire Parigi con una mela. Una di quelle mele forgiate dal suo impeto e rese vive e imponenti come personaggi della storia.                   L’ossessione del “motivo”, del taglio da individuare sulla natura, da decifrare e ricostruire sulla tela inseguendo un sogno realissimo, condotto con la foga creatrice di un dio, aveva per lui una priorità assoluta, perfino il giorno dedicato alle esequie della madre amatissima non seppe rinunciare a una visita sul “motivo” per rivedere, continuare, correggere, rassicurare l’amante che niente e nessuno veniva prima di lei.   Il rapporto di Cézanne con la natura fu quello di un eterno allievo, volontario ripetente con la convinzione di non comprendere mai abbastanza la lezione

Si faceva accompagnare sul “motivo” con la carrozza, il resto era affar suo. Per ore e ore osservava, provava, tornava sopra, ricominciava da capo. Gli alberi, le marine, la montagna ripetuta infinite volte, l’intero paesaggio della Provenza veniva analizzato, sintetizzato e ricostruito con il furore mistico di un antico asceta. Con l’acquerello sfiorava appena il foglio, poche macchie di pennello non elaborate, evanescenti come aveva appreso dai giapponesi ma con in più la terza dimensione, il senso della materia, del volume, della prospettiva aerea anche quando tutto si risolveva su un solo piano. I riflessi nell’acqua non rinnovavano la nostalgia romantica ma gli servivano per raddoppiare l’immagine quasi prefigurasse una soluzione futurista. Siamo di fronte a un’esaltante astrazione nella quale ogni valore è mantenuto, mentre la realtà strappa gli ormeggi senza umiliarsi, senza abdicare.     

Neppure l’antico amico Flaubert comprese l’ardito volo di questo eremita e, prigioniero dei suoi pregiudizi, finì per considerarlo un pittore fallito; una constatazione sbagliata ma dolorosa per entrambi. Cézanne sapeva ormai di dover contare unicamente su sé stesso e su quella natura che spogliava di ogni orpello, piacevolezze e attrattive che non servissero ai valori pittorici, all’economia del quadro.  Negli ultimi giorni della sua vita, ancorché sofferente si fece portare sul “motivo” e lavorò come sempre. Forse le deità silvane vollero punirlo una volta per tutte delle sue conquiste nel loro dominio: un acquazzone improvviso lo privò dei sensi. A terra, sotto la pioggia scrosciante chissà per quanto tempo, forse patteggiò la fine, non senza però aver preteso, una vota ristabilito, di ritornare sul “motivo”. 

Articolo uscito su “Libero” MI, 21 aprile 2002