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Verso il superamento del regime ostativo ai benefici penitenziari?

Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Alcune storiche sentenze della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno riportato al centro del dibattito giuridico, e non solo, l’art. 4-bis dell’ord. penit., tema affrontato dall’avvocato Veronica Manca nel recente volume «Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del “doppio binario” e prassi applicative», edito da Giuffrè Francis Lefebvre.

Si tratta di una utilissima guida per gli operatori del diritto in cui l’Autrice, oltre a ripercorre l’evoluzione della normativa, approfondisce le tematiche più controverse con il costante richiamo della giurisprudenza in materia e mediante schemi chiari ed efficaci.

Il regime ostativo si fonda su una presunzione legale di pericolosità sociale tale da escludere l’accesso ai benefici ed alle misure alternative per i detenuti e gli internati, condannati per determinati reati, che non collaborino con la giustizia.

In nome di esigenze investigative e di politica criminale si sacrifica la funzione costituzionale della pena volta al reinserimento sociale del condannato. Funzione rieducativa che, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 149 del 2018) non è sacrificabile sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena. La presunzione legale, infatti, svilisce i principi di individualizzazione e di progressività del trattamento penitenziario. Il detenuto viene trattato come un mezzo e non come un fine, in evidente violazione del rispetto della dignità della persona. È stata creata una categoria di irredimibili, persone a cui è negata ogni speranza, e nei cui confronti lo Stato ha abdicato a svolgere la sua funzione costituzionalmente prevista.

Si impedisce, inoltre, al giudice una attenta ed approfondita valutazione della persona, della sua individualità, del suo percorso soggettivo di espiazione e redenzione. Anche in forza di una diffusa, quanto infondata, sfiducia nell’autonomia della magistratura di sorveglianza che ha pervaso, ad esempio, il recente decreto c.d. “antiscarcerazioni”.    

Oltre all’errore logico del ritenere che solo la collaborazione con la giustizia possa essere sintomo di ravvedimento del condannato, sussiste, in particolare, un’evidente violazione del diritto al silenzio, corollario del diritto di difesa.

Si è giunti ad invertire la funzione del processo e quella dell’esecuzione penale con il primo incentrato sul reo e la seconda concentrata sul reato e non viceversa, con il ritorno ad una concezione del diritto penale costruita sul tipo d’autore.

Una disciplina introdotta in una fase emergenziale della storia italiana e solo per alcuni gravi delitti che, negli anni, è stata confermata ed è stata estesa ad un numero sempre maggiore di delitti, tanto da perdere quella parvenza di eccezionalità che ne sanava apparentemente le storture. Il consueto divenire definitivo del provvisorio in nome delle eterne emergenze.

L’analisi dell’evoluzione della normativa è utile a smentire alcuni falsi miti. L’originaria formulazione dell’art. 4-bis ord. penit. prevedeva la concessione dell’assegnazione al lavoro all’esterno, dei permessi premio, delle misure alternative alla detenzione, ai condannati per i delitti gravi indicati dalla norma solo se fossero stati acquisiti “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Per i delitti di c.d. seconda fascia, invece, i benefici potevano essere concessi solo se non vi fossero “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”. Nessun riferimento, pertanto, alla collaborazione con la giustizia che comportava soltanto un trattamento premiale.

Fu nel 1992, nel periodo tragico delle stragi in cui furono uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte, che fu introdotta mediante decreto legge la nuova formulazione della norma subordinante la concessione dei benefici alla collaborazione con la giustizia. Viene smentita dai fatti la ricostruzione strumentale che vede nel superamento dell’attuale ergastolo ostativo un tradimento delle idee dei Giudici Falcone e Borsellino.

Un argomento simile è stato utilizzato anche contro la storica decisione della Corte EDU (sentenza 13.06.2019 n. 77633-16, Viola c. Italia) che ha condannato l’Italia perché l’ergastolo ostativo viola il divieto di trattamenti degradanti ed inumani ed il generale rispetto della dignità umana. Per alcuni critici, la Corte di Strasburgo non conoscerebbe a fondo la peculiarità della realtà italiana sottostimando l’importanza dell’ergastolo ostativo quale strumento di contrasto alla criminalità organizzata. Ed invece è proprio la distanza della Corte dalle strumentalizzazioni e dalle polemiche nostrane ad aver permesso una valutazione giuridica dell’istituto volta a sottolineare come nessuna emergenza possa portare alla perdurante compressione dei diritti fondamentali della persona.

Secondo la Corte, infatti, il rispetto della dignità umana vieta di privare una persona della sua libertà senza operare nel contempo per il suo reinserimento e senza fornirgli la possibilità di recuperare un giorno tale libertà.

Una decisione che ha finalmente aperto una breccia nel monolite dell’ergastolo ostativo, seguita a stretto giro dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Intervento ablatorio esteso anche agli altri reati contemplati nell’art. 4-bis ord. penit.

Secondo la Corte, «mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata».

È stata sancita, seppur limitatamente alla concessione dei permessi premio, l’illegittimità costituzionale della presunzione assoluta di pericolosità sociale che, a prescindere da una valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità della personalità del condannato e del contesto esterno di riferimento.

L’auspicio è che possano seguire altri interventi della Consulta in materia, iniziando dall’attesa pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla I Sezione della Corte di Cassazione «con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, degli artt. 4-bis comma 1 e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d.l. n. 152 del 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale».

In controtendenza rispetto alle predette decisioni delle Corti superiori, il legislatore continua ad ampliare del catalogo dei reati ostativi (da ultimo con la legge c.d. “spazzacorrotti”), cedendo alla invocazione populista di una fraintesa certezza della pena, secondo cui l’unica pena ammissibile è quella carceraria priva di benefici e misure alternative: l’ostatività quale regola generale. Tesi inammissibile che stravolge l’originaria funzione di garanzia del principio della certezza della pena, da intendersi come predeterminazione legislativa della cornice edittale. Come chiarito dall’Autrice, «ad un accertamento processualmente certo corrisponde una pena certa, ma nell’an, e mai nel quomodo […] Tanto più si costruisce un procedimento esecutivo, giurisdizionalizzato, monitorato dalla magistratura di sorveglianza, e assistito dagli operatori penitenziari, tanto più la pena potrà dirsi certa anche rispetto agli esiti di risocializzazione e non di aumento della recidiva».

L’estensione del doppio binario ad un numero sempre più ampio di reati tradisce la ratio originaria della disciplina e dimostra l’incapacità del legislatore di affrontare problematiche sociali complesse se non ricorrendo alla repressione ed al carcere. Eppure, proprio la funzione di risocializzazione della pena permette di prevenire la recidiva e, quindi, proteggere la società.

Funzione dell’opera in commento è quella di ricordare che il compito del giurista è riportare il sistema sulla via della legalità e della dignità della persona umana.

Ruolo svolto dall’Autrice con questo prezioso volume e nella professione forense, esercitata con la passione di chi è consapevole di difendere i diritti di tutti.

Proprio all’avvocato Manca, Dottore di ricerca in Diritto penale presso l’Università degli Studi di Trento, membro dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Trento e componente dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane, autrice di pubblicazioni giuridiche ed articoli, rivolgiamo alcune domande sulla Sua opera, ringraziandola per la disponibilità e la cortesia.

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