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Web tax: il prezzo è giusto?

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di Massimiliano Trovato

In un'antica freddura cara ai cultori del diritto, un uomo entra in una libreria di Londra per acquistare una copia della costituzione francese, salvo sentirsi rispondere dall'affranto libraio: «sono desolato, non vendiamo periodici». Il motto di spirito torna alla mente - si parva licet - a proposito della famigerata web tax, ormai giunta alla sua sesta o settima iterazione da quando, nel 2013, affiorò per la prima volta nel dibattito pubblico italiano: e il tutto, si badi, senza neppure entrare in vigore.

L'ultima versione licenziata, «salvo intese», dal Consiglio dei ministri ricalca quella contenuta nella finanziaria 2019, ma poi accantonata per la mancata promulgazione dei richiesti decreti attuativi: l'imposta si applicherà ai soggetti con un fatturato complessivo di almeno 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 generati dalla prestazione di servizi digitali in Italia, e introdurrà un prelievo del 3 per cento sui ricavi derivanti, in particolare, dalla pubblicità online, dall'intermediazione delle piattaforme che abilitano la fornitura di beni e servizi, dalla trasmissione dei dati raccolti dagli utenti. Con una differenza pratica significativa: il meccanismo applicativo sarà quello dell'autodichiarazione.

Nelle intenzioni dell'esecutivo, quest'escamotage dovrebbe prevenire nuove paralisi e mettere al sicuro il gettito atteso dalla misura. E detto che sulle critiche sostanziali al nuovo balzello ci siamo espressi ripetutamente - da ultimo in un paper pubblicato da Epicenter nello scorso mese di giugno - vale forse la pena di dedicare qualche cenno proprio ai 600 milioni di euro l'anno che l'erario dovrebbe ricavarne, secondo le previsioni dei proponenti. A titolo di confronto, la Francia - il cui mercato digitale vale quasi il doppio di quello italiano - stima d'incassare da un provvedimento analogo circa 500 milioni l'anno.

Ma anche una previsione di 250 milioni, a ben vedere, apparirebbe eccessivamente ottimistica - o pessimistica, secondo il rispettivo punto di vista. Come detto, l'imposta colpisce alcune specifiche categorie di servizi digitali - fuoriescono dal suo ambito d'applicazione, per esempio, l'ecommerce diretto, la fornitura di contenuti digitali, i servizi di comunicazione e quelli di pagamento. Inoltre, bisogna considerare che le soglie dimensionali previste limitano il numero dei soggetti sottoposti al prelievo. Queste esclusioni limitano ulteriormente i possibili benefici della web tax per l'erario.

Per quanto riguarda la pubblicità online, gli ultimi dati Agcom disponibili (riferiti al 2017) quantificano il mercato in 2,2 miliardi di euro, ma la quota attribuibile a Google e Facebook - le due sole imprese del comparto che saranno colpite dall'imposta - è di circa 1,2 miliardi. A fronte di un'aliquota del 3 per cento, ne discenderebbe un gettito di circa 36 milioni.

Più complesso stimare il gettito generato dai servizi di intermediazione. Secondo i dati dell'Osservatorio eCommerce B2C del Politecnico di Milano, il commercio elettronico in Italia vale circa 31 miliardi di euro: ma da questa somma vanno escluse le vendite dirette (tanto quelle delle piattaforme, quanto quelle degli store proprietari), nonché, nuovamente, gli introiti degli operatori che non raggiungono la soglia minima di 750 milioni di fatturato. Stimando - per eccesso - in 15 miliardi, pressappoco la metà del totale, la quota oggetto d'intermediazione; e nel 10 per cento la commissione media applicata dalle piattaforme, otteniamo una base imponibile di 1,5 miliardi, pari a un gettito atteso di 45 milioni.

Sommando le prime due tipologie di servizi, siamo a circa 80 milioni. Mancherebbe la terza, quella della cessione dei dati degli utenti: si tratta, però, di una categoria di portata marginale nell'attuale contesto di mercato - il fatto che non siano disponibili dati precisi in materia è di per sé indicativo - tanto più se limitiamo il campo agli attori con almeno 750 milioni di fatturato. Una quantificazione realistica del gettito dell'imposta, dunque, si attesta a meno di 100 milioni - una cifra ben lontana dai 600 milioni su cui il governo avrebbe messo gli occhi. Ma non c'è da temere: la differenza, come al solito, la scuciranno i contribuenti.

 

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