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Applicabilità dell’onere di contestazione al processo tributario

La legge 18 giugno 2009, n. 69, con decorrenza 04 luglio 2009, ha riformulato l’art.115 c.p.c., relativo al principio di non contestazione.

In particolare, tale norma attualmente dispone quanto segue: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.

A seguito della siffatta modifica legislativa la giurisprudenza di legittimità ha cercato di disegnare la reale portata giuridica di tale principio, nonché di definirne l’ambito applicativo.

Da qui, si è riproposto il problema della sua applicabilità anche nel processo tributario, risolto sempre in senso affermativo dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, la Cassazione ha esteso l’applicabilità del principio di non contestazione al processo tributario “sia perché, essendo strutturato sulla falsariga del processo civile, può anche ad esso riconoscersi natura dispositiva ed è anch’esso caratterizzato dalla necessità di una difesa tecnica e da un sistema di preclusioni (benché meno stringente di quello previsto per il rito del lavoro ed il rito civile riformato), sia perché, a norma dell’art. 1 D. Lgs. 546/1992, i giudici tributari applicano le norme del medesimo decreto, e, per quanto in esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile (tra le quali rientra certamente l’art. 88 c.p.c.)” (in tal senso Cass., Sez. trib., 24 gennaio 2007, n. 1540, peraltro precedente alla novità normativa).

Da ultimo, anche la sentenza n. 25136 del 30 novembre 2009, emessa dalla Corte di Cassazione, è tornata sull’argomento.

Il caso di specie trae origine da una controversia tributaria, instaurata a seguito di un accertamento, con relative sanzioni, per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di un contribuente, il quale in sede processuale ammetteva parzialmente la sua responsabilità ma, al contempo, faceva rilevare al giudice come tale omissione fosse dipesa interamente dal professionista incaricato di seguire la contabilità, che non aveva presentato la dichiarazione, né versato le relative imposte. La sentenza di primo grado accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando il reddito accertato e dichiarando non dovute le sanzioni. Avverso tale decisione l’Ufficio finanziario proponeva appello fondato sull’unico difetto di motivazione, nella parte in cui dichiarava la non debenza delle pene pecuniarie, in relazione all’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997, atteso che l’art. 6 predetto non avrebbe abrogato o modificato il sistema normativo introdotto dalla L. n. 423 del 1995, laddove, al comma 3, si prevederebbe che il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sarebbero punibili, qualora dimostrino che il mancato pagamento del tributo sia ascrivibile alla condotta di terzi, denunciati, per ciò, all’autorità giudiziaria.

Parimenti, il contribuente proponeva appello incidentale chiedendo l’annullamento dell’accertamento.

La Commissione di secondo grado, posta l’avvenuta condanna del professionista e la sua acclarata responsabilità per le sanzioni, confermava la sentenza di primo grado, rigettando entrambi gli appelli.

In particolare, con la sentenza in commento, la Cassazione ha statuito come “ Anche nel processo tributario – caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità della difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonché dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili – sia applicabile il principio generale di non contestazione, che informa il sistema processuale civile, con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non bisognosi di prova i fatti non espressamente contestati, il quale trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 c.p.c., ma anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e di probità previsto dall’art.88 c.p.c., e nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.”

In sostanza, dal momento in cui il giudice ha ritenuto, in punto di fatto, che la circostanza della responsabilità del professionista fosse comprovata dal cliente, l’Ufficio avrebbe dovuto prendere posizione su tale punto, dimostrando e argomentando il contrario, ossia che non vi fosse sufficiente prova della responsabilità del professionista incaricato.

Diversamente, l’Ufficio nel ricorso in Cassazione ha argomentato il difetto di motivazione soltanto sulle categorie proprie della normativa di cui alla L. n. 423 del 1995, non tenendo conto minimamente della giurisprudenza suesposta.

Infine, si ritiene di dover aderire all’orientamento dottrinale secondo cui, l’inciso “parte costituita”, utilizzato dal Legislatore nella norma di cui all’art. 115, 1 comma, c.p.c. e riferibile a entrambe le parti processuali, non debba implicare l’applicabilità dell’onere di contestazione soltanto alle parti costituite, dovendosi includere, altresì, la parte contumace. Attraverso ad una interpretazione effettivamente conforme alla natura dispositiva del processo, che tenga conto del principio del giusto processo (art.111 Cost.), rispettosa dei principi di economia processuale e di collaborazione e buona fede ex art. 10, 1 comma, dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212 del 27 luglio 2000), si giunge alla necessaria applicazione del principio di non contestazione anche nell’ipotesi di mancato deposito di controdeduzioni ovvero in presenza di un parte pubblica contumace. Tutto questo in nome di un processo tributario più giusto e più equo.

La legge 18 giugno 2009, n. 69, con decorrenza 04 luglio 2009, ha riformulato l’art.115 c.p.c., relativo al principio di non contestazione.

In particolare, tale norma attualmente dispone quanto segue: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”.

A seguito della siffatta modifica legislativa la giurisprudenza di legittimità ha cercato di disegnare la reale portata giuridica di tale principio, nonché di definirne l’ambito applicativo.

Da qui, si è riproposto il problema della sua applicabilità anche nel processo tributario, risolto sempre in senso affermativo dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, la Cassazione ha esteso l’applicabilità del principio di non contestazione al processo tributario “sia perché, essendo strutturato sulla falsariga del processo civile, può anche ad esso riconoscersi natura dispositiva ed è anch’esso caratterizzato dalla necessità di una difesa tecnica e da un sistema di preclusioni (benché meno stringente di quello previsto per il rito del lavoro ed il rito civile riformato), sia perché, a norma dell’art. 1 D. Lgs. 546/1992, i giudici tributari applicano le norme del medesimo decreto, e, per quanto in esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile (tra le quali rientra certamente l’art. 88 c.p.c.)” (in tal senso Cass., Sez. trib., 24 gennaio 2007, n. 1540, peraltro precedente alla novità normativa).

Da ultimo, anche la sentenza n. 25136 del 30 novembre 2009, emessa dalla Corte di Cassazione, è tornata sull’argomento.

Il caso di specie trae origine da una controversia tributaria, instaurata a seguito di un accertamento, con relative sanzioni, per omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di un contribuente, il quale in sede processuale ammetteva parzialmente la sua responsabilità ma, al contempo, faceva rilevare al giudice come tale omissione fosse dipesa interamente dal professionista incaricato di seguire la contabilità, che non aveva presentato la dichiarazione, né versato le relative imposte. La sentenza di primo grado accoglieva parzialmente il ricorso, rideterminando il reddito accertato e dichiarando non dovute le sanzioni. Avverso tale decisione l’Ufficio finanziario proponeva appello fondato sull’unico difetto di motivazione, nella parte in cui dichiarava la non debenza delle pene pecuniarie, in relazione all’art. 6 del D.Lgs. n. 472/1997, atteso che l’art. 6 predetto non avrebbe abrogato o modificato il sistema normativo introdotto dalla L. n. 423 del 1995, laddove, al comma 3, si prevederebbe che il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sarebbero punibili, qualora dimostrino che il mancato pagamento del tributo sia ascrivibile alla condotta di terzi, denunciati, per ciò, all’autorità giudiziaria.

Parimenti, il contribuente proponeva appello incidentale chiedendo l’annullamento dell’accertamento.

La Commissione di secondo grado, posta l’avvenuta condanna del professionista e la sua acclarata responsabilità per le sanzioni, confermava la sentenza di primo grado, rigettando entrambi gli appelli.

In particolare, con la sentenza in commento, la Cassazione ha statuito come “ Anche nel processo tributario – caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità della difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonché dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili – sia applicabile il principio generale di non contestazione, che informa il sistema processuale civile, con il relativo corollario del dovere del giudice di ritenere non bisognosi di prova i fatti non espressamente contestati, il quale trova fondamento non solo negli artt. 167 e 416 c.p.c., ma anche nel carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena, nella generale organizzazione per preclusioni successive, che caratterizza in misura maggiore o minore ogni sistema processuale, nel dovere di lealtà e di probità previsto dall’art.88 c.p.c., e nel generale principio di economia che deve sempre informare il processo, soprattutto alla luce del novellato art. 111 Cost.”

In sostanza, dal momento in cui il giudice ha ritenuto, in punto di fatto, che la circostanza della responsabilità del professionista fosse comprovata dal cliente, l’Ufficio avrebbe dovuto prendere posizione su tale punto, dimostrando e argomentando il contrario, ossia che non vi fosse sufficiente prova della responsabilità del professionista incaricato.

Diversamente, l’Ufficio nel ricorso in Cassazione ha argomentato il difetto di motivazione soltanto sulle categorie proprie della normativa di cui alla L. n. 423 del 1995, non tenendo conto minimamente della giurisprudenza suesposta.

Infine, si ritiene di dover aderire all’orientamento dottrinale secondo cui, l’inciso “parte costituita”, utilizzato dal Legislatore nella norma di cui all’art. 115, 1 comma, c.p.c. e riferibile a entrambe le parti processuali, non debba implicare l’applicabilità dell’onere di contestazione soltanto alle parti costituite, dovendosi includere, altresì, la parte contumace. Attraverso ad una interpretazione effettivamente conforme alla natura dispositiva del processo, che tenga conto del principio del giusto processo (art.111 Cost.), rispettosa dei principi di economia processuale e di collaborazione e buona fede ex art. 10, 1 comma, dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212 del 27 luglio 2000), si giunge alla necessaria applicazione del principio di non contestazione anche nell’ipotesi di mancato deposito di controdeduzioni ovvero in presenza di un parte pubblica contumace. Tutto questo in nome di un processo tributario più giusto e più equo.