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Verba volant: le parole volano e anche le ingiurie

Si, è proprio il caso di affermarlo con forza, spesso alcune locuzioni che sovente usiamo con incurante disinvoltura, sono da definirsi infelici e possono essere motivo di valutazione giuridica sotto il profilo penale.

In un contesto dialettico tra persone, in qualche occasione animato o animoso, accade sovente di utilizzare delle espressioni più o meno colorite che, ancorché discutibili sotto il profilo morale ed etico, non giudichiamo più così gravi da ritenerci offesi.

Ma in un contesto dove gli attori hanno età diverse, e segnatamente nell’ambito scolastico, è possibile che affermazioni all’apparenza innocue, possano invece essere ricondotte sotto il profilo penale, in particolare all’articolo 594 del codice penale;

Tale articolo testualmente recita:

“Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516.

Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.

La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032 se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato

Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone”

Volendo analizzare ma solo in senso generale la definizione di onore, occorre dire che ricomprende anche la dignità, la valutazione e la stima che un soggetto ha anche rispetto a terzi. Quindi, l’onore attiene alla persona in senso proprio e alle qualità che gli sono attribuite.

Tale condizione è arricchita anche da un insieme costituito da doti intellettuali e fisiche che fanno assumere a quel soggetto un aspetto pregevole anche nell’ambiente in cui esso vive e lavora e dove può essere, suo malgrado, raggiunto da parole ingiuriose.

"L’ingiuria secondo le espressioni letterali usate dall’art.594 del c.p. è costituita dall’offesa all’onore, inteso con riferimento alle qualità morali della persona, o al decoro, cioè al complesso di quelle altre qualità e condizioni che ne determinano il valore sociale" (Sentenza Cass n.4845 del 04.04.1990)

Da quanto sopra descritto è evidente che la definizione del concetto di onore è così complessa che ancorata a elementi di tipo soggettivo ed oggettivo, a seconda delle contingenze e dei contesti sociali, ma anche dalle influenze culturali e professionali assume una variabile di rilievo penale.

In ragione di siffatte definizioni, anche se opportunamente contestualizzate e determinate, ci troviamo innanzi ad una giurisprudenza fluttuante. Alcuni epiteti, pur diventati di uso comune nel linguaggio corrente e in certi ambienti, tanto da non porvi alcuna attenzione a riguardo, diventano contrariamente circostanze conferenti alla qualifica del reato in esame e con tutto quello che ne consegue.

Maggior peso acquista l’infelice epiteto diretto ad un discente poco attento o verosimilmente svogliato nello svolgimento dei propri compiti.

E’ il caso di un minore il quale in presenza dei suoi coetanei viene additato dalla sua maestra con l’epiteto “SCIOCCARELLINO”, pare non certo “docendi causa”.

Nonostante l’autrice dell’evento si sia difesa sul punto ritenendo che non vi era alcuna intenzione di ingiuriare l’alunno, altrimenti avrebbe utilizzato termini più offensivi e avrebbe scelto un momento in cui la vittima era sola, questa motivazione non è stata accolta.

In vero, gli ermellini hanno confermato la pena inflitta alla docente per il reato a lei ascritto nella sentenza di primo grado, poi integralmente confermata dal giudice di appello.

La Corte di Cassazione - Sezione Quinta Penale, con la sentenza n. 38297 del 24 ottobre 2011, ha così statuito:

“la potenzialità offensiva di una determinata espressione non può essere valutata in astratto, ma deve essere contestualizzata e apprezzata in concreto, in relazione alle modalità del fatto e a tutte le circostanze che lo caratterizzano. Se l’epiteto in questione appare astrattamente di debole portata offensiva, deve però rilevarsi come nel contesto dei fatti esso fu idoneo a manifestare un disprezzo lesivo del decoro della persona, tanto più in quanto diretto verso un minore di età e in presenza dei suoi coetanei”.

Ad avviso dello scrivente quell’espressione, pur “gentile” è da ritenersi offensiva, non solo per la tenera età della parte offesa, ma anche perché l’intenzione da parte della maestra era di evidenziare una qualche manchevolezza del suo alunno anche rispetto agli altri suoi compagni di classe.

Un simile linguaggio, poco educativo, è sempre da sfuggire in un rapporto anche pedagogico quale quello che lega i docenti con gli scolari.

Sarebbe opportuno sempre moderare, in ogni circostanza e ambiente, l’uso di un lessico disinvolto, così da evitare di essere ingiuriosi, a prescindere dall’”animus iniuriandi”.

Una lezione di bon ton da parte degli Ermellini ed un invito ad abbandonare appellativi sgradevoli. 

Si, è proprio il caso di affermarlo con forza, spesso alcune locuzioni che sovente usiamo con incurante disinvoltura, sono da definirsi infelici e possono essere motivo di valutazione giuridica sotto il profilo penale.

In un contesto dialettico tra persone, in qualche occasione animato o animoso, accade sovente di utilizzare delle espressioni più o meno colorite che, ancorché discutibili sotto il profilo morale ed etico, non giudichiamo più così gravi da ritenerci offesi.

Ma in un contesto dove gli attori hanno età diverse, e segnatamente nell’ambito scolastico, è possibile che affermazioni all’apparenza innocue, possano invece essere ricondotte sotto il profilo penale, in particolare all’articolo 594 del codice penale;

Tale articolo testualmente recita:

“Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516.

Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.

La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032 se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato

Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone”

Volendo analizzare ma solo in senso generale la definizione di onore, occorre dire che ricomprende anche la dignità, la valutazione e la stima che un soggetto ha anche rispetto a terzi. Quindi, l’onore attiene alla persona in senso proprio e alle qualità che gli sono attribuite.

Tale condizione è arricchita anche da un insieme costituito da doti intellettuali e fisiche che fanno assumere a quel soggetto un aspetto pregevole anche nell’ambiente in cui esso vive e lavora e dove può essere, suo malgrado, raggiunto da parole ingiuriose.

"L’ingiuria secondo le espressioni letterali usate dall’art.594 del c.p. è costituita dall’offesa all’onore, inteso con riferimento alle qualità morali della persona, o al decoro, cioè al complesso di quelle altre qualità e condizioni che ne determinano il valore sociale" (Sentenza Cass n.4845 del 04.04.1990)

Da quanto sopra descritto è evidente che la definizione del concetto di onore è così complessa che ancorata a elementi di tipo soggettivo ed oggettivo, a seconda delle contingenze e dei contesti sociali, ma anche dalle influenze culturali e professionali assume una variabile di rilievo penale.

In ragione di siffatte definizioni, anche se opportunamente contestualizzate e determinate, ci troviamo innanzi ad una giurisprudenza fluttuante. Alcuni epiteti, pur diventati di uso comune nel linguaggio corrente e in certi ambienti, tanto da non porvi alcuna attenzione a riguardo, diventano contrariamente circostanze conferenti alla qualifica del reato in esame e con tutto quello che ne consegue.

Maggior peso acquista l’infelice epiteto diretto ad un discente poco attento o verosimilmente svogliato nello svolgimento dei propri compiti.

E’ il caso di un minore il quale in presenza dei suoi coetanei viene additato dalla sua maestra con l’epiteto “SCIOCCARELLINO”, pare non certo “docendi causa”.

Nonostante l’autrice dell’evento si sia difesa sul punto ritenendo che non vi era alcuna intenzione di ingiuriare l’alunno, altrimenti avrebbe utilizzato termini più offensivi e avrebbe scelto un momento in cui la vittima era sola, questa motivazione non è stata accolta.

In vero, gli ermellini hanno confermato la pena inflitta alla docente per il reato a lei ascritto nella sentenza di primo grado, poi integralmente confermata dal giudice di appello.

La Corte di Cassazione - Sezione Quinta Penale, con la sentenza n. 38297 del 24 ottobre 2011, ha così statuito:

“la potenzialità offensiva di una determinata espressione non può essere valutata in astratto, ma deve essere contestualizzata e apprezzata in concreto, in relazione alle modalità del fatto e a tutte le circostanze che lo caratterizzano. Se l’epiteto in questione appare astrattamente di debole portata offensiva, deve però rilevarsi come nel contesto dei fatti esso fu idoneo a manifestare un disprezzo lesivo del decoro della persona, tanto più in quanto diretto verso un minore di età e in presenza dei suoi coetanei”.

Ad avviso dello scrivente quell’espressione, pur “gentile” è da ritenersi offensiva, non solo per la tenera età della parte offesa, ma anche perché l’intenzione da parte della maestra era di evidenziare una qualche manchevolezza del suo alunno anche rispetto agli altri suoi compagni di classe.

Un simile linguaggio, poco educativo, è sempre da sfuggire in un rapporto anche pedagogico quale quello che lega i docenti con gli scolari.

Sarebbe opportuno sempre moderare, in ogni circostanza e ambiente, l’uso di un lessico disinvolto, così da evitare di essere ingiuriosi, a prescindere dall’”animus iniuriandi”.

Una lezione di bon ton da parte degli Ermellini ed un invito ad abbandonare appellativi sgradevoli.