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La Costituzione, il contenimento della spesa pubblica e l’autonomia regionale

Analisi nel solco tracciato dalla sentenza n. 198/2012 della Corte Costituzionale
1. La sentenza n. 198 del 2012 della Corte Costituzionale.

Con la sentenza n. 198 del 2012 la Corte Costituzionale ha esaminato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 2, del Decreto Legge n. 138/2011 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 148 del 14 settembre 2011 e dall’ art. 30, comma 5, Legge n.183/2011 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato- Legge di stabilità 2012) riguardante il numero di consiglieri regionali e degli assessori, il trattamento economico e previdenziale degli stessi nonchè la previsione di istituire un collegio dei revisori di conti come controllo interno.

I giudizi di legittimità sono stati sollevati da ben dodici Regioni (Lazio, Valle d’Aosta, Basilicata, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria, Campania, Lombardia, Calabria, Sardegna) e da due Provincie autonome (Trento e Bolzano).

I giudizi di legittimità in parola, riuniti dalla Corte per oggettiva connessione e decisi con unica pronuncia, sono stati sollevati avendo come riferimento numerosi articoli della Costituzione (artt. 3, 70, 77, 97,100,103,114,116,117,119,1121,122 e 123), il principio di leale collaborazione e l’art. 10 della Legge Costituzionale n. 3 del 18.10.2001.

In apertura la Corte ha ritenuto di non dover ammettere l’eccezione sollevata dall’Avvocatura della Stato volta a paventare la carenza di interesse delle Regioni e Provincie ricorrenti in ragione di alcune modifiche intervenute a seguito della conversione in legge del decreto n. 138/2011.

La decisione ampia e complessa, in ragione di molte e diverse eccezioni sollevate dalle dodici Regioni ricorrenti più due Provincie autonome, può, sinteticamente, essere così suddivisa:

1)     per le Regioni a Statuto Speciale e Provincie Autonome.

Quest’ultime lamentavano la violazione delle disposizioni di legge poiché in contrasto con i rispettivi statuti; in particolar modo si dolevano di un intervento legislativo volto a modificare le relative forma di governo, la modalità di elezione dei consiglieri ed assessori regionali e provinciali, nonché il numero e l’indennità dei consiglieri.

La Corte ritenendo fondata la questione ha ribadito il concetto giuridico per il quale gli statuti di Regioni a statuto speciale e Provincie autonome sono <<adottai con legge costituzionale>> e che pertanto <<ne garantiscono le particolari condizioni di autonomia>>. Quindi, ribadito questo concetto giuridico d’ordine, la Corte si è espressa nel ritenere che al fine di adeguarsi ai parametri previsti dall’art. 14, comma 2, D.L. n. 138/2011 <<si richiede, quindi, la modifica di fonti di rango costituzionale. A tali fonti -hanno precisato i Giudici Costituzionali- una legge ordinaria non può imporre limiti e condizioni>>.

Per queste ragioni, una piuttosto palese ed evidente violazione della gerarchia delle fonti del diritto, la Corte Costituzionale ha concluso per dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, D.L. 138/2011 per la violazione dell’art 116 della Costituzione.

2)     per le Regioni a Statuto Ordinario.

Per il caso in esame, ben più complesso è stato il ragionamento seguito dai Giudici Costituzionali, i quali hanno articolato la decisione suddividendo le censure sollevate in tre gruppi:

1) Censure aventi ad oggetto l’intero art. 14, comma 1, D.L. n. 138/2011 sollevate con riferimento agli articoli della Cost. n. 117, co. 2 e 3 in quanto detterebbero una disciplina di dettaglio in una materia di competenza concorrente; il comma 4 dello stesso art. 117 per l’invasione dell’ambito riservato alla potestà legislativa regionale residuale; all’art. 119 in quanto stabilirebbe le modalità con cui le regioni devono raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica; 122 per l’attribuzione al legislatore statale di una competenza ulteriore rispetto alla determinazione della durata degli organi elettivi e dei principi fondamentali relativi al sistema di elezione;  ed infine per la violazione dell’art. 123 ovverosia lesione della potestà statutaria delle regioni.

Tutte queste censure sono state ritenute non fondate poiché secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 198/2012 <<si tratta di un limite complessivo, che lascia alle Regioni un autonomo margine di scelta>>.

Secondo il ragionamento seguito dalla Consulta, la disposizione in parola, oggetto di impugnazione, avrebbe a  riguardo <<la struttura organizzativa delle Regioni, regolata dagli art. 121 e 123>> sicchè in virtù della disciplina costituzionale prevista per il rapporto elettori-eletti per i consiglieri e le modalità di accesso ai pubblici uffici per gli assessori il rilievo è da farsi riscontrare nell’art. 48 Cost. che dispone che “il voto…è uguale” e l’art. 51 Cost. per il quale “tutti i cittadini…possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza ”. Pertanto per i Giudici Costituzionali la disposizione censurata in ragione di un più generale principio di eguaglianza espresso dagli articoli poc’anzi citati, <<mira a garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno diritto ad essere egualmente rappresentati>>.

In conclusione i Giudici Costituzionali hanno avuto modo di riaffermare, definitivamente, che la disposizione censurata <<non viola gli artt. 117,122 e 123 Cost. in quanto, nel quadro della finalità del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati>>.

2) Censure sollevate all’art. 14, lett. a) e b) con oggetto la riduzione consiglieri ed assessori regionali entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto e con efficacia dalla prima legislatura regionale successiva a quella della data di entrata in vigore del decreto stesso, riferite all’articolo 3 Cost..

Per le Regioni ricorrenti che hanno sollevato predetta censura (Emilia-Romagna e Umbria), l’iter di approvazione dello statuto era suscettibile di avere una durata del tutto maggiore rispetto ai sei mesi ciò a causa dell’eventuale referendum popolare e della questione di legittimità previsti dall’art. 123 Cost. Quindi -secondo le ricorrenti- le Regioni si sarebbero trovate ad essere ritenute responsabili per il rispetto di un termine -i sei mesi- fuori dalla loro reale disposizione e  ciò in palese violazione dell’art. 3 Cost.

In questo caso la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondate le censure sollevate chiarendo che le stesse <<richiedono “l’adozione” della riduzione del numero di consiglieri e degli assessori entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto e non che entro lo stesso termine e non che entro lo stesso termine si svolga il referendum popolare sullo statuto e venga sollevata l’eventuale questione di legittimità costituzionale>>.

3) Censure aventi ad oggetto l’istituzione del Collegio dei revisori dei conti con riferimento agli articoli della Costituzione n. 100, 103, 117 ( co. 3 e 6) e 121.   

Secondo la Corte delle Leggi, la disposizione dell’art. 14, comma 1, lett. e), D. L. n.138/2011, volta ad introdurre anche per le amministrazioni regionali un sistema di controllo analogo a quello delle amministrazioni locali, permetterebbe <<alla Corte dei Conti, organo dello Stato-ordinamento il controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (art. 120 Cost.) ed assicurare, da parte dell’amministrazione controllata, il “riesame” (sent. n. 179 del 2007) diretto a ripristinare la regolarità amministrativa e contabile>>.

Predetto controllo avverrebbe caratteristiche tali che -secondo il dictum dei Giudici Costituzionali- non lederebbe l’autonomia regionale in virtù della previsione <<che i componenti dell’organo di controllo interno debbano possedere speciali requisiti professionali ed essere nominati mediante sorteggio -al di fuori, quindi, dell’influenza politica-, e che tale organo sia collegato con la Corte dei Conti, istituto indipendente dal Governo (art. 100, terzo comma, Cost.)>>.

 

2.  Rerum spiritus Constitutionis? L’approccio costituzionale al tempo della crisi economica, politica e sociale.

 

Dopo il breve excursus con riguardo all’aspetto normativo-argomentativo contenuto nella sent. n. 138/2012 della Corte Cost., pare giusto rendere evidenti alcune criticità, non tanto dei passaggi contenuti nella sentenza, quanto piuttosto sul percorso, per molti aspetti controverso, di riforme, immaginato e, malamente, intrapreso dal susseguirsi dei Governi, di dubbia efficacia e comunque palesemente sbilanciato a favore delle pressanti contingenze economiche.

Nel 1891 Papa Leone XIII con la lettera enciclica Rerum Novarum dette una scossa non indifferente alla dottrina sociale della Chiesa la quale stanca ed immotivata non riusciva a trovare il modo adeguato per affrontare la piaga sociale che affliggeva la società del tempo.

Non per irriverenza e blasfemia si è inteso citar un testo pastorale del Capo della Chiesa Cattolica bensì, con il dovuto rispetto, si vuole annotare quello spirito di mediazione che riuscì ad unire diverse istanze ed estremi particolarismi. 

Anche la Costituzione quale “vangelo laico” ha nel suo animus non solo la forza di unire, ma anche le potenzialità per dettare linee guida. 

Il sospetto è che in tempi di crisi - come quello attuale - si mira a realizzare degli interventi che solo formalmente sembrano non incidere sulla Costituzione ma invece finiscono per far mutare, poco a poco, l’approccio costituzionalmente orientato dell’agire riformatore.

Certo occorre un attivismo pungente ed immediato per arginare spesa pubblica, costi e privilegi. Di contro però occorre operare oculatamente evitando di invertire l’annoso rapporto tra Costituzione ed economia; evitando il rischio di minare lo spirito e l’intendimento delle norme Costituzionali.

Si rende impellente una profonda riflessione sulla direzione in cui sta andando l’Italia; e soprattutto come sta andando. Tra molte incertezze deve rimarcarsi l’idea di un costituzionalismo come limitazione anche al potere economico[1].

Il paradosso che vede l’Italia costantemente ripiegata da decenni su crisi economiche, politiche e sociali comporta l’utilizzo spropositato di interventi emergenziali, i quali dovrebbero essere l’eccezione e non la regola.

Le menti più avvedute comprendono che seppur l’esigenza di riformare è oramai stringente, questo non pare essere il momento propizio per modificare i fondamenti del Paese. Il rischio  infatti è quello di intervenire con poca lucidità, azzardando soluzioni in grado di incidere (male) solo nel breve periodo; efficaci nel presente ma non nel futuro.

Certo il taglio al numero dei consiglieri regionali, la riduzione delle provincie e la razionalizzazione de enti a partecipazione pubblica facilita il compito di spiegare ai patners europei che l’Italia sta tentando di porre fine ad anni di sprechi e sperpero. Altrettanto semplice è in tale circostanze rispondere agli umori dell’antipolitica e al malumore contro la classe dirigente che serpeggia nel Paese.

Semplice e facile. Già, ma occorre in ogni circostanza ribadire che la Costituzione, il suo spirito, i suoi articoli, il suo modo di organizzare l’architettura istituzionale dell’Italia esprimono una sacralità tale da non poter essere profanata nemmeno da quella tanto acclamata importanza dei mercati.

Occorre evitare quello che parte della dottrina ha da tempo definito il processo di dissoluzione della stessa idea di Costituzione[2].    

A queste condizioni anche chi quotidianamente studia e si occupa di questioni costituzionali si imbatte nelle tumultuose acque che vedono la ridiscussione del diritto costituzionale classico al cospetto di un diritto costituzionale demotico[3].

Ciò che conta rimane, a sommesso parere di chi scrive, l’incontrovertibile intendimento che vede la Costituzione, pur con la sua veneranda età, precedere e non seguire le vicende economiche, politiche e sociali del Paese.  

 

3. Interventi ridondati all’ombra della Costituzione.

In realtà se un lieve appunto vuol trovarsi sulla vicenda che ha visto impegnata la Corte Costituzionale, allora non si può far a meno che richiamare, in conclusione, sinteticamente alcune vicende costituzionali.

Invero l’Italia, per ciò che attiene la disciplina delle Regioni e delle autonomie locali, aveva intrapreso, anni or sono, alcune innovazioni che oggi, alla luce dell’attuale emergenza economica, sembrano aver perso la originaria portata innovativa.

Nel lontano 1999 con la legge Costituzionale n. 1 si stabilì l’elezione diretta del Presidente della Giunta Regionale e la modifica degli artt. 121 e 126 della Costituzione, ciò al fine di garantire e rimarcare l’autonomia statutaria delle Regioni. Poi ancora nel 2001 il Parlamento approvò la legge Costituzionale di riforma organica del titolo V ( legge entrata in vigore a seguito dell’esito positivo del referendum costituzionale ex art. 138 Cost.).

Due riforme che seppur non immuni da limiti sia sotto l’aspetto procedurale quanto contenutistico, comportarono un nuovo approdo della Repubblica Italiana ormai articolata -secondo autorevoli costituzionalisti- su più livelli territoriali[4].

Tralasciando le varie ipotesi di federalismo più o meno muscolare proposte nelle ultime legislature, potrebbe dirsi che si era giunti a rendere più agevole il rapporto Stato - Regioni e di riflesso tra Legge Statale e Legge Regionale. Ciò in ragione di una previsione costituzionale, l’art. 123, per la quale <<ogni regione ha uno statuto che ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento>>.

Ma cosa cambia con la sent. 138/2012 della Corte Costituzionale? Quali sono, se ancora ci sono, effettivi spazi di autonomia degli Statuti Regionali? Ad esempio, imponendo un limite sul numero dei Consiglieri Regionali si è inteso riproporre nuovi limiti all’autonomia? Un ritorno al passato? Un atto dovuto per le contingenti questioni economiche?

A tali interrogativi risposte univoche e di pronta e facile soluzione non esistono.

Vale la pena rammentare che prima delle riforme sopra brevemente richiamate, per le Regioni a Statuto Ordinario era la Costituzione a disciplinare i tratti fondamentali della “forma di governo” lasciando così allo Statuto una spazio ridotto e del tutto residuale.

Pertanto è proprio in virtù delle riforme succedutesi negli anni che via via si è andato ampliandosi lo spazio di scelta lasciato alle Regioni con l’unico limite derivante dal <<puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione[5]>> e dal <<suo spirito[6]>>.

La questione cruciale è che l’Italia oggi si trova innanzi la pressante questione che investe l’economia e di riflesso il vivere degli italiani.  

Molti e diversi aspetti appaiono problematici e meritano tutti di essere studiati ed approfonditi; tuttavia, osservando dal punto di vista privilegiato della costituzione, deve denunciarsi un evidente problema di metodo. 

Diffusi e frequenti sono gli improvvisati interventi su norme che invece richiederebbero approfondite e complessive azioni  e che, come tali, non possono essere effettuate col solo obiettivo di tagliare gli sprechi.

Occorrerebbe procedere al riordino dell’organizzazione delle istituzioni, in modo da ben bilanciare tanto la agognata razionalizzazzione dei costi quanto il rispetto del tessuto normativo magari mediante una revisione graduale -meglio se costituzionale- dell’intero ordinamento.

E’ necessario scegliere, e farlo una volta per tutte. Scegliere  se ripartire dalla Regioni e dalla tutela delle autonomie locali o se rispolverare il mito della centralità Statale.

Dietro tale scelta in realtà si cela un ulteriore aspetto. Ossia mettere a disposizione delle istituzioni vicine ai bisogni reali ed immediati del cittadino, o se, al contrario, ammettere che l’incapacità di alcuni amministratori rende oggi irrinunciabile un taglio alla stessa democrazia.

Una scelta ridondante, dunque, che attira a se altre e difficili scelte. Tagliare il numero dei consiglieri regionali, le rappresentanze politiche locali e gli enti può servire a garantire bilanci attivi e amministrazioni efficienti? E’ questa una soluzione adatta? Le risposte evidentemente attengono tutte alla sfera politica. Tuttavia se di limiti vuol parlarsi, allora è bene ribadire che l’ordinamento costituzionale non tollera interventi emergenziali e d’urgenza sull’assetto della Repubblica. Questo, com’è noto, richiederebbe un percorso organico di riforme condiviso e prudente.

 

 

[1] A. Algostino, In tema di riforme Costituzionali. Brevi note sulla proposta di riduzione del numero dei parlamentari, in riv. A.I.C., n. 2/2012.

[2] Per tutti si veda G. Piruzzella, La necessità del dialogo costituzionale, in La Carta di Tutti. Cattolicesimo italiano e riforme costituzionali (1948-2006), Ave, Roma, 2006, pag. 155.

[3] S. Pierrè-Caps, La Costituzione demotica, (trad. it. e cura di A. Denuzzo), Pensa, Lecce, 2007. Si sostiene, nell’ introduzione dell’opera citata, che il “diritto costituzionale demotico” è da intendersi come tentativo di orientare l’osservazione verso l’insieme delle disposizioni che riguardano la struttura della società in quanto espressione del fenomeno umano, di cui la realtà costituzionale e politica rappresentano la dimensione effettiva.

[4] Cfr. R. Bin - G. Pitruzzella, Diritto Costituzionale, Giappichelli, 2005, pag. 249.

[5] Sent. Corte Cost, n. 304/2002. <<Il riferimento all’ “armonia”, lungi dal depotenziarla, rinsalda l’esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poichè mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito.>>

[6] Sent. Corte Cost., n. 2/2004.

1. La sentenza n. 198 del 2012 della Corte Costituzionale.

Con la sentenza n. 198 del 2012 la Corte Costituzionale ha esaminato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 1 e 2, del Decreto Legge n. 138/2011 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo) convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 148 del 14 settembre 2011 e dall’ art. 30, comma 5, Legge n.183/2011 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato- Legge di stabilità 2012) riguardante il numero di consiglieri regionali e degli assessori, il trattamento economico e previdenziale degli stessi nonchè la previsione di istituire un collegio dei revisori di conti come controllo interno.

I giudizi di legittimità sono stati sollevati da ben dodici Regioni (Lazio, Valle d’Aosta, Basilicata, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Veneto, Umbria, Campania, Lombardia, Calabria, Sardegna) e da due Provincie autonome (Trento e Bolzano).

I giudizi di legittimità in parola, riuniti dalla Corte per oggettiva connessione e decisi con unica pronuncia, sono stati sollevati avendo come riferimento numerosi articoli della Costituzione (artt. 3, 70, 77, 97,100,103,114,116,117,119,1121,122 e 123), il principio di leale collaborazione e l’art. 10 della Legge Costituzionale n. 3 del 18.10.2001.

In apertura la Corte ha ritenuto di non dover ammettere l’eccezione sollevata dall’Avvocatura della Stato volta a paventare la carenza di interesse delle Regioni e Provincie ricorrenti in ragione di alcune modifiche intervenute a seguito della conversione in legge del decreto n. 138/2011.

La decisione ampia e complessa, in ragione di molte e diverse eccezioni sollevate dalle dodici Regioni ricorrenti più due Provincie autonome, può, sinteticamente, essere così suddivisa:

1)     per le Regioni a Statuto Speciale e Provincie Autonome.

Quest’ultime lamentavano la violazione delle disposizioni di legge poiché in contrasto con i rispettivi statuti; in particolar modo si dolevano di un intervento legislativo volto a modificare le relative forma di governo, la modalità di elezione dei consiglieri ed assessori regionali e provinciali, nonché il numero e l’indennità dei consiglieri.

La Corte ritenendo fondata la questione ha ribadito il concetto giuridico per il quale gli statuti di Regioni a statuto speciale e Provincie autonome sono <<adottai con legge costituzionale>> e che pertanto <<ne garantiscono le particolari condizioni di autonomia>>. Quindi, ribadito questo concetto giuridico d’ordine, la Corte si è espressa nel ritenere che al fine di adeguarsi ai parametri previsti dall’art. 14, comma 2, D.L. n. 138/2011 <<si richiede, quindi, la modifica di fonti di rango costituzionale. A tali fonti -hanno precisato i Giudici Costituzionali- una legge ordinaria non può imporre limiti e condizioni>>.

Per queste ragioni, una piuttosto palese ed evidente violazione della gerarchia delle fonti del diritto, la Corte Costituzionale ha concluso per dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, D.L. 138/2011 per la violazione dell’art 116 della Costituzione.

2)     per le Regioni a Statuto Ordinario.

Per il caso in esame, ben più complesso è stato il ragionamento seguito dai Giudici Costituzionali, i quali hanno articolato la decisione suddividendo le censure sollevate in tre gruppi:

1) Censure aventi ad oggetto l’intero art. 14, comma 1, D.L. n. 138/2011 sollevate con riferimento agli articoli della Cost. n. 117, co. 2 e 3 in quanto detterebbero una disciplina di dettaglio in una materia di competenza concorrente; il comma 4 dello stesso art. 117 per l’invasione dell’ambito riservato alla potestà legislativa regionale residuale; all’art. 119 in quanto stabilirebbe le modalità con cui le regioni devono raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica; 122 per l’attribuzione al legislatore statale di una competenza ulteriore rispetto alla determinazione della durata degli organi elettivi e dei principi fondamentali relativi al sistema di elezione;  ed infine per la violazione dell’art. 123 ovverosia lesione della potestà statutaria delle regioni.

Tutte queste censure sono state ritenute non fondate poiché secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 198/2012 <<si tratta di un limite complessivo, che lascia alle Regioni un autonomo margine di scelta>>.

Secondo il ragionamento seguito dalla Consulta, la disposizione in parola, oggetto di impugnazione, avrebbe a  riguardo <<la struttura organizzativa delle Regioni, regolata dagli art. 121 e 123>> sicchè in virtù della disciplina costituzionale prevista per il rapporto elettori-eletti per i consiglieri e le modalità di accesso ai pubblici uffici per gli assessori il rilievo è da farsi riscontrare nell’art. 48 Cost. che dispone che “il voto…è uguale” e l’art. 51 Cost. per il quale “tutti i cittadini…possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza ”. Pertanto per i Giudici Costituzionali la disposizione censurata in ragione di un più generale principio di eguaglianza espresso dagli articoli poc’anzi citati, <<mira a garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno diritto ad essere egualmente rappresentati>>.

In conclusione i Giudici Costituzionali hanno avuto modo di riaffermare, definitivamente, che la disposizione censurata <<non viola gli artt. 117,122 e 123 Cost. in quanto, nel quadro della finalità del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati>>.

2) Censure sollevate all’art. 14, lett. a) e b) con oggetto la riduzione consiglieri ed assessori regionali entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto e con efficacia dalla prima legislatura regionale successiva a quella della data di entrata in vigore del decreto stesso, riferite all’articolo 3 Cost..

Per le Regioni ricorrenti che hanno sollevato predetta censura (Emilia-Romagna e Umbria), l’iter di approvazione dello statuto era suscettibile di avere una durata del tutto maggiore rispetto ai sei mesi ciò a causa dell’eventuale referendum popolare e della questione di legittimità previsti dall’art. 123 Cost. Quindi -secondo le ricorrenti- le Regioni si sarebbero trovate ad essere ritenute responsabili per il rispetto di un termine -i sei mesi- fuori dalla loro reale disposizione e  ciò in palese violazione dell’art. 3 Cost.

In questo caso la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondate le censure sollevate chiarendo che le stesse <<richiedono “l’adozione” della riduzione del numero di consiglieri e degli assessori entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto e non che entro lo stesso termine e non che entro lo stesso termine si svolga il referendum popolare sullo statuto e venga sollevata l’eventuale questione di legittimità costituzionale>>.

3) Censure aventi ad oggetto l’istituzione del Collegio dei revisori dei conti con riferimento agli articoli della Costituzione n. 100, 103, 117 ( co. 3 e 6) e 121.   

Secondo la Corte delle Leggi, la disposizione dell’art. 14, comma 1, lett. e), D. L. n.138/2011, volta ad introdurre anche per le amministrazioni regionali un sistema di controllo analogo a quello delle amministrazioni locali, permetterebbe <<alla Corte dei Conti, organo dello Stato-ordinamento il controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (art. 120 Cost.) ed assicurare, da parte dell’amministrazione controllata, il “riesame” (sent. n. 179 del 2007) diretto a ripristinare la regolarità amministrativa e contabile>>.

Predetto controllo avverrebbe caratteristiche tali che -secondo il dictum dei Giudici Costituzionali- non lederebbe l’autonomia regionale in virtù della previsione <<che i componenti dell’organo di controllo interno debbano possedere speciali requisiti professionali ed essere nominati mediante sorteggio -al di fuori, quindi, dell’influenza politica-, e che tale organo sia collegato con la Corte dei Conti, istituto indipendente dal Governo (art. 100, terzo comma, Cost.)>>.

 

2.  Rerum spiritus Constitutionis? L’approccio costituzionale al tempo della crisi economica, politica e sociale.

 

Dopo il breve excursus con riguardo all’aspetto normativo-argomentativo contenuto nella sent. n. 138/2012 della Corte Cost., pare giusto rendere evidenti alcune criticità, non tanto dei passaggi contenuti nella sentenza, quanto piuttosto sul percorso, per molti aspetti controverso, di riforme, immaginato e, malamente, intrapreso dal susseguirsi dei Governi, di dubbia efficacia e comunque palesemente sbilanciato a favore delle pressanti contingenze economiche.

Nel 1891 Papa Leone XIII con la lettera enciclica Rerum Novarum dette una scossa non indifferente alla dottrina sociale della Chiesa la quale stanca ed immotivata non riusciva a trovare il modo adeguato per affrontare la piaga sociale che affliggeva la società del tempo.

Non per irriverenza e blasfemia si è inteso citar un testo pastorale del Capo della Chiesa Cattolica bensì, con il dovuto rispetto, si vuole annotare quello spirito di mediazione che riuscì ad unire diverse istanze ed estremi particolarismi. 

Anche la Costituzione quale “vangelo laico” ha nel suo animus non solo la forza di unire, ma anche le potenzialità per dettare linee guida. 

Il sospetto è che in tempi di crisi - come quello attuale - si mira a realizzare degli interventi che solo formalmente sembrano non incidere sulla Costituzione ma invece finiscono per far mutare, poco a poco, l’approccio costituzionalmente orientato dell’agire riformatore.

Certo occorre un attivismo pungente ed immediato per arginare spesa pubblica, costi e privilegi. Di contro però occorre operare oculatamente evitando di invertire l’annoso rapporto tra Costituzione ed economia; evitando il rischio di minare lo spirito e l’intendimento delle norme Costituzionali.

Si rende impellente una profonda riflessione sulla direzione in cui sta andando l’Italia; e soprattutto come sta andando. Tra molte incertezze deve rimarcarsi l’idea di un costituzionalismo come limitazione anche al potere economico[1].

Il paradosso che vede l’Italia costantemente ripiegata da decenni su crisi economiche, politiche e sociali comporta l’utilizzo spropositato di interventi emergenziali, i quali dovrebbero essere l’eccezione e non la regola.

Le menti più avvedute comprendono che seppur l’esigenza di riformare è oramai stringente, questo non pare essere il momento propizio per modificare i fondamenti del Paese. Il rischio  infatti è quello di intervenire con poca lucidità, azzardando soluzioni in grado di incidere (male) solo nel breve periodo; efficaci nel presente ma non nel futuro.

Certo il taglio al numero dei consiglieri regionali, la riduzione delle provincie e la razionalizzazione de enti a partecipazione pubblica facilita il compito di spiegare ai patners europei che l’Italia sta tentando di porre fine ad anni di sprechi e sperpero. Altrettanto semplice è in tale circostanze rispondere agli umori dell’antipolitica e al malumore contro la classe dirigente che serpeggia nel Paese.

Semplice e facile. Già, ma occorre in ogni circostanza ribadire che la Costituzione, il suo spirito, i suoi articoli, il suo modo di organizzare l’architettura istituzionale dell’Italia esprimono una sacralità tale da non poter essere profanata nemmeno da quella tanto acclamata importanza dei mercati.

Occorre evitare quello che parte della dottrina ha da tempo definito il processo di dissoluzione della stessa idea di Costituzione[2].    

A queste condizioni anche chi quotidianamente studia e si occupa di questioni costituzionali si imbatte nelle tumultuose acque che vedono la ridiscussione del diritto costituzionale classico al cospetto di un diritto costituzionale demotico[3].

Ciò che conta rimane, a sommesso parere di chi scrive, l’incontrovertibile intendimento che vede la Costituzione, pur con la sua veneranda età, precedere e non seguire le vicende economiche, politiche e sociali del Paese.  

 

3. Interventi ridondati all’ombra della Costituzione.

In realtà se un lieve appunto vuol trovarsi sulla vicenda che ha visto impegnata la Corte Costituzionale, allora non si può far a meno che richiamare, in conclusione, sinteticamente alcune vicende costituzionali.

Invero l’Italia, per ciò che attiene la disciplina delle Regioni e delle autonomie locali, aveva intrapreso, anni or sono, alcune innovazioni che oggi, alla luce dell’attuale emergenza economica, sembrano aver perso la originaria portata innovativa.

Nel lontano 1999 con la legge Costituzionale n. 1 si stabilì l’elezione diretta del Presidente della Giunta Regionale e la modifica degli artt. 121 e 126 della Costituzione, ciò al fine di garantire e rimarcare l’autonomia statutaria delle Regioni. Poi ancora nel 2001 il Parlamento approvò la legge Costituzionale di riforma organica del titolo V ( legge entrata in vigore a seguito dell’esito positivo del referendum costituzionale ex art. 138 Cost.).

Due riforme che seppur non immuni da limiti sia sotto l’aspetto procedurale quanto contenutistico, comportarono un nuovo approdo della Repubblica Italiana ormai articolata -secondo autorevoli costituzionalisti- su più livelli territoriali[4].

Tralasciando le varie ipotesi di federalismo più o meno muscolare proposte nelle ultime legislature, potrebbe dirsi che si era giunti a rendere più agevole il rapporto Stato - Regioni e di riflesso tra Legge Statale e Legge Regionale. Ciò in ragione di una previsione costituzionale, l’art. 123, per la quale <<ogni regione ha uno statuto che ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento>>.

Ma cosa cambia con la sent. 138/2012 della Corte Costituzionale? Quali sono, se ancora ci sono, effettivi spazi di autonomia degli Statuti Regionali? Ad esempio, imponendo un limite sul numero dei Consiglieri Regionali si è inteso riproporre nuovi limiti all’autonomia? Un ritorno al passato? Un atto dovuto per le contingenti questioni economiche?

A tali interrogativi risposte univoche e di pronta e facile soluzione non esistono.

Vale la pena rammentare che prima delle riforme sopra brevemente richiamate, per le Regioni a Statuto Ordinario era la Costituzione a disciplinare i tratti fondamentali della “forma di governo” lasciando così allo Statuto una spazio ridotto e del tutto residuale.

Pertanto è proprio in virtù delle riforme succedutesi negli anni che via via si è andato ampliandosi lo spazio di scelta lasciato alle Regioni con l’unico limite derivante dal <<puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione[5]>> e dal <<suo spirito[6]>>.

La questione cruciale è che l’Italia oggi si trova innanzi la pressante questione che investe l’economia e di riflesso il vivere degli italiani.  

Molti e diversi aspetti appaiono problematici e meritano tutti di essere studiati ed approfonditi; tuttavia, osservando dal punto di vista privilegiato della costituzione, deve denunciarsi un evidente problema di metodo. 

Diffusi e frequenti sono gli improvvisati interventi su norme che invece richiederebbero approfondite e complessive azioni  e che, come tali, non possono essere effettuate col solo obiettivo di tagliare gli sprechi.

Occorrerebbe procedere al riordino dell’organizzazione delle istituzioni, in modo da ben bilanciare tanto la agognata razionalizzazzione dei costi quanto il rispetto del tessuto normativo magari mediante una revisione graduale -meglio se costituzionale- dell’intero ordinamento.

E’ necessario scegliere, e farlo una volta per tutte. Scegliere  se ripartire dalla Regioni e dalla tutela delle autonomie locali o se rispolverare il mito della centralità Statale.

Dietro tale scelta in realtà si cela un ulteriore aspetto. Ossia mettere a disposizione delle istituzioni vicine ai bisogni reali ed immediati del cittadino, o se, al contrario, ammettere che l’incapacità di alcuni amministratori rende oggi irrinunciabile un taglio alla stessa democrazia.

Una scelta ridondante, dunque, che attira a se altre e difficili scelte. Tagliare il numero dei consiglieri regionali, le rappresentanze politiche locali e gli enti può servire a garantire bilanci attivi e amministrazioni efficienti? E’ questa una soluzione adatta? Le risposte evidentemente attengono tutte alla sfera politica. Tuttavia se di limiti vuol parlarsi, allora è bene ribadire che l’ordinamento costituzionale non tollera interventi emergenziali e d’urgenza sull’assetto della Repubblica. Questo, com’è noto, richiederebbe un percorso organico di riforme condiviso e prudente.

 

 

[1] A. Algostino, In tema di riforme Costituzionali. Brevi note sulla proposta di riduzione del numero dei parlamentari, in riv. A.I.C., n. 2/2012.

[2] Per tutti si veda G. Piruzzella, La necessità del dialogo costituzionale, in La Carta di Tutti. Cattolicesimo italiano e riforme costituzionali (1948-2006), Ave, Roma, 2006, pag. 155.

[3] S. Pierrè-Caps, La Costituzione demotica, (trad. it. e cura di A. Denuzzo), Pensa, Lecce, 2007. Si sostiene, nell’ introduzione dell’opera citata, che il “diritto costituzionale demotico” è da intendersi come tentativo di orientare l’osservazione verso l’insieme delle disposizioni che riguardano la struttura della società in quanto espressione del fenomeno umano, di cui la realtà costituzionale e politica rappresentano la dimensione effettiva.

[4] Cfr. R. Bin - G. Pitruzzella, Diritto Costituzionale, Giappichelli, 2005, pag. 249.

[5] Sent. Corte Cost, n. 304/2002. <<Il riferimento all’ “armonia”, lungi dal depotenziarla, rinsalda l’esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poichè mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito.>>

[6] Sent. Corte Cost., n. 2/2004.