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L’evoluzione della disciplina dei rapporti tra banca e cliente: la tutela del contraente “debole”

L’evoluzione della disciplina dei rapporti tra banca e cliente: la tutela del contraente “debole”
L’evoluzione della disciplina dei rapporti tra banca e cliente: la tutela del contraente “debole”

Indice

1. La situazione prima del codice del 1942

2. Il timido cambiamento di prospettiva operato dai codificatori del ’42 e le perplessità della dottrina

3. La “fuga dal codice”

4. Dalla legge del ’92 al testo unico bancario

5. La trasparenza bancaria a tutela dell’equilibrio banca - cliente

6. I rimedi sul piano negoziale

7. I poteri unilaterali di modifica del contratto e i limiti ai diritti potestativi della banca

8. Un dialogo continuo tra banca e cliente: la buona fede contrattuale nel corso del rapporto

 

Abstract

La trasparenza bancaria, per tale intendendosi intende l’insieme delle disposizioni, di origine legislativa e regolamentare, volte ad assicurare al cliente un’informazione chiara ed esauriente sulle condizioni e sulle caratteristiche delle operazioni di servizi offerti dalla banca, è una conquista relativamente recente sul piano dell’effettività di tutela del consumatore. Scopo di questo contributo è indagare, attraverso un excursus storico, l’evoluzione che il legislatore ha fatto nell’ottica di riequilibrare e sempre più colmare l’asimmetria informativa in cui viene a trovarsi il cliente, finanche incidendo “ex imperio” sul regolamento negoziale.

 

1. La situazione prima del codice del 1942

La storia della disciplina dei rapporti tra banca e cliente ha seguito un lungo e travagliato percorso.

Sia il codice di commercio del 1882 che il c.c. del 1865 non menzionavano in alcun modo la disciplina dei contratti bancari.

 Non vi era, infatti, una definizione della categoria delle operazioni di banca né tantomeno veniva dettata una specifica disciplina ad esse applicabili. La concreta regolamentazione era quindi rimessa all’applicazione delle norme generali sui contratti e sulle obbligazioni ed alla prassi bancaria.

Il codice del commercio del 1882 si limitava ad affermare che colui il quale poneva in essere operazioni di banca era un commerciante, senza dunque differenziare in alcun modo l’attività bancaria dalle altre attività commerciali, il cui esercizio era lasciato alla libera iniziativa di privati senza che vi fosse una regolamentazione di tipo pubblico-amministrativo che provenisse dallo Stato.

Alcuni autori ritenevano che per qualificare un’operazione alla stregua di una operazione di banca fosse sufficiente che almeno uno dei contraenti fosse una impresa bancaria.

Altri ritenevano invece che potessero qualificarsi operazioni bancarie quelle che venivano compiute con modalità sistematica e che erano frutto di un esercizio in forma di impresa tale per cui il soggetto che le poneva in essere era considerato una banca.

Il processo di concentrazione delle aziende di credito che si verificò in Italia tra il 1926 il 1935 come riflesso dell’evoluzione in quel momento in corso che costrinse l’impresa bancaria ad adeguarsi per far fronte alla sempre più esigenza richiesta di finanziamenti da parte delle industrie, sollecito l’intervento pubblico nell’ambito dell’attività bancaria.

Ed invero, già con il provvedimento del 1926 intitolato alla” tutela del risparmio”, lo Stato diede inizio al procedimento per assumere sotto il proprio controllo tutte le attività della banca la quale, quindi, perse i caratteri dell’impresa privata per assumere quelli dell’impresa pubblica.

L’attività bancaria divenne attività riservata soggetta ad autorizzazione, la Banca d’Italia divenne banca centrale e quindi l’istituto unico di immissione di denaro e fu posta al vertice del sistema creditizio con funzioni di regolamentazione accentrata del mercato e di controllo su tutte le altre banche.

La legge bancaria del 1936, successivamente, sottopose definitivamente l’attività creditizia al controllo pubblico definendo espressamente l’attività di “raccolta del risparmio” e quella di “erogazione del credito” funzioni di interesse pubblico.

Sotto il versante della tutela del cliente, la legge bancaria del 1936 che introdusse una struttura del mercato bancario oligopolista e non concorrenziale imponendo l’autorizzazione sia per l’inizio dell’effettuazione delle operazioni che per il momento costitutivo dell’azienda di credito rappresentò, insieme alla legge del 1926, un provvedimento che non si preoccupava affatto di tutelare il cliente quanto piuttosto il “sistema banche”.

Infatti, gli obblighi di comportamento, da questi provvedimenti legislativi imposti, erano diretti a garantire, in coerenza al contesto politico dirigistico ed illiberale, l’integrità e la solidità del patrimonio delle banche piuttosto che gli interessi di singoli risparmiatori.

Prevaleva dunque la considerazione, secondo cui per il cliente fosse più opportuna una tutela di tipo preventivo che poteva venire accordata mediante una disciplina di tipo pubblicistico dell’istituti bancari.

Gran parte della materia contrattuale bancaria non era disciplinata dalla legge ma dalla prassi, prassi che nei fatti coincideva con le regole contrattuali poste dal contraente forte, la banca, al contraente debole, ossia il cliente, mediante predisposizione di condizioni generali di contratto che il cliente poteva esclusivamente accettare o rifiutare, non discutere.

2. Il timido cambiamento di prospettiva operato dai codificatori del ’42 e le perplessità della dottrina

Mosso dalla necessità di evitare che la disciplina di rapporti privatistici tra banca e cliente fosse lasciata al dominio degli usi e delle condizioni predisposte dalle stesse banche, il legislatore del c.c. del 1942 con una scelta innovativa rispetto al codice di commercio del 1882, riserva ai contratti bancari (al capo 17º del libro quarto, articoli 1834-1860) una specifica disciplina connotata dalla tipizzazione dei modelli negoziali maggiormente diffusi nella prassi commerciale dell’epoca; modelli innanzitutto costituiti dalle operazioni cosiddette “passive” ossia di raccolta del risparmio (deposito), altresì da quelle cosiddette “attive”, ossia di impiego dello stesso e, quindi, di esercizio del credito (apertura di credito, anticipazione bancaria, sconto) ed, infine, da quelle cosiddette “accessorie”, in quanto concernenti la prestazione di taluni particolari servizi ulteriori (operazioni in conto corrente, cassette di sicurezza e deposito di titoli in custodia ed amministrazione).

Anche la normativa codicistica ha tuttavia prestato il fianco a vari profili di criticità.

Ci si è interrogati, infatti, innanzitutto sull’effettivo ambito di applicazione della disciplinare qua, disputando se la stessa presupponga o no, quale elemento costitutivo della fattispecie, la necessità che una delle parti del contratto sia una banca, cioè un soggetto eserciti professionalmente l’attività bancaria intesa, secondo la previsione di cui all’articolo 2195 comma 1 e 4 c.c., quali attività imprenditoriale volta alla raccolta del risparmio e all’esercizio del credito.

Per i fautori della teoria oggettiva i contratti tipici bancari previsti dal codice sarebbero assoggettati alla disciplina peculiare di ciascuno di essi a prescindere dalla circostanza che una delle parti sia una banca;

Di contro, secondo l’opposta teoria soggettiva, essendo la presenza della banca a qualificare il contratto come bancario, in difetto di tale presupposto la normativa di quegli articoli 1834 e seguenti del c.c. sarebbe applicabile solo in via analogica, con esclusione di quelle norme che integrano una deroga ai principi generali.

Sennonché la querelle appare frutto di una lettura meramente dogmatica del fenomeno. In una diversa prospettiva di indagine è stata prospettata una differente soluzione del problema, probabilmente più rispettosa della volontà legislativa. Se, dopo aver regolato il mutuo, il deposito, locazione e il mandato, il legislatore del 1942 ha avvertito l’esigenza di prevedere come categoria autonoma quella di contratti bancari, benché dei primi questi ultimi riproducono sostanzialmente gli stessi schemi causali, ciò lo ha fatto soltanto perché rispetto a tali fattispecie era statisticamente prevalente la presenza, tra le parti, di una banca, il che giustificava l’opportunità di apportare delle variazioni rispetto alla disciplina di diritto comune, per dar vita ad un diritto speciale connotato dalla particolare figura di imprenditore che assume la veste di contraente.

Si è fatto notare, altresì, che la pur importante e positiva opera di tipizzazione delle più frequenti operazioni bancarie non ha tuttavia alterato il meccanismo di formazione del contratto che è rimasto tutt’oggi quello praticato dalle banche, mediante l’utilizzazione delle condizioni generali di contratto.

L’obiettivo infatti perseguito dal legislatore del 1942 era infatti quello di tutelare il mercato e l’impresa bancaria e non quello della trasparenza bancaria.

Mancano infatti del tutto le norme che si occupano degli aspetti più importante per la clientela ed in particolare quelli relativi alle modalità della determinazione delle condizioni economiche.

La disciplina del c.c. lascia vasto spazio agli usi bancari ed all’autonomia negoziale delle parti la quale si traduce per la forza contrattuale delle banche, nella possibilità di adottare il regolamento negoziale in conformità ai loro interessi imponendo le norme previste nei loro statuti oppure quelle convenute dalle stesse banche attraverso la stipulazione degli accordi interbancari.

Acuta si palesa l’osservazione (Fauceglia) secondo cui “il vero tratto comune di tutte le disposizioni contenute nel c.c. che si occupano di contratti bancari è da individuarsi nella tutela della prontezza e sicurezza del rimborso delle somme concesse a prestito”.

 

3. La “fuga dal codice”

La lacunosità della disciplina positiva, da un lato, e l’esigenza di standardizzazione connaturata al carattere di massa delle operazioni bancarie, dall’altro, hanno così determinato una progressiva ma inesorabile perdita di centralità del c.c. in favore dell’indiscriminato utilizzo nella prassi negoziale di condizioni generali di contratto, unilateralmente predisposte dall’Associazione Bancaria Italiana (ABI) e trasfuse nelle cosiddette “Norme Bancarie Uniformi” (nbu) al precipuo fine di autoregolare la concorrenza attraverso l’omogeneizzazione della regolamentazione dei rapporti con la clientela.

A partite dagli anni 50’ siano alla seconda metà degli anni 90’ del secolo scorso, questa minuziosa e dettagliata disciplina soltanto formalmente pattizia, costantemente rielaborata – sia dall’associazione di categoria che dalle singole imprese onde garantirne un continuo adeguamento, soprattutto al fine di rispondere all’esigenza degli istituti di credito di minimizzare il rischio di impresa – essendo pedissequamente riprodotta nella modulistica pressoché di tutte le banche, ha finito col sostituire integralmente il regolamento codicistico delle singole fattispecie contrattuali ( peraltro già squilibrato a vantaggio delle imprese creditizie) a tutto pregiudizio degli utenti del mercato bancario.

Peraltro se da un lato deve fermamente negarsi la valenza normativa delle N.B.U. ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 8 Disposizioni Preliminari al c.c. e 1374 stante l’indubbia natura negoziale delle stesse; dall’altro, data la loro generalizzata osservanza, si è sostenuta la loro configurabilità quali usi negoziali, ossia clausole d’uso ex articolo 1340 c.c. che, salvo prova contraria, devono presumersi conosciute dalle parti, anche se non espressamente incluse nel regolamento contrattuale, ma comunque soggette, qualora integranti clausole vessatorie, al disposto di cui all’articolo 1341 comma 2 c.c.

Considerata, però, la loro fonte unilaterale ed autoritativa e la labilità che le connota, nonché la frequenza dei cambiamenti cui sono sempre state soggette, deve condividersi l’opinione prevalente secondo cui si tratterebbe di mere condizioni generali di contratto, con conseguente applicabilità alle stesse innanzitutto delle norme di cui agli artt. 1341, 1342, e 1370 c.c.

Il che significa che le clausole in questione sono efficaci solo se conosciute o conoscibili; se vessatorie, sono applicabili soltanto se specificatamente approvate per iscritto dal cliente; ed altresì che eventuali clausole aggiunte dalle parti al momento della conclusione debbono ritenersi prevalenti su quelle del modulo.

Infine in sede ermeneutica trova applicazione il principio che, nel dubbio, la clausola deve interpretarsi in senso sfavorevole al predisponente.

Sennonché nell’esercizio dei poteri attribuitole dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287, la Banca D’Italia, con provvedimento 3 dicembre 1994, n. 12 riconoscendo che le n.b.u, in quanto riferibili ad un’associazione di imprese, dovevano ritenersi intese soggette alla vigente legislazione antitrust, ha imposto l’eliminazione di quelle integranti una eliminazione della concorrenza.

In particolare, l’organo di vigilanza ha ritenuto integrasse violazione dell’articolo 2 della richiamata legge n. 287/1990 la prassi di fissar negli schemi contrattuali standardizzati condizioni economiche, sia in termini di prezzo (tassi, commissioni, canini, valute), sia i termini di oneri a carico delle parti, tali da limitare la possibilità per le banche la possibilità di differenziare il contenuto negoziale dei contratti, a pregiudizio della libera concorrenza sulla qualità dei prodotti offerti alla clientela ( il che è quanto avveniva attraverso il c.d. “cartello bancario”, mediante il quale le banche concordavano tra loro uniformi tassi attivi e passivi da praticare ai clienti).

Uniformandosi a tali prescrizioni, l’ABI ha, quindi, innanzitutto espressamente riconosciuto che le n.b.u. rappresentano “una mera traccia, priva di ogni valore vincolante o di raccomandazione” per gli associati che restano, pertanto, liberi sia di adottarle che di modificarle, ed altresì, ha specificatamente indicato le condizioni contrattuali lesive della concorrenza suggerendone i relativi correttivi.

In particolare:

  • Quelle che riservano alla banca la facoltà meramente potestativa di modificare le norme che disciplinano il rapporto;
  • Quelle che disponevano che le risultanze dei libri o delle altre scritture contabili in possesso della banca fanno prova piena contro i clienti;
  • Quelle che escludevamo l’obbligo della banca di dare al terzo garante comunicazioni in ordine alla situazione dei conti ed in genere ai suoi rapporti con il beneficiario del credito garantito.

 

4. Dalla legge del ’92 al testo unico bancario

Il cambiamento di prospettiva nell’ottica del perseguimento di giustizia ed equità nel rapporto banca-cliente si ebbe agli inizi degli anni Novanta con l’emanazione della legge Amato Legge delega n.218 del 1990 seguito dal Decreto Legislativo di attuazione n.356 del 1990 che muta la struttura del nostro ordinamento creditizio, eliminando dal panorama bancario tutte le banche pubbliche. Lo Stato dismette, quindi, le sue partecipazioni nelle banche, anche se molte di queste rimangono controllate. Con la scomparsa della banca pubblica e la definitiva consacrazione dell’attività creditizia quale attività di impresa privata emerge la necessità di disciplinare i rapporti tra i due soggetti privati ora protagonisti delle relazioni contrattuali bancarie: l’impresa - banca ed il cliente.

La prima legge che interviene come risposta alle istanze provenienti dei diversi formanti del diritto di perseguire obiettivi di trasparenza nei rapporti contrattuali e di equilibrio tra le posizioni delle due parti contraenti la legge 17 febbraio 1992 n.154 recante: “norme sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari” con l’obiettivo dichiarato di garantire ai fruitori di servizi bancari una informazione corretta e completa degli elementi essenziali del rapporto contrattuale che instaurano con le banche e ciò al fine di offrire tutela al cliente e di stimolare la concorrenza tra le diverse imprese bancarie.

La dottrina salutò con favore la novella legislativa.

Questa legge, infatti, ha introdotto norme derogabili solo in senso più favorevole al cliente, e in particolare l’obbligo della forma scritta per i contratti bancari, di aver previsto la nullità delle clausole contrattuali che prevedono il rinvio agli usi, ponendo così fine alla discussione in tema di validità delle clausole di rinvio agli “usi sulla piazza”, per la determinazione del tasso di interessi in misura superiore al tasso legale, di avere positivamente disciplinato il potere di ius variandi riconoscendo il diritto di recesso in capo al cliente e di essere intervenuta su un tema complesso come quello della valuta. Essa inoltre attribuisce all’autorità amministrativa ampi poteri regolamentari, in particolare consentendo alla Banca d’Italia di vigilare sul rispetto dell’intera normativa.

La legge 154 del 92’ venne abrogata ad eccezione dell’articolo 10 solo un anno più tardi dal Decreto Legislativo n.385 del 1° settembre 1993: il Testo Unico Delle Leggi In Materia Bancaria E Creditizia (T.U.B.).

In particolare, il titolo sesto si occupa della trasparenza delle condizioni contrattuali.

Il testo unico bancario modifica, inoltre, il quadro di riferimento dell’attività contrattuale delle banche. Mentre la legge bancaria si presentava neutrale nei confronti di contratti bancari, nel testo unico bancario la contrattazione bancaria riceve una disciplina generale che, a differenza di quanto previsto nel c.c., dà rilievo agli interessi dei singoli clienti e considera la trasparenza bancaria un elemento governante l’intero sistema.

Il T.U.B. introduce per la prima volta nel nostro ordinamento principi generali applicabili a tutti i contratti bancari finanziari e dunque sia alle banche che gli intermediari finanziari, senza però considerare in alcuna disposizione singole operazioni bancarie la cui disciplina è tuttora, quindi, quella contenuta nelle norme del c.c.. Si assiste, a dir del vero, ad un mutamento di prospettiva in quanto viene finalmente dato particolare rilievo all’interesse della clientela bancaria, categoria completamente estranea alla legislazione sino a quel momento in vigore.

5. La trasparenza bancaria a tutela dell’equilibrio banca - cliente

Con la locuzione trasparenza bancaria si intende l’insieme delle disposizioni, di origine legislativa e regolamentare, volte ad assicurare al cliente un’informazione chiara ed esauriente sulle condizioni e sulle caratteristiche delle operazioni di servizi offerti dalla banca, al fine di garantire una sua piena consapevolezza nel momento di formazione della volontà negoziale.

Come è stato efficacemente riassunto in dottrina (Alpa) “nel Testo Unico bancario la trasparenza contrattuale è posta in grande rilievo: conferisce addirittura denominazione ad un titolo (il sesto) del corpo normativo. Essa è intesa in senso di comunicazione “al pubblico” di informazioni riguardanti i tassi di interesse, i prezzi, le spese per le comunicazioni alla clientela e ogni altra condizione economica relativa alle operazioni e ai servizi offerti (articolo 116), ed è quindi sinonimo di pubblicità, relativa a specifici contenuti dei rapporti istituendi o già istituiti; ma include anche l’obbligo di forma (scritta) dei contratti, e quindi allude agli effetti della conclusione mediante documento piuttosto che con accordo verbale; ed include anche un contenuto contrattuale obbligatorio (articolo 117) circa il tasso di interesse, e ogni altro prezzo o onere; sicché trasparenza qui significa chiarezza del rapporto ottenuta mediante i complesso di informazioni offerte al contraente perché possa conoscere e valutare l’operazione economica al momento della conclusione, e, una volta concluso il contratto, posso controllare il comportamento della controparte; in più trasparenza significa conformità del contratto al contenuto tipico determinato in base alla denominazione e ai criteri specifici qualificativi dettati dalla Banca d’Italia; inoltre implica limitazioni alla modificazione unilaterale delle condizioni contrattuali ove non siano comunicate ai clienti (articolo 118), ed infine implica l’obbligo di comunicazioni periodiche alla clientela”.

Il testo unico bancario dedica al tema della trasparenza nei rapporti banca cliente l’intero titolo sesto, recentemente sostituito dal decreto legislativo 13 agosto 2010, numero 141 (recante attuazione della direttiva 2008/48/CE, relativa ai contratti di credito ai consumatori), come successivamente modificato dal decreto legislativo 18 dicembre 2010 numero 218. La normativa di fonte primaria è stata poi integrata dalle disposizioni attuative contenute nella delibera del comitato interministeriale per il credito e il risparmio del 4 marzo 2003 (di recente modificata con il decreto ministeriale 3 febbraio 2011, numero 117), qui ha fatto seguito il provvedimento della Banca d’Italia del 25 luglio del medesimo anno, recante le istruzioni di vigilanza attuative della suddetta deliberazione.

La disciplina secondaria introdotta nel 2003, se ha indubbiamente contribuito a innalzare gli standard di trasparenza nelle relazioni tra intermediari e clientela, ha anche evidenziato alcuni limiti (quali eccesso di informazioni fornite alla clientela, numero elevato di documenti cartacei, analiticità di alcune prescrizioni) che hanno reso necessario una sua revisione.

Così, con provvedimento del 29 luglio 2009, la Banca d’Italia ha emanato nuove disposizioni in materia di trasparenza, che hanno sostituito le precedenti disposizioni del luglio 2003. Da ultimo, le istruzioni di vigilanza sono state nuovamente sostituite ed integrate con la disciplina di attuazione del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n.11, con cui è stata recepita nel nostro ordinamento la direttiva 2007/64/CE sui servizi di pagamento nel mercato interno. Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad emanare una disciplina sulla trasparenza bancaria sono, innanzitutto, da ricercare nell’esigenza di tutelare il cliente, notoriamente parte debole del rapporto con la banca.

L’obiettivo primario che tale normativa persegue è quello di rimuovere o comunque attenuare le situazioni di asimmetria informativa che normalmente caratterizza i rapporti tra banche cliente.

Ma oltre alla tutela della clientela, la disciplina sulla trasparenza bancaria persegue anche l’interesse generale anche l’attività bancaria venga esercitata in modo più efficiente possibile.

In altri termini, la trasparenza delle condizioni contrattuali è uno strumento per assicurare concorrenzialità al mercato e quindi efficienza all’attività bancaria. Efficienza a sua volta indispensabile per garantire un finanziamento dell’economia e un sistema di pagamenti meno oneroso per la collettività.

Infatti un’adeguata pubblicità delle condizioni contrattuali, facilitando la possibilità di un di raffronto tra i prezzi e le condizioni praticate dei diversi operatori, favorisce la mobilità della clientela di un operatore all’altro, rafforzando in tal modo, la concorrenza sul mercato.

In generale una maggiore trasparenza cresce il grado di fiducia dei consumatori ripongono nel settore, rendendo più probabile che nuovi soggetti diventino utilizzatori di prodotti finanziari. Il che si traduce in un maggior sviluppo di mercati finanziari e in definitiva in un beneficio per l’intero sistema economico.

Le disposizioni in materia di trasparenza contenute nel t.u.b. si applicano ad ogni fase del rapporto tra intermediario e cliente: alla fase precontrattuale, quella cioè che precede la sottoscrizione del contratto, alla fase di stipula del contratto e a quella di svolgimento del rapporto contrattuale. In particolare, per quanto concerne l’informativa precontrattuale, l’articolo 116 t.u.b. impone alle banche e agli intermediari finanziari di rendere preventivamente noti ai clienti i termini economici delle operazioni e dei servizi offerti, quali tassi di interesse, prezzi, interessi di mora e valute applicate per l’imputazione degli interessi. Peraltro, l’elencazione normativa degli elementi contrattuali da pubblicizzare non è esaustiva, come si desume dal riferimento finale alle “altre condizioni economiche”; espressione, questa, che viene interpretata restrittivamente, nel senso, cioè, di delimitare la portata dell’obbligo di pubblicità ai soli “costi diretti”.

L’obiettivo che si persegue, attraverso l’obbligo di informazione precontrattuale, è quello di rendere conoscibili al cliente, prima che divengano vincolanti, le clausole fondamentali del contratto, unilateralmente predisposte dalla banca, in modo da consentire allo stesso di sondare il mercato e, quindi, di poter fare le proprie scelte con cognizione di causa. L’esigenza di preventiva conoscibilità delle condizioni economiche giustifica, tra l’altro, la preclusione del rinvio agli usi, costituendo quest’ultimi fonti normative non facilmente conoscibili. L’articolo 116 prescrive che gli elementi economici dell’operazione debbano essere resi conoscibili ai clienti “in modo chiaro”.

Non è sufficiente, infatti, garantire l’informazione della clientela attraverso la pubblicità delle condizioni offerte, bensì, per assicurare una tutela reale dei consumatori, è necessario preoccuparsi anche della “comprensibilità” dell’informazione.

E quella resa da parte di banche e intermediari (anche per gli inevitabili tecnicismi propri dei prodotti e dei servizi bancari e finanziari) risulta spesso non chiara e poco comprensibile per l’uomo medio.

In relazione a tale profilo, le Istruzione della Banca d’Italia precisano che i documenti informativi devono essere “redatti secondo criteri e presentati con modalità che garantiscano la correttezza, la completezza e la comprensibilità delle informazioni, così da consentire al cliente di capire le caratteristiche e i costi del servizio, confrontare con facilità i prodotti, adottare decisioni ponderate e consapevoli”.

Tuttavia, per non scoraggiare l’elaborazione di forme di comunicazione innovative ed efficaci, la Banca d’Italia si è astenuta dal fornire criteri rigidi di redazione dei documenti, limitandosi a prevedere standard minimi e generali di redazione concernenti l’impaginazione, la struttura dei documenti e le scelte sintattiche e lessicali (utilizzo di frasi semplici e brevi, preferenza per le forme attive rispetto a quelle passive, espressione del soggetto, ricorso al modo indicativo invece che al congiuntivo, indicazione dei riferimenti normativi a fine frase e tra parentesi, ricorso a parole di uso comune, ecc.), ammonendo, peraltro, che il rispetto di tali criteri minimi costituirà oggetto di particolare attenzione nell’ambito dei controlli.

Un ulteriore strumento di trasparenza è costituito dalla consegna al cliente, prima della conclusione del contratto, di una copia completa (cioè compilata in tutti i suoi elementi e, quindi, idonea per la stipula) del testo contrattuale. Quest’ultimo adempimento non è previsto come obbligatorio, ma è rimesso all’iniziativa del cliente, il quale può scegliere di ottenere il solo documento di sintesi.

Si precisa che la consegna della copia del testo contrattuale da parte della banca non costituisce proposta unilaterale irrevocabile ex articolo 1329 c.c., né tanto meno impegna le parti alla stipula del contratto. La consegna della copia del contratto è in genere gratuita. Ma, nel caso di finanziamenti preceduti da una istruttoria per l’esatta determinazione delle condizioni economiche del contratto, il cliente, che scelga di ottenere la consegna di una copia “completa” del contratto, può essere tenuto al pagamento di una somma non eccedente le spese di istruttoria (il cui ammontare è pubblicizzato nel foglio informativo); in alternativa, il cliente può ottenere la consegna gratuita dello “schema di contratto”, privo delle condizioni economiche, unitamente a un preventivo contenente le condizioni economiche basate sulle informazioni fornite dal cliente. È, inoltre, stabilito che per i contratti di mutuo ipotecario offerti ai clienti al dettaglio la consegna della copia del contratto è gratuita a partire dal momento in cui viene concordata la data per la stipula presso il notaio.

In caso di modifica delle condizioni contrattuali indicate nella copia consegnata al cliente, l’intermediario, prima della conclusione del contratto, ne informa il cliente stesso e, su richiesta di quest’ultimo, gli consegna una copia completa del nuovo testo contrattuale idonea per la stipula ovvero una nuova copia del documento di sintesi. Rispetto alla previgente disciplina, invece, non è stata ripetuta la previsione dell’attestazione con la quale il cliente dichiara, in calce al contratto, se intenda avvalersi o meno di questo diritto.

L’articolo 117 t.u.b. impone la forma scritta (ad substantiam) per i contratti bancari, sanzionando con la nullità l’inosservanza del prescritto requisito formale. L’introduzione, nell’ambito della contrattazione banca-cliente, di una previsione impositiva di un requisito di forma vincolata costituisce indubbiamente un vulnus al principio generale della libertà di forma, che si vorrebbe vigente nel nostro ordinamento.

A ben vedere, la legislazione sulla trasparenza bancaria si inserisce in quel trend legislativo che fa largamente ricorso al formalismo, allo scopo di tutelare la parte “debole” del rapporto. Si è parlato, al riguardo, di neo-formalismo negoziale, volendosi con tale espressione significare un ritorno al formalismo con funzione generalmente protettiva e specificamente informativa in settori fondamentali come quello dei servizi bancari e finanziari. Si stabilisce un vero e proprio obbligo giuridico di informare (cui corrisponde il diritto ad essere informati) sulla natura del contratto e su tutte le clausole in esso contenute, al fine di poter meglio esplicare il diritto di autodeterminazione del singolo nell’ambito delle relazioni negoziali, in applicazione degli artt. 2 e 41 della Costituzione.

Nella specie, si è fatto rilevare che la “prescrizione formale risponde non soltanto all’esigenza di richiamare l’attenzione del cliente sull’importanza giuridica e sulle conseguenze economiche dell’atto che si intende concludere (efficacemente si parla di funzione di “responsabilizzazione del consenso”), ma anche a quella di certezza dell’atto che si compie. Infatti, la redazione per iscritto conferisce alla dichiarazione negoziale la certezza del suo contenuto nel tempo e nei confronti di chiunque” (Giorgianni-Tardivo).

Parte della dottrina ritiene, tuttavia, che l’obbligo della forma scritta esplichi la sua funzione, soprattutto, in un momento successivo alla conclusione del contratto, consentendo al cliente di confrontare le condizioni a lui praticate con quelle pubblicizzate.

6. I rimedi sul piano negoziale

L’articolo 117, comma 3, t.u.b. prevede la nullità per l’inosservanza della forma prescritta. Si tratta chiaramente di un’ipotesi di nullità di “protezione”, in quanto posta dall’ordinamento giuridico a tutela del cliente della banca (articolo 127, comma 2, t.u.b.). Pertanto, tale nullità può essere fatta valere solo dallo stesso cliente (c.d. legittimazione relativa). Il giudice, tuttavia, può rilevarla ex officio. È, peraltro, evidente che la rilevabilità d’ufficio non possa essere incondizionata: sarebbe, infatti, contraddittorio precludere alla banca la possibilità di far valere la nullità e, al tempo stesso, ammettere che il giudice possa rilevare d’ufficio la nullità anche nell’interesse di questo. Ne consegue, per coerenza sistematica, che il giudice possa procedere al rilievo d’ufficio della nullità solo quando si traduca in un vantaggio per il cliente. In altri termini, il giudice deve valutare, alla luce della domanda e delle eccezioni del cliente, l’effettiva utilità che ad esso deriverebbe dalla rilevabilità d’ufficio della nullità.

“Le nullità previste dal titolo VI, capo III, del t.u. in materia bancaria (Decreto Legislativo settembre 1993 n. 385) possono essere fatte valere solo dal contraente; tuttavia, debbono essere rilevate dal giudice quando siano protettive, cioè, si traducano in un vantaggio per il cliente-consumatore.

In giurisprudenza è stato chiarito che “la valutazione dell’interesse va effettuata in riferimento alla situazione concreta derivante dall’esame delle domande ed eccezioni fatte valere in giudizio”. (Trib. Bologna, 4.1.1999, DF, 872).

Non v’è chi non vede in tali disposizioni una sorta di “derogabilità alle disposizioni legali in tema di nullità negoziali” - sub specie di sanatoria di negozio nullo - o - di “ricuperabilità del contratto nullo”.

 

7. I poteri unilaterali di modifica del contratto e i limiti ai diritti potestativi della banca

Le condizioni previste al momento della conclusione del contratto non debbono rimanere necessariamente immutate nel tempo.

Alla banca è riconosciuta, infatti, la facoltà di modificare unilateralmente, anche in peius per il cliente, le condizioni inizialmente previste (c.d. ius variandi). Tale facoltà, pur non essendo una prerogativa esclusiva del ceto bancario, riveste carattere fisiologico nei rapporti bancari, tendenzialmente destinati a protrarsi nel tempo e, quindi, soggetti a evoluzioni e sopravvenienze che possono richiedere aggiustamenti successivi, nell’interesse non solo dei singoli contraenti, ma anche dell’economia generale.

Si è sottolineato come “affinché lo sviluppo di quest’ultima non vada sacrificato per costi di finanziamento troppo elevati, si rende necessario che i rischi per l’eccessiva onerosità sopravvenuta non ricadano sugli operatori finanziari, i quali diversamente, per la copertura di tali rischi, dovrebbero praticare prezzi e tassi d’interesse eccessivamente elevati ai nuovi clienti, tali da poter frenare o addirittura far regredire lo sviluppo economico. La facoltà di modificare le condizioni contrattuali, purché esercitata uniformemente nei confronti di tutti i clienti, consente di distribuire in maniera accettabile sulla clientela già acquisita i rischi dell’eccessiva onerosità sopravvenuta; rischi che diversamente si potrebbero coprire praticando prezzi e tassi proibitivi alla nuova potenziale clientela imprenditoriale, la cui capacità concorrenziale sarebbe handicappata a vantaggio degli altri imprenditori già clienti degli operatori finanziari”. (Majello 2003, 1947).

Nel settore del credito, la possibilità per la banca di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali era riconosciuta, già prima della sua definizione legislativa, dalle N.B.U., della cui validità si era, invero, fortemente dubitato, perché in contrato con i principi della bilateralità del consenso e della determinatezza del contenuto del contratto. Tali dubbi furono superati a seguito del riconoscimento normativo fattone dalla l.154/92. Successivamente, come detto, il t.u.b. recepì quasi integralmente la disciplina contenuta nella legge sulla trasparenza.

Nella sua versione originaria, il t.u.b. disciplinava la materia dello ius variandi in due distinte disposizioni: l’articolo 117, comma 5, che prevedeva la necessità che la clausola contemplante lo ius variandi fosse espressamente riportata nel contenuto del contratto e specificamente approvata dal cliente; e l’articolo 118, che demandava al CICR la determinazione dei modi e termini relativi alla comunicazione delle variazioni sfavorevoli al cliente e, in ipotesi di esercizio dello ius variandi da parte della banca, concedeva al cliente il diritto di recedere dal contratto senza penalità e con l’applicazione, in sede di liquidazione, delle condizioni previgenti.

Alla base di tale disciplina legislativa vi era la volontà di contemperare due contrapposte esigenze: quella della banca, da un lato, a modificare unilateralmente, nel corso del rapporto, le condizioni previste al momento della conclusione del contratto; e quella del cliente, dall’altro, a non trovarsi vincolato ad un rapporto caratterizzato da condizioni economiche diverse da quelle inizialmente previste. Di fatto, però, la tutela offerta al cliente dalla normativa sopra richiamata risultava inadeguata, alla luce dei seguenti elementi distorsivi: il carattere discrezionale del potere modificativo della banca, la modalità impersonale di comunicazione della variazione (attraverso la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) e il termine troppo esiguo (di 15 giorni) per l’esercizio del recesso. La descritta disciplina è stata così parzialmente modificata con due recenti interventi normativi (dapprima il d.lgs. n. 223/2006, convertito con modificazioni nella l. 248/2006, e poi il d.lgs. n. 141/2010, modificato dal d.lgs. n. 218/2010), che hanno corretto gli evidenziati aspetti critici della normativa previgente.

Il novellato articolo 118 detta ora l’intera disciplina dello ius variandi, essendo stata eliminata dall’attuale articolo 117 la statuizione un tempo inserita nel comma 5 (tale statuizione è stata trasposta nell’articolo 118, al fine di regolare la materia dello ius variandi nell’ambito di un unico contesto).

Sinteticamente, la nuova disposizione prevede che:

  • lo ius variandi può essere esercitato solo in presenza di un giustificato motivo;
  • la modifica deve essere oggetto di una comunicazione scritta individuale;
  • il preavviso minimo deve essere di due mesi;
  • il decorso di tale termine, senza che il cliente receda dal contratto, funziona da atto di consenso/presupposto di efficacia della modifica.

Al riguardo, mette conto precisare che il potere in questione, anche se trova il suo riconoscimento nella legge, ha pur sempre fonte contrattuale. Esso, infatti, non opera di diritto, bensì deve essere espressamente contemplato nel contratto, mediante un’apposita clausola specificamente approvata dal cliente. La previsione di tale approvazione specifica corrisponde a quella prevista per le clausole vessatorie nelle condizioni generali di contratto di cui all’articolo 1341, comma 2 del codice civile (sebbene quest’ultima disposizione non sia più esplicitamente richiamata nell’attuale articolo 118). L’inosservanza di tale requisito, in base al comma 3 dell’articolo 118, determina l’inefficacia della clausola che prevede lo ius variandi.

Per quanto concerne l’ambito di applicazione, la norma si rivolge a tutti i clienti della banca, sia consumatori che non, e trova applicazione a tutti i contratti bancari di durata, ossia ai contratti, a tempo indeterminato o determinato, volti a creare con il cliente un rapporto che per sua natura duri nel tempo, con esclusione, quindi, dei contratti la cui esecuzione, contestuale o meno alla conclusione, sia istantanea. Parte della dottrina ritiene, tuttavia, che la norma sia applicabile non soltanto ai contratti di durata in senso tecnico, ma anche a quelli ad esecuzione istantanea differita.

 

8. Un dialogo continuo tra banca e cliente: la buona fede contrattuale nel corso del rapporto

Il tema della trasparenza si completa con le regole contenute nell’articolo 119 Testo Unico Bancario, che tendono ad assicurare la trasparenza del rapporto banca-cliente, oltre che nel momento genetico, anche nel corso della sua attuazione. Il comma 1 prevede l’obbligo a carico degli intermediari di fornire al cliente “una comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto”.

Dal testo della norma è stato eliminato, invece, il requisito della “completezza” delle comunicazioni periodiche. La modifica è spiegata, nella Relazione illustrativa al d.lgs. n. 141/2010, con l’esigenza di evitare che un eccesso di informazione su punti non essenziali pregiudichi l’obiettivo di fornire alla clientela comunicazioni semplici e chiare. 

Tale spiegazione non è parsa, tuttavia, del tutto convincente: la comunicazione, invero, in tanto è chiara in quanto sia anche completa. Si evidenzia, infatti, che “la trasparenza richiede sempre, di per sé, la completezza dell’informazione: un’informazione incompleta è di per sé inadeguata e quindi inidonea a realizzare gli obiettivi di trasparenza. Malamente dunque è stato posto un problema di completezza/incompletezza: esisteva ed esiste, invece, solo un problema di specificazione dei dati che la comunicazione periodica deve contenere per assicurare la completezza senza cadere nella sovrabbondanza”.

Ad ogni modo, il requisito della “completezza”, appena uscito dalla porta, è stato fatto rientrare dalla finestra: ad una comunicazione non solo “chiara” ma anche “completa” fanno, infatti, riferimento le Disposizioni di vigilanza.

Il predetto obbligo di comunicazione ha cadenza annuale, ma le parti possono convenire una periodicità più ridotta per l’invio o la consegna del rendiconto e del documento di sintesi: in particolare, per i rapporti regolati in conto corrente, il cliente può chiedere che le comunicazioni siano effettuate con periodicità semestrale, trimestrale o mensile.

Quanto al contenuto e alle modalità delle comunicazioni periodiche, il legislatore attribuisce al CICR il compito di fissare la disciplina di dettaglio. A sua volta, poi, la Delibera CICR 4 marzo 2003 rinvia alla disciplina applicativa della Banca d’Italia.

Al riguardo, le vigenti Istruzioni di vigilanza stabiliscono che la comunicazione periodica sia effettuata mediante invio o consegna di un rendiconto (che nei rapporti di conto corrente è denominato estratto conto) e del documento di sintesi delle principali condizioni economiche.