Avvocato Generale UE: la denominazione sociale simile o identica ad un marchio d’impresa non è contraffazione

L’Avvocato Generale UE ha presentato le proprie conclusioni in merito ad una interessante questione di utilizzo di marchi e denominazioni sociali, così sottoposta in via pregiudiziale dalla corte d’appello di Nancy: «Se l’art. 5, n. 1, della direttiva (CEE) n. 89/104 debba essere interpretato nel senso che l’adozione, da parte di un terzo che non vi sia stato autorizzato, di un marchio nominativo registrato, a titolo di denominazione sociale, nome commerciale o insegna nell’ambito di un’attività di commercializzazione di prodotti identici costituisca un atto d’uso commerciale di tale marchio che il titolare possa far cessare in forza del suo diritto esclusivo».

Ricordiamo che, a norma dell’art. 5 della direttiva, intitolato «Diritti conferiti dal marchio di impresa»: «Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio: a) un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e il marchio di impresa».

In sostanza, la questione sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia, come ha notato l’Avvocato Generale, si risolve nel chiedersi se l’adozione di una denominazione sociale o commerciale costituisca un uso ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva. In particolare, nel contesto dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva, secondo costante giurisprudenza della Corte, l’esistenza di un rischio di confusione nella mente del pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie (ad esempio la natura dei beni e delle prestazioni, la condizione degli eventuali destinatari di questi ultimi, la struttura del mercato e la collocazione sul mercato del titolare del marchio). Non solo, l’Avvocato Generale ha dichiarato di concordare con quanto sostenuto dal Governo italiano e cioè che la valutazione dev’essere oggettiva, e non basata sull’intenzione della persona che faccia uso del segno.

Con particolare riferimento alla denominazione sociale, l’Avvocato Generale ha sostenuto che: “Una denominazione sociale, in particolare, non deve necessariamente essere utilizzata «per» prodotti o servizi forniti dall’impresa «nel commercio». Il suo uso può essere limitato a circostanze più formali, qualora l’impresa operi con uno o più nomi diversi. E anche quando la denominazione sociale venga utilizzata nel commercio per prodotti o servizi, tale uso non è necessariamente idoneo a contraddistinguere i prodotti o servizi, a indicarne l’origine o a rendere credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio con il titolare di un marchio identico o simile. … A fortiori, la mera adozione (registrazione) di una denominazione sociale prima di qualsivoglia uso – che costituisce l’oggetto della questione formulata dal giudice del rinvio – esula, di regola, dalla sfera di applicazione dell’art. 5, n. 1, della direttiva”.

Riportiamo le conclusioni che l’Avvocato Generale ha chiesto alla Corte di accogliere:

«La semplice adozione di una denominazione sociale o commerciale simile o identica a un marchio d’impresa esistente non costituisce un uso ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 89/104/CEE.
Spetta la giudice nazionale competente valutare l’uso successivo di tale denominazione nel commercio al fine di stabilire se costituisca uso per prodotti o servizi ai sensi della menzionata disposizione, vale a dire se esso sia idoneo a contraddistinguere i prodotti o servizi in questione e leda gli interessi del titolare incidendo sull’idoneità del marchio ad adempiere la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza dei prodotti o servizi. Ciò vale, in particolare, se l’uso in questione rende credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio tra il titolare del marchio e prodotti o servizi di origine diversa. A tale proposito, occorre verificare se i consumatori interessati possano interpretare il segno, quale utilizzato dal terzo, nel senso che esso indichi, o tenda ad indicare, l’origine dei prodotti o servizi.
Il diritto del titolare del marchio di vietare tale uso è soggetto alla restrizione di cui all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104/CEE, che a sua volta è subordinata al rispetto, da parte dell’utilizzatore del nome, degli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale. L’uso non è conforme a tali usi in particolare quando renda credibile l’esistenza di un collegamento nel commercio tra l’utilizzatore e il titolare del marchio, pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà o arrechi discredito o denigrazione a tale marchio. Gli usi consueti di lealtà in relazione all’adozione di un nome ai fini del suo uso nel commercio implicano una ragionevole diligenza nell’informare il titolare di un marchio simile o identico registrato per prodotti o servizi simili o identici a quelli per i quali il nome dev’essere utilizzato e il rispetto di eventuali condizioni ragionevoli poste dal titolare entro un termine ragionevole».

(Avvocato Generale UE Sharpston, Conclusioni 18 gennaio 2007, Causa C-17/06).

L’Avvocato Generale UE ha presentato le proprie conclusioni in merito ad una interessante questione di utilizzo di marchi e denominazioni sociali, così sottoposta in via pregiudiziale dalla corte d’appello di Nancy: «Se l’art. 5, n. 1, della direttiva (CEE) n. 89/104 debba essere interpretato nel senso che l’adozione, da parte di un terzo che non vi sia stato autorizzato, di un marchio nominativo registrato, a titolo di denominazione sociale, nome commerciale o insegna nell’ambito di un’attività di commercializzazione di prodotti identici costituisca un atto d’uso commerciale di tale marchio che il titolare possa far cessare in forza del suo diritto esclusivo».

Ricordiamo che, a norma dell’art. 5 della direttiva, intitolato «Diritti conferiti dal marchio di impresa»: «Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio: a) un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e il marchio di impresa».

In sostanza, la questione sottoposta all’attenzione della Corte di Giustizia, come ha notato l’Avvocato Generale, si risolve nel chiedersi se l’adozione di una denominazione sociale o commerciale costituisca un uso ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva. In particolare, nel contesto dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva, secondo costante giurisprudenza della Corte, l’esistenza di un rischio di confusione nella mente del pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie (ad esempio la natura dei beni e delle prestazioni, la condizione degli eventuali destinatari di questi ultimi, la struttura del mercato e la collocazione sul mercato del titolare del marchio). Non solo, l’Avvocato Generale ha dichiarato di concordare con quanto sostenuto dal Governo italiano e cioè che la valutazione dev’essere oggettiva, e non basata sull’intenzione della persona che faccia uso del segno.

Con particolare riferimento alla denominazione sociale, l’Avvocato Generale ha sostenuto che: “Una denominazione sociale, in particolare, non deve necessariamente essere utilizzata «per» prodotti o servizi forniti dall’impresa «nel commercio». Il suo uso può essere limitato a circostanze più formali, qualora l’impresa operi con uno o più nomi diversi. E anche quando la denominazione sociale venga utilizzata nel commercio per prodotti o servizi, tale uso non è necessariamente idoneo a contraddistinguere i prodotti o servizi, a indicarne l’origine o a rendere credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio con il titolare di un marchio identico o simile. … A fortiori, la mera adozione (registrazione) di una denominazione sociale prima di qualsivoglia uso – che costituisce l’oggetto della questione formulata dal giudice del rinvio – esula, di regola, dalla sfera di applicazione dell’art. 5, n. 1, della direttiva”.

Riportiamo le conclusioni che l’Avvocato Generale ha chiesto alla Corte di accogliere:

«La semplice adozione di una denominazione sociale o commerciale simile o identica a un marchio d’impresa esistente non costituisce un uso ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 89/104/CEE.
Spetta la giudice nazionale competente valutare l’uso successivo di tale denominazione nel commercio al fine di stabilire se costituisca uso per prodotti o servizi ai sensi della menzionata disposizione, vale a dire se esso sia idoneo a contraddistinguere i prodotti o servizi in questione e leda gli interessi del titolare incidendo sull’idoneità del marchio ad adempiere la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza dei prodotti o servizi. Ciò vale, in particolare, se l’uso in questione rende credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio tra il titolare del marchio e prodotti o servizi di origine diversa. A tale proposito, occorre verificare se i consumatori interessati possano interpretare il segno, quale utilizzato dal terzo, nel senso che esso indichi, o tenda ad indicare, l’origine dei prodotti o servizi.
Il diritto del titolare del marchio di vietare tale uso è soggetto alla restrizione di cui all’art. 6, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104/CEE, che a sua volta è subordinata al rispetto, da parte dell’utilizzatore del nome, degli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale. L’uso non è conforme a tali usi in particolare quando renda credibile l’esistenza di un collegamento nel commercio tra l’utilizzatore e il titolare del marchio, pregiudichi il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà o arrechi discredito o denigrazione a tale marchio. Gli usi consueti di lealtà in relazione all’adozione di un nome ai fini del suo uso nel commercio implicano una ragionevole diligenza nell’informare il titolare di un marchio simile o identico registrato per prodotti o servizi simili o identici a quelli per i quali il nome dev’essere utilizzato e il rispetto di eventuali condizioni ragionevoli poste dal titolare entro un termine ragionevole».

(Avvocato Generale UE Sharpston, Conclusioni 18 gennaio 2007, Causa C-17/06).