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Canonizzazione della legge civile

Lecce
Ph. Antonio Capodieci / Lecce

Can. 22 - “Le leggi civili alle quali il diritto della Chiesa rimanda, vengano osservate nel diritto canonico con i medesimi effetti, in quanto non siano contrarie al diritto divino e se il diritto canonico non dispone altrimenti.

Il quadro delle fonti primarie non sarebbe completo senza un esame dell'ultima tra le disposizioni dettate dal CIC in materia, quella che prevede la c.d. “canonizzazione della legge civile”.[1]

Per comprenderne la natura e distinguerla da fenomeni affini, occorre considerare che il can. 22 reca, a ben vedere, tre elementi caratterizzanti:

  1. il diritto canonico potrebbe prevedere una disciplina, quindi non si tratta di una materia puramente temporale su cui la Chiesa si professa incompetente a provvedere; detto altrimenti, la canonizzazione non è il riconoscimento di un'autorità che la legge civile possieda di suo;
  2. di fatto, però, il legislatore ecclesiastico, invece di dettare una regola di proprio conio, ha introdotto una disposizione di rinvio (c.d. norma canonizzante);
  3. oggetto del rinvio non è una disposizione ma una norma in senso stretto, detta “norma canonizzata”, perché si tratta di osservarla in ambito canonico con i medesimi effetti che avrebbe nell'ordinamento di origine, a meno che il diritto divino non osti a tali effetti e fino a quando la fonte di produzione sua propria non la modifichi (c.d. rinvio “mobile”).

Si tratta quindi, in sostanza, di una previsione analoga alle norme di diritto internazionale privato;[2] va tenuta distinta, in particolare, dai casi in cui il legislatore canonico[3]

  1. prescrive o raccomanda l'osservanza di particolari leggi civili, per es. il can. 1299 §2 riguardo alle formalità necessarie per le disposizioni patrimoniali mortis causa in favore della Chiesa, che lascia però intatto il potere-dovere del giudice ecclesiastico di intervenire comunque a tutela di quella che, per il nostro ordinamento, sarebbe al massimo un'obbligazione naturale dell'erede;[4]
  2. si riferisce ad un istituto (emancipazione, can. 105 §1; adozione, can. 110)[5] o ad una figura la cui esistenza e disciplina dà per presupposte, p.es. il can. 1479 attribuisce al tutore costituito secondo le leggi civili la capacità di stare in giudizio nell'ordinamento canonico, salvo il potere del giudice ecclesiastico di costituirne uno ad casum, e il can. 1405 presuppone che esistano i Capi di Stato nel momento in cui riserva al Romano Pontefice il giudizio sulle loro cause;[6]
  3. riconosce una competenza naturale della legge civile, come fa il can. 1059 riguardo agli effetti meramente civili del matrimonio (cfr. anche can. 1671), o il can. 1540 §2 quando riconosce agli atti pubblici formati secondo la legge civile ad essi applicabile la stessa efficacia probatoria anche in foro canonico;[7]
  4. attribuisce al legislatore civile potestà normativa in un campo da cui la dottrina della Chiesa lo escluderebbe, come il vecchio can. 1186 CIC 1917, che ammetteva la possibilità che questi stabilisse a chi spettasse l'onere di restaurare la Cattedrale.[8]

A scanso di equivoci, sembra altresì opportuno chiarire che l'espressione “legge civile” va intesa nel senso più ampio possibile: “nel corso della trattazione si adotterà l'espressione «leggi civili» intendendo indicare l'ordinamento giuridico dello Stato nella sua globalità, l'insieme delle norme giuridiche vigenti nello stesso, a prescindere che siano formulate dagli organi ordinariamente competenti, preposti alla produzione normativa, o non: ricomprendendovi perciò, come vedremo, quelle norme che hanno avuto accesso nell'ordinamento giuridico dello Stato in forza di un rinvio o altrimenti (leggi straniere, diritto internazionale...). È d'uopo altresì puntualizzare, potendo la locuzione impiegata trarre in inganno, che si considerano non solo le norme giuridiche di rango propriamente legislativo, ma anche quelle regolamentari, le consuetudini, le decisioni giurisprudenziali ecc.; indipendentemente, inoltre, dall'ascrizione delle medesime alle varie ramificazioni in cui sogliono segmentarsi gli studi giuridici (diritto privato, penale, pubblico, commerciale, processuale, internazionale ...); senza infine escludere, insieme alle norme «soprastatuali», altresì quelle «infrastatuali», cioè eventuali norme giuridiche di Stati federati o di Regioni autonome (sempre nel rispetto della loro gerarchia). La qualifica di civile è qui sinonimica di non canonico.”.[9]

Le ragioni che inducono ad optare per questa peculiare tecnica legislativa possono essere diverse: dalla previsione che una disciplina canonica distinta dalla secolare non verrebbe comunque osservata fino alla convinzione che la fonte giuridica secolare sia più qualificata per regolare certe materie. Questo sembrerebbe il caso, in particolare, di obbligazioni e contratti, che già al tempo delle Decretali erano materia retta dal diritto romano ogniqualvolta non vi fossero disposizioni canoniche in contrario (soprattutto per evitare il pericolo dell'usura) e rispetto a cui anche oggi il can. 1290 dispone la canonizatio, sia pur integrata da una disciplina autonoma che riguarda soprattutto permessi e controlli preventivi alla stipula degli atti di alienazione patrimoniale (cfr. cann. 1291-8).[10]

Invece, in materia di prescrizione acquisitiva ed estintiva, il can. 197 prevede bensì la canonizzazione della legge civile, però le deroghe sono più importanti e condizionano molto l'operatività della disciplina richiamata, soprattutto il can. 198 che esige sempre la buona fede, per tutto il tempo necessario ad acquistare il diritto o liberarsi dall'obbligo, tranne il caso della prescrizione penale canonica. Inoltre, il diritto divino o motivi di fortissima opportunità hanno ispirato al legislatore canonico un elenco molto ampio di rapporti imprescrittibili (can. 199).

innovando rispetto al Codice precedente, il can. 1500 canonizza la disciplina delle azioni possessorie, compresi all'evidenza i requisiti sostanziali; ci si può chiedere se con ciò si riconosca tutela anche alle situazioni di mala fede e la risposta affermativa mi sembra probabile, trattandosi in ogni caso di una tutela provvisoria in attesa della soluzione definitiva.

La quarta e ultima ipotesi di canonizatio[11] riguarda transazioni e compromessi in arbitri (can. 1714), oggetto di una norma speciale rispetto al can. 1290 perché si prevede che, in prima battuta, si tratti di diritti di cui le parti possono disporre secondo l'ordinamento canonico (e dunque non di cause dove verrebbe in gioco il bene pubblico: can. 1715), ma una volta ammessa questa capacità la loro autonomia è piena e in linea di principio si sta a quanto da esse disposto; solo in via sussidiaria si ricorre a quanto stabilito dalla Conferenza Episcopale o, in terza battuta, dalla legge civile. Da questa vengono però recepiti i casi di impugnazione del lodo davanti al giudice e la necessità o non necessità dell'exequatur, solo che in entrambe le ipotesi provvederà il giudice ecclesiastico, non già quello secolare (can. 1716).

Infine, tra le ipotesi di canonizzazione non figura più l'impedimento matrimoniale da parentela determinata da adozione, il quale esiste ancora ma come norma propria del diritto canonico, indipendentemente dalle previsioni civili (cfr. can. 1084 e gli antecedenti 1059 e 1080 CIC 1917).[12]

Quindi, se il diritto precodiciale vedeva una vera e propria recezione del diritto romano come fonte suppletiva generale per tutto ciò che non fosse disciplinato autonomamente in ambito canonico, e questo a prescindere dal riconoscimento di una vigenza formale dello stesso in quel dato territorio, con il Codice del 1917 e poi ancora con l'attuale ci si è limitati ad alcune ipotesi tipiche, relative soprattutto all'ambito patrimoniale. Restrizione che non può certo stupire, laddove si consideri che gli ordinamenti secolari, in Occidente ma non solo, si sono andati sempre più allontanando dalla conformità al diritto divino, il che rende ingiusta la disciplina di interi settori. Qui si coglie l'importanza del requisito di un rinvio espresso, che permette di scegliere ex ante le materie su cui un simile contrasto appare meno probabile e i benefici del rinvio “mobile” alla fonte di produzione esterna superano i rischi. Allorché, invece, il legislatore canonico si astiene dal dettare una disciplina senza compiere un rinvio del genere, si può comunque pervenire all'applicazione della legge civile, ma solo per altra via, cioè tramite il can. 19, vuoi sotto forma di princìpi generali del diritto, vuoi come aequitas nel senso di parità di trattamento con casi analoghi giudicati in sede civile (questo per le situazioni dove gli aspetti temporali sono prevalenti). Senza contare, naturalmente, che forme di canonizzazione o di recepimento potrebbero essere previste dai legislatori canonici particolari, in tutti gli ambiti di propria competenza, e che i Concordati[13] provvedono spesso ad un'armonizzazione molto stretta tra i due diritti nelle materie ritenute più importanti.[14]

Nonostante l'indubbia rilevanza nella vita della Chiesa, l'istituto della canonizzazione appare relativamente poco studiato e forse risente perfino di un deficit di effettività: “Dopo il 1983 le menzioni del rinvio normativo nella giurisprudenza rotale sono poche, alcune applicano ancora le norme del Codice del 1917, e non riescono a costruire schemi omogenei di ermeneutica normativa (sorprende che alcune sentenze relative a dei contratti non applichino il rinvio: cfr. c. Faltin, 7.XI.1990, «RRDS» 82 [1990] 766-773). Cfr. c. Pompedda, 17.III,1986, «RRDS» 78 (1986) 180-183; c. Palestro, 15.VI.1988, «RRDS» 80 (1988) 400-414; c. Pompedda, 29.V.1989, «RRDS» 81 (1989) 389-400; c. Palestro, 23.X.1991, «RRDS» 83 (1991) 622-669; c. Faltin, 9.II.1996, «RRDS» 88 (1996) 105.115; c. Pinto, 26.III.1999, «RRDS» 91 (1999) 222-231; c. Faltin, 1.VI.1999, «RRDS» 91 (1999) 431-437.”.[15] Va detto, tuttavia, che non appena dalle linee generali si scende alle questioni concrete i problemi applicativi si palesano complessi e di non agevole soluzione.

Prima di tutto, osserva correttamente Ciprotti, occorre confrontarsi con la c.d. “doppia qualificazione”: quando ad es. il rinvio è formulato in materia di contratto, l'oggetto si deve prendere secondo la definizione della legge canonizzata?

No, o meglio solo in un secondo momento; e anche questo vale a distinguere la canonizzazione dai casi in cui la legge civile viene semplicemente presupposta. Invero, “quando si deve identificare quale sia la norma canonica applicabile ad un fatto o ad un rapporto, a questo deve in un primo momento attribuirsi la qualifica che gli spetta secondo l'ordinamento giuridico della Chiesa, indipendentemente dalla ricezione delle leggi civili; qualora in base a tale qualifica risulti che quel fatto o rapporto rientri nella fattispecie di una norma canonizzante, si identifica l'ordinamento giuridico statuale richiamato, e quindi, per individuare quali norme di questo ordinamento siano in concreto applicabili, il fatto o rapporto dovrà essere assunto con la qualifica che esso ha in tale ordinamento.”.[16]

Ci si può chiedere, peraltro, come applicare questo metodo proprio al caso dei contratti, per i quali manca una definizione nel CIC o in altra legge. Nonostante qualche voce dissonante,[17] si ritiene che la traditio canonica possa qui svolgere un utile ruolo suppletivo e fornire al giurista una nozione di contractus sua propria, che non è quella del diritto romano e tende ad essere più ampia degli omologhi civilistici odierni, per abbracciare tutti gli atti consensuali: “Duorum vel plurium in idem placitum signo sensibili expressus”.[18] Analogamente, all'interno del medesimo canone, il termine solutio, “pagamento”, è inteso come riferito a qualunque causa debendi, incluso il risarcimento del danno, e quindi canonizza l'intera disciplina delle obbligazioni.[19] Più in generale, la ricerca del “significato proprio” delle parole, soprattutto rispetto al diritto universale – che non a caso è formulato in latino – non può cedere all'automatismo mentale dell'omologia con l'ordinamento civile di ciascun interprete.

Inoltre, un problema notissimo ai cultori del diritto internazionale privato, ma pretermesso dal can. 22, è il criterio di collegamento. Chi rammenti, dagli anni universitari, l'articolata disciplina che i diritti secolari dedicano alla questione non può evitar di pensare che la sua importanza sia stata un tantino sottovalutata in ambito canonico, probabilmente perché i rapporti per cui si fa luogo alla canonizatio dovrebbero, secondo l'id quod plerumque accidit, essere privi di elementi di internazionalità; oggi, però, questo è assai meno vero di ieri.

Il can. 197, rinviando al diritto “della rispettiva nazione” per la disciplina degli istituti della prescrizione civilistica, dà proprio per scontato che la nazione coinvolta sia una sola; e in questo si può trovare un senso, dato che la materia delle obbligazioni è oggetto di altro rinvio, la prescrizione penale riceve una disciplina canonica a sé stante e, rispetto all'usucapione di immobili, il criterio di collegamento preferito dagli ordinamenti secolari appare senz'altro quello del forum rei sitae, non a caso indicato espressamente dal can. 1500 riguardo alle azioni possessorie. La lacuna resta, perché a contrario dal can. 199 si desume che si acquistano o perdono per prescrizione anche diritti od obblighi prettamente spirituali,[20] ma appare di importanza limitata, relativa soprattutto alle giurisdizioni su base personale e quindi utilmente affrontabile dal diritto particolare.

Più complicata la questione rispetto al can. 1290, che parla di “ius civile in territorio”: ciò, a tacer d'altro, lascia aperto il dubbio se si debba fare riferimento al luogo di conclusione del contratto oppure della sua esecuzione, e anche se debba per caso ritenersi esclusa la facoltà delle parti di optare per una legge regolatrice differente.

Il rinvio compiuto dalla canonizatio “incorpora” il complesso di tutte le regole statali applicabili alla singola fattispecie o, se si preferisce, il “prodotto finito”, la soluzione che ne consegue; quindi, anche in un rapporto privo di elementi di internazionalità, la scelta di una legge straniera sarà sempre consentita nella misura in cui la ammetta il diritto internazionale privato dello Stato di riferimento, giacché il can. 1290 è volto a prevenire difficoltà ad ottenere la tutela delle autorità secolari, che per definizione non potrebbero darsi nel caso (o sarebbero di mero fatto, cioè legate alla conoscibilità del diritto straniero, ma questo deve semmai portare ad una riflessione attenta sull'opportunità di eleggerlo in concreto). Ma quando gli elementi di internazionalità si danno e le norme di d.i.p. degli ordinamenti in potenza coinvolti non portano ad un risultato univoco, lasciando invece aperte più possibilità, e magari l'uno ricorra al criterio del luogo di conclusione del contratto, l'altro a quello di esecuzione, l'importanza di attribuire un significato univoco alla norma canonizzante emerge dall'ombra: si pensi ad un contratto proprio dell'ordinamento canonico, come l'accordo ex can. 271 tra due Vescovi, quasi sempre di Paesi diversi, per l'invio di Sacerdoti in missione.[21]

Un aiuto a risolvere il problema esegetico può forse derivare dal can. 1714, che richiama espressamente la legge civile del luogo in cui l'accordo è stipulato. Ma siccome si tratta di norma speciale rispetto al can. 1290, ci si può chiedere se sul punto si limiti a confermarlo, magari per prevenire dubbi riferiti alla sede di svolgimento del giudizio arbitrale, oppure vi deroghi e dunque, a contrario, il riferimento generale debba intendersi alla legge del luogo di esecuzione.[22]

Decisivi nel senso del luogo di conclusione del contratto[23] mi sembrano, piuttosto, altri due argomenti: l'espressa scelta in tal senso del can. 1034 CCEO e, soprattutto, la concezione volontarista di contractus fatta propria dalla tradizione canonica, strettamente legata ad un problema di diritto divino come il rispetto dell'Ottavo Comandamento.[24]

Quest'ultimo aspetto, peraltro, rileva anche da un punto di vista differente. Potrebbe capitare che l'ordinamento civile richiamato non preveda una disciplina applicabile al caso, soprattutto laddove si tratti di atti negoziali che esso non considera “contratti” neppure per analogia, o che sono per esso giuridicamente irrilevanti. Come pure potrebbe darsi che il negozio giuridico in discorso, lecito e magari meritorio per l'ordinamento canonico, sia nullo per il diritto canonizzato: si pensi al fedecommesso.[25] Per non parlare, poi, delle leggi civili volte a non riconoscere ad enti ecclesiastici canonicamente eretti la possibilità di acquistare beni; e così via.

Rispetto all'ipotesi della lacuna legis, è chiaro che in prima battuta dovranno essere applicate le regole di integrazione proprie della lex civilis in gioco, non il can. 19; supposto, però, che esse in concreto non portino ad una soluzione (per i motivi appena detti), in materia negoziale il solo criterio di riferimento possibile sarà la ricostruzione della volontà delle parti e – siccome il problema si porrà per forza di cose in mancanza di dichiarazioni esplicite – dovrà trattarsi di una volontà presunta, secondo i casi e le circostanze, con i soli limiti del diritto divino o di leggi civili pertinenti e giuste.

Riguardo invece alla nullità, occorre distinguere: in linea generale, sono senz'altro canonizzati anche i requisiti in materia di capacità a contrarre o di forma degli atti, ma riguardo alle disposizioni per cause pie il can. 1299 §1 si pone come norma di applicazione necessaria ed esige che bastino sempre e comunque i soli requisiti di capacità naturale e prova della volontà, comunque manifestata (il combinato disposto dei cann. 1290 e 1547, d'altronde, ammette sempre la prova per testi in materia contrattuale).[26] Quando invece si tratti di un atto giuridico nullo perché disapprovato, o anche per semplice contrarietà ad una norma imperativa, il diritto canonico non può eludere la questione della giustizia di tale norma, né fare propria la disapprovazione di una volontà moralmente lecita, salvo che il giudizio del legislatore temporale sia comunque giusto per particolari ragioni estrinseche. Lo stesso vale a maggior ragione per una legge che pretendesse di incapacitare gli enti ecclesiastici: esclusa a priori dalla canonizzazione, perché contraria a norme positive canoniche, sarebbe altresì lesiva di princìpi di diritto divino, in primo luogo la libertas Ecclesiae.[27]

In altre parole e più in generale: quando il rinvio fallisce perché non individua una disciplina applicabile, o se il risultato cui esso conduce non è accettabile per l'ordinamento canonico, il diritto divino entra in gioco tanto come limite (di ordine pubblico, si direbbe in diritto internazionale privato)[28] quanto come norma di applicazione necessaria, che fornisce la soluzione positiva. Non basta, ad esempio, dire che l'usucapione non opera in favore del possessore di mala fede, ma occorre aggiungere che in capo a quest'ultimo, appena viene a sapere dell'altruità del bene, sorge immediatamente un obbligo di restituzione che prescinde da qualsiasi iniziativa del titolare. Oppure, se la disciplina canonizzata di un contratto di lavoro portasse, per qualunque motivo, ad una retribuzione ingiusta perché senz'altro insufficiente, allora, anche se non esistesse il supporto positivo dei cann. 231 §2 e 1286 n. 1°, il giudice sarebbe tenuto ad integrarne la misura egli stesso, compiendo le opportune operazioni di stima e tenuto conto del concetto di “sufficienza” proposto dalla dottrina sociale della Chiesa, che include la possibilità di risparmiare e di considerar la formazione di una famiglia.

Non mi sembrerebbe corretto affermare che, in situazioni del genere, torni ad operare il can. 19; direi piuttosto che il diritto divino non va visto semplicemente come complesso di regole astratte, ma come vera e propria fonte di ius nel senso tommasiano di ipsa res iusta, capace dunque, almeno in certe circostanze, di determinare correttamente diritti ed obblighi nel caso concreto, così permettendo al giudice di assolvere al proprio compito di rendere giustizia. Non è inutile osservare che la sentenza passata in giudicato, per il diritto canonico, non “fa stato”, ma facit ius inter partes (can. 1642 §2).

 

[1]    Può essere forse il caso di osservare, sul piano terminologico, che “Secondo un uso che risale ai primordi della Chiesa, nel sec. IV con il termine κανών (che corrisponde alla parola latina regula ed etimologicamente significa 'regolo') viene designata la legge ecclesiastica in contrapposizione al termine νόμος, con cui viene designata la legge civile: l'espressione νομοκάνονες veniva usata per indicare le collezioni delle leggi civili ed ecclesiastiche.”. P. Ciprotti, s.v. Canone (dir. can.), in Enciclopedia del Diritto, vol. V, Milano 1959, pagg. 1081-2, qui 1081. il nostro impiego di canonizatio è già desumibile dalla gl. Capitali a c. 7 (In primis) C. II q. 1, “stabitur huic legi cum sit canonizata”; non va confuso con il senso attribuito al termine da V. Del Giudice, Canonizatio, Padova 1939 (edizione separata del contributo poi apparso in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, vol. IV, Padova 1940, pagg. 223 e ss.), dove indica il recepimento del diritto divino da parte del legislatore canonico che lo traduce in precetti formali e così, a detta dell'Autore, lo renderebbe propriamente “giuridico”.

[2]    L'analogia è riscontrata da P. Ciprotti, s.v. Canonizzazione delle leggi civili, in Enciclopedia del Diritto, vol. V, Milano 1959, pagg. 1085-9, qui 1087-8. Per la distinzione tra la vera canonizatio e le ipotesi elencate subuto infra nel testo, egli suggerisce il seguente criterio: “se la norma di richiamo non esistesse, la Chiesa riterrebbe ugualmente che quel rapporto giuridico deve essere regolato dalla legge dello Stato? Se la risposta è affermativa, evidentemente siamo di fronte ad un fenomeno di rinvio formale; se invece la risposta è negativa, quasi sempre dovremo dire che la norma di rinvio dà luogo ad una canonizzazione” (ivi, pagg. 1086-7). Tuttavia, il problema presenta un interesse soprattutto teorico o de iure condendo.

[3]    Secondo G. Boni, Norme statuali e ordinamento canonico: premessa ad uno studio sulla canonizatio, in Il Diritto ecclesiastico 107 (1996), pagg. 265-347, §1, il can. 22 è applicabile ad ogni tipo di rinvio ad altro ordinamento; ma a rigore questo può dirsi vero solo per l'operatività del limite del diritto divino.

[4]    “Il diritto canonico, dunque, ordina o consiglia che siano seguite, nello svolgimento di talune attività o nell'assolvimento di alcune mansioni, certe norme poste dal legislatore civile, non per costituire nell'ordinamento della Chiesa le medesime situazioni giuridiche previste dalle norme rinviate, ma poiché gli preme ed è suo interesse che tali situazioni si costituiscano nell'ambito dell'ordinamento statuale; a volte dunque v'è una valutazione di opportunità ovvero una finalità latamente politica alla base di questo riferimento.”. G. Boni, op. cit., §7.

[5]    La recente apertura di svariati ordinamenti all'adozione da parte di coppie omosessuali pone, a quest'ultimo riguardo, ovvi problemi di compatibilità con il diritto divino, sui quali – salvo errore – fin qui è mancata una presa di posizione ufficiale.

[6]    Ritengo peraltro che la formula “qui supremum tenet civitatis magistratum” vada interpretata nel senso di un recepimento del principio di effettività, che contraddistingue le relazioni internazionali, e dell'inidoneità delle questioni di legittimità a dar luogo ad un incidente sulla competenza; esse tuttavia potrebbero essere sottoposte al giudizio della Chiesa con una causa ad hoc e, in tal caso, rientrerebbero senz'altro nella norma in esame.

[7]    Non è davvero questa la sede per riassumere gli esiti ultimi della plurisecolare querelle tra cosa sia di Cesare e cosa di Dio; in linea generalissima si può dire che sono materie meramente temporali tutte quelle di vero e proprio ius positum, di per sé sono indifferenti sul piano morale (ad es. guidare tenendo la destra o la sinistra: la legge civile può intervenire a stabilirlo, per assicurare l'effettiva possibilità di circolare, ma solo una volta che l'obbligo è posto sorge il dovere morale di rispettarlo, prima la scelta del senso di marcia era del tutto libera anche per la coscienza); l'individuazione delle materie puramente spirituali è piuttosto intuitiva; i problemi sorgono, da sempre, per quelle miste, cioè ogniqualvolta – in una questione anche moto “terrena”, p.es. una causa civile qualsiasi – si ravvisi una ratio peccati (cfr. can. 1401). Per questo la materia contrattuale, se è rimessa alla disciplina della legge civile (cfr. can. 1290), non esula però dai poteri del giudice ecclesiastico, perché sia l'inadempimento sia la responsabilità precontrattuale sono di per sé peccati.  

[8]    Secondo una recente teoria di notevole interesse, dovevano interpretarsi in tal senso anche i canoni che prescrivevano all'autorità civile di punire gli eretici con pene temporali: cfr. T. Pink, The Interpretation of Dignitatis Humanae: A Reply to Martin Rhonheimer, in Nova et Vetera 11 (2013), pagg. 77-121. Si può altresì pensare, almeno per analogia, alle molte disposizioni concordatarie che prevedevano, e in parte tuttora prevedono, forme di intervento secolare nella nomina dei Vescovi o più in generale nel conferimento degli uffici ecclesiastici, o anche poteri di vigilanza e intervento sull'amministrazione dei beni della Chiesa.

[9]    G. Boni, op.loc.cit. 

[10]  Sembra, peraltro, che durante l'iter della prima codificazione canonica ci si fosse inizialmente orientati verso l'elaborazione di un'ampia disciplina autonoma, compiendo solo in un secondo tempo la scelta di principio per la canonizatio: cfr. F. Falchi, Le carte dell'Archivio Segreto Vaticano per la redazione delle norme piobenedettine relative ai beni temporali della Chiesa, in Diritto e Storia n. 9/2010.

[11]  Si potrebbe forse aggiungere il can. 1558 §2, che riconosce il diritto di essere sentiti come testi fuori della sede del tribunale a coloro che “suae civitatis iure, simili favore gaudent”, ma può anche trattarsi del riconoscimento di uno status così come attribuito, sulla scorta di valutazioni di opportunità ritenute dal legislatore canonico rispettabili, ma estranee alla propria competenza.

[12]  In materia, cfr. l'ampio studio di P. Pellegrino, L'impedimento di parentela legale nel matrimonio canonico (can. 1084 CJC e can. 812 CCEO), in Revista Española de Derecho Canónico 59 (2002), pagg. 577-601, i cui punti salienti sono: “gli autori in generale concordano nel considerare Graziano come il vero autore che ha introdotto l'impedimento nel diritto canonico” (pag. 581); “per il diritto immediatamente precedente al Codice, l'esistenza dell'impedimento canonico non dipendeva dall'esistenza dell'impedimento civile, ma dall'esistenza giuridica dell'istituto dell'adozione, sostanzialmente conforme all'adozione del diritto romano e da siffatta situazione sorgevano spesso dei dubbi nei vari paesi che venivano risolti di volta in volta dalla Santa Sede” (pag. 582); “Il Codice [del 1917] fa dipendere l'esistenza dell'impedimento della parentela legale derivante da adozione, nel diritto canonico, dalla sussistenza di un corrispondente divieto della legge civile dei diversi Paesi e a seconda che in questa l'adozione sia considerata causa di illiceità o di nullità del matrimonio, il diritto canonico ne fa un impedimento impediente (can. 1059) o dirimente (can. 1080)” (pag. 583); oggi, “In conseguenza del can. 1094, l'impedimento impediente dell'adozione è soppresso; si è conservato soltanto l'impedimento dirimente, che vale sia per i Paesi nei quali Ia parentela legale rende invalide Ie nozze, sia per quelli in cui le nozze sono rese soltanto illecite, sia infine per quei Paesi in cui Ia parentela legale, pur riconosciuta, non ha alcuna efficacia in ordine al matrimonio” (pag. 597); “Identica sostanzialmente è la disciplina dell'impedimento di parentela legale nel CCEO” (pag. 599).

[13]  Prescindo qui dalla controversia, vivissima tra i canonisti, circa la loro esatta natura giuridica, influenzata anche dalla teoria rispettivamente preferita circa i rapporti tra diritto internazionale e diritto interno: cfr., in tema, l'efficace sintesi di G. Boni, op. cit., §5, che giustamente conclude: “In definitiva, come rilevava Falco, i Concordati non possono essere annoverati, quale categoria a sé, tra le fonti di produzione del diritto canonico poiché «solo in quanto il concordato viene pubblicato come legge ecclesiastica territoriale, e non in quanto è stato stipulato, sorgono diritti ed obbligazioni per i funzionari ecclesiastici e per i sudditi della Chiesa». I Concordati quindi, dopo la promulgazione canonica, in nulla si distinguerebbero dalle altre leggi ecclesiastiche e si porrebbero come fonti di diritto canonico particolare, territoriale.”. L'unica differenza sta nel fatto che, essendo trattati internazionali, provengono sempre dalla S. Sede, a meno che nel loro ambito non si demandino discipline di dettaglio a fonti di secondo livello, come le intese fra Repubblica italiana e CEI, previste dagli Accordi di Villa Madama. 

[14]  Si danno anche casi in cui la legge civile viene osservata de facto, ma senza un giudizio di approvazione, oppure nonostante una disapprovazione che non si esprime a chiare lettere, per evitare mali maggiori (dissimulatio, tolerantia). In nessuno di tali casi, però, dal fatto sorge un diritto, salvo che concorrano tutti i requisiti della consuetudine canonica.

[15]  J. Miñambres, Il diritto divino come limite al rinvio normativo nell’ordinamento canonico, in J.I. Arrieta (cur.), Ius divinum. Atti del XIII Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Venezia 17-21 settembre 2008), Venezia 2010, pagg. 501-12, qui nt. 1.

[16]  P. Ciprotti, op. cit., pag. 1088.

[17]  Cfr. T. Blanco, La noción canónica de contrato, Pamplona 1997, spec. pag. 41, secondo cui invece si avrebbero tante nozioni di “contratto” quanti diritti nazionali.

[18]  A. Blat, Commentarius textus Codicis Iuris Canonici – Liber III De rebus, Roma 1923, pag. 544. Analogamente, conclude per una “definizione canonica di una vasta categoria di fatti che rientrano sia nel concetto astratto di contratto in senso ampio, riguardante tutti gli accordi tra le parti - portatrici di interessi confliggenti o convergenti - produttivi di effetti giuridici di qualsiasi natura, che in quello stricto sensu riferentesi soltanto agli accordi regolatori (sempre in forza dell’incontro di due o più volontà) di situazioni patrimoniali” anche E. Nicolini, I contratti a contenuto patrimoniale nell'ordinamento canonico, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale - rivista telematica, maggio 2011, pag. 11. Inoltre, l'ampiezza della nozione collima con la storica tutelabilità del pactum nudum, sprovvisto di azione civile, mediante l'officium iudicis. Più restrittiva, tuttavia, la lettura di P. Ciprotti, s.v. Canonizzazione delle leggi civili, in Digesto disc. pubbl. vol. II, Torino 1987, pagg. 457 sgg.: “Data la collocazione del can. 1290 nel libro V del c.i.c. che è relativo ai 'beni temporali della Chiesa', non c'è dubbio che qui per 'contratto' si intenda un accordo relativo a rapporti giuridici patrimoniali.”.

[19]  Cfr. H. Pree, La responsabilità giuridica dell'amministrazione ecclesiastica, in E. Baura – J. Canosa (curr.), op. cit., pagg. 79-80, con richiami alla giurisprudenza di Rota e alla dottrina anteriore; nonché J. Mantecón, Comentario esegético al Código de derecho canónico, Pamplona 1996, pag. 153.

[20]  Il can. 1270 detta una disciplina speciale del termine di prescrizione, ma si riferisce soltanto ai diritti di contenuto patrimoniale delle persone giuridiche pubbliche; parziale anche l'integrazione offerta dal can. 1492 §1, che dichiara imprescrittibili le azioni de statu personarum.

[21]  Esempio tanto più significativo in quanto il problema del diritto statale applicabile appare ignorato anche dalla normativa secondaria: cfr. S. Congregatio pro Clericis, Normae directivae de mutua Ecclesiarum particularium cooperatione promovenda ac praesertim de aptiore cleri distributione, 25 marzo 1980, in AAS 72 (1980) 343-364; Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, Istruzione sull'invio e la permanenza all'estero dei Sacerdoti del clero diocesano dei territori di missione, 25 aprile 2001, in AAS 93 (2001) 641-647. Entrambi i documenti, a onor del vero, suppongo che l'iniziativa parta dal Vescovo della Diocesi di invio, quindi generalmente il contratto verrebbe concluso nel luogo di destinazione, il che oltretutto è coerente con lo scopo perseguito e con il criterio “rivale” dell'esecuzione del contratto; il primo testo, però, risente dell'influsso del m.p. Ecclesiae Sanctae, che attribuiva alle Conferenze Episcopali ad quas una competenza a stabilire norme generali in proposito, oggi non più prevista. La CEI, peraltro, ha elaborato e tuttora aggiorna schemi di convenzione sia per i Sacerdoti italiani inviati all'estero, sia per quelli stranieri inviati in Italia. Sarebbe senz'altro opportuno che l'ordinamento canonico dettasse una disciplina compiuta di un contratto così importante, visto che oltretutto il diritto statale può assolvere la funzione integrativa quasi solo per gli aspetti patrimoniali, ma mi sembra che anche la normazione secondaria non vi provveda che in parte.

[22]  Non mi trovo, quindi, molto d'accordo con P. Ciprotti, s.v. Canonizzazione delle leggi civili, in Enciclopedia del Diritto, cit., pag. 1088, secondo cui “con grande probabilità è da ritenere che il can. 1529 rinvii alla legge del luogo in cui il contratto è concluso, e il can. 33 §2 alla legge del luogo in cui si deve eseguire l'obbligazione, sebbene non si veda quanto sia logico assumere due criteri così diversi per gli stessi rapporti giuridici; […] ma certo invano si cercherebbe di capire a quale legge civile [fa] rinvio […] il can. 1529 per le solutiones.”: anche al can. 33 §2, che riguardava il computo dei termini per l'adempimento, il criterio era sempre il ius civile in territorio, lo stesso del can. 1529 rimasto immutato nell'attuale can. 1290, quindi l'interpretazione doveva essere univoca e riferirsi sempre alla legge regolatrice del rapporto obbligatorio (il senso del can. 33 §2 stava, quindi, nell'escludere che la disciplina canonica dei termini sostanziali impedisse l'applicazione di quella civile, confermando che il rinvio ex can. 1529 si estendeva anche ad essa). Ciò, tuttavia, lasciava intatto il problema dell'individuazione di tale legge, anzi semmai il can. 33 §2 forniva un argomento utile a sostenere che si trattasse sempre del luogo di esecuzione. Id., s.v. Canonizzazione delle leggi civili, in Digesto disc. pubbl., cit., rispetto al nuovo CIC osserva che “Per analogia con il can. 1714 si può forse dedurre che anche per i contratti in genere — per i quali il can. 1290 parla vagamente di 'lex civilis in territorio'  — la legge civile applicabile possa essere determinata dalla volontà delle parti, e, in mancanza, debba essere quella del luogo in cui il contratto è concluso”, non senza osservare, alla nt. 3, di aver già egli stesso segnalato come fosse impreciso il riferimento dell'allora can. 1529 e di intendere la disciplina più precisa dettata per gli Orientali dal m.p. Postquam Apostolicis, can. 278 §2, alla stregua di una “correzione” di esso. Ribadisce però: “Per la prescrizione estintiva (cann. 197-198 ecc.) e per i pagamenti (can. 1290) invano si cercherebbe nel c.i.c. un criterio per identificare la legge civile applicabile, fuori dei casi in cui si tratti di diritti o di pagamenti fondati su contratti, nel qual caso forse si dovrà applicare la legge civile che regola il contratto.”.

[23]  Peraltro e salvo miglior giudizio (dato che nessuno degli autori da me consultati si è espresso sul punto), siccome i diritti statali possono ritenere concluso il contratto in momenti e quindi anche in luoghi diversi, sarei dell'avviso che, se per il diritto canonico ciò che conta è l'idem placitum, allora il contractus dovrebbe considerarsi concluso nel momento e nel luogo in cui la proposta è accettata, quindi – diversamente dall'art. 1326 c.c. - la conoscenza dell'accettazione da parte del proponente atterrebbe già ad una fase successiva e il termine essenziale eventualmente da lui prefissato opererebbe, se non rispettato, come evento risolutivo di un vincolo comunque già prodottosi.

[24]  Non ritengo, invece, di accedere alla tesi che, per ritenuta analogia con il can. 1714, ritiene di applicare in primo luogo la legge scelta dalle parti (cfr. E. Nicolini, op. cit., pag. 13): di tale criterio non vi è traccia nel can. 1290 e si può ammetterlo solo quando sia consentito dalle norme di d.i.p. applicabili, da individuarsi però in termini di locus initi contractus.

[25]  Cfr. J. Otaduy, Perspectiva canónica del trust, in Ius Canonicum 55 (2015), pagg. 593-640.

[26]  Tuttavia, resta ferma l'esigenza di un atto scritto, almeno ricognitivo della disposizione verbale, quando si tratti di pie fondazioni (cfr. can. 1306 §1).

[27]  In tal senso, cfr. S. Romana Rota, dec. c. Heard 30 maggio 1953, Romana – Iurium, in SRRD 1953, n. LXIII, pagg. 405-12, dove peraltro, in attesa che all'ente compratore fosse riconosciuta la personalità giuridica in Italia, si era pattuito il differimento della registrazione del contratto ben oltre i termini allora imposti dalla legge tributaria a pena di nullità dell'atto. Il quale è stato comunque ritenuto valido sia iure naturali, sia perché lo scopo non era frodare la legge civile, ma salvare la canonica.

[28]  Che il diritto divino faccia parte integrante e anzi costitutiva dell'ordinamento canonico, operando quindi al e dal suo interno, sembrerebbe ovvio; eppure può essere opportuno precisarlo, giacché “occorre rilevare come buona parte della dottrina dei primi decenni del secolo scorso abbia trasmesso un’idea di separazione tra lo ius divinum e l’ordinamento canonico: due ordini 'giuridici' diversi, due sistemi separati che si toccano soltanto in alcune occasioni (ad esempio, quando il legislatore raccoglie esplicitamente nella sua legge un enunciato della legge divina), ma rimangono separati.”. J. Miñambres, op. cit., pag. 504, che richiama tre pesi massimi come Michiels, Van Hove e Wernz, aggiungendo poi un rimando alla concezione di Del Giudice.