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Caratteri del diritto penale

Il diritto penale costituisce, senza dubbio, il settore dell’ordinamento giuridico in cui più di altri è vivo il momento del contrasto tra la pretesa di osservanza dei precetti normativi e la manifestazione di una volontà contraria da parte di quei consociati che ritengono di non condividere il giudizio di valore negativo intorno alla necessità di salvaguardi di alcuni beni giuridici. Tuttavia, se negli altri rami del diritto appare normale l’uso della coazione quando ciò sia reso opportuno per ripristinare l’ordine giuridico violato dal mancato rispetto di una norma che comanda o vieta di agire in un certo mdo, nel diritto penale questo momento viene ad assumere una importanza fondamentale, poiché, attesa la rilevanza riconosciuta ai beni che si sogliono tutelare con la minaccia di applicazione della sanzione criminale, si giustifica una ingerenza piuttosto profonda nella sfera personale o patrimoniale dei soggetti, i quali, per questa via, vedono compresso il sistema di diritti e facoltà che l’ordinamento riconosce loro.

Ed, in effetti, la coazione nel diritto penale viene ad assumere più propriamente la denominazione di sanzione, se a questo termine si vuole riconoscere la manifestazione più eclatante della potestà punitiva degli organi statuali deputati alla cura dell’attività di prevenzione e repressione dei reati. Ma si tratta di una visione, per certi versi, superata, poiché oggi si ritiene, comunemente, che il fine del diritto penale non sia quello di apprestare una “giusta” punizione al soggetto che viola le regole dell’ordinamento giuridico, bensì quello di realizzare un complesso sistema di norme poste a tutela di valori fondamentali della nostra civiltà (ad esempio: la vita, la salute, l’ambiente, l’incolumità personale, ecc.), che i rimedi previsti dagli altri settori del diritto non sono in grado di garantire, essendo rimessi, in gran parte, alla disponibilità degli stessi soggetti dell’ordinamento e presentanti un grado di incidenza nella sfera giuridica dei “trasgressori” tali da non ottenere l’effetto deterrente di scoraggiare altri dal seguitare dal violare le regole.

Le sanzioni, che sono il mezzo attraverso il quale il diritto penale opera concretamente sulla persona e sul patrimonio dei soggetti, sono, pertanto, particolarmente gravose per chi viola i precetti del diritto penale, una gravosità senza la quale sia i precetti sia le sanzioni perderebbero rapidamente la loro capacità di indurre altri a non emulare i comportamenti tenuti dai soggetti che hanno violato le norme penali. Ma oltre alle sanzioni, ciò che caratterizza maggiormente il diritto penale dagli altri settori dell’ordinamento è che esso prevede l’uso della forza in una direzione totalmente diversa e per fini differenti rispetto all’uso che pure è previsto in altri rami, come ad esempio il diritto privato (si pensi, per un momento, alla necessità avvertita dal proprietario di un immobile che intenda, in seguito al positivo esperimento del procedimento di sfratto, rientrarne in possesso e chieda l’uso della forza pubblica ove colui che occupa senza titolo l’immobile si rifiuti di liberarlo libero da cose o persone nel termine che gli è stato intimato dal provvedimento giudiziale).

Negli altri rami del diritto, quindi, l’uso della forza risponde all’obiettivo di ottenere, in via di coazione, l’adempimento di uno specifico obbligo da parte del soggetto che non lo ha tenuto (si pensi, ancora, all’obbligo dello sfrattato di lasciare l’immobile che occupa senza titolo). Nel diritto penale, invece, non è rilevante detto obiettivo, perché il soggetto che ha violato un suo precetto ha recato pregiudizio ad un determinato bene giuridico, tutelato proprio attraverso la minaccia di applicazione della sanzione criminale. Quest’ultima, poi, viene applicata come dimostrazione dell’interesse dello Stato a reagire, in modo adeguato, ove si concretizzi la lesione di un bene così importante da essere protetto con la predisposizione di una misura sanzionatoria profondamente incidente nella sfera giuridica del trasgressore.

Si tratta, dunque, di una manifestazione di reazione, poiché l’ordinamento non può restare inerte ove si concretizzi la violazione di una norma penale o rimetterne, in ogni caso, la reazione ai soggetti lesi. Se anche ciò avviene in determinati casi (tale è l’ipotesi dei reati perseguibili a querela di parte), ove sia recato pregiudizio ad alcuni beni ritenuti meritevoli di una protezione rafforzata, l’iniziativa della loro tutela è dello Stato, anche nel caso in cui si manifestasse una coincidenza di interessi da parte dei soggetti danneggiati a vedere applicata la sanzione criminale al reo. Quando si concretizza una di queste ipotesi, si delinea l’interesse degli organi statuali a reprimere una condotta che se non efficacemente circoscritta rischierebbe, attraverso un perverso fenomeno di emulazione, di determinare la dissoluzione dell’organismo sociale. Ne deriva che il ruolo del diritto penale è quello di scongiurare, con gli strumenti di cui dispone, il verificarsi di comportamenti socialmente indesiderati, cioè di contegni che, sia pure condivisi dal soggetto che li pone in essere, sono avversati da tutti gli altri consociati, nel cui giudizio essi sono percepiti come dannosi rispetto alla loro personale sfera di interessi.

In questo modo, il sistema del controllo sociale può esplicare tutta la sua operatività attraverso un meccanismo di dissasione in grado di scoraggiare altri dal violare i precetti penale ed assicurare la salvaguardia del corpo sociale da quelle manifestazioni che, in concreto, possono presentare un contenuto potenzialmente distruttivo. La funzione di controllo, peraltro, come si è avuto modo di chiarire, non si esplica attraverso il ripristino della situazione conforme alle aspettative del sistema normativo (talvolta ciò può risultare impossibile, come nel caso del reato di omicidio da cui deriva la perdita irrimediabile di una vita umana) e neppure è affidata a strumenti direttamente impeditivi di tali comportamenti (compito, questo, semmai, riconosciuto alla polizia di sicurezza), ma riposa essenzialmente sulla minaccia di applicazione della sanzione criminale e sulla sua concreta inflizione per il caso di effettiva realizzazione del comportamento indesiderato.

La minaccia della sanzione penale concorre a scoraggiare altri dal violare i precetti stabiliti dal diritto penale e, quand’anche maturasse la violazione, la sua concreta appliazione ne ribadisce la validità e contribuisce a rafforzare nei destinatari la convinzione della obbligatorietà dei comandi giuridico-penali. Sotto questo profilo, quindi, il diritto penale costituisce la valvola di sicurezza del sistema, il quale sarebbe esposto al rischio della sua estinzione ove non fossero apprestati rimedi efficaci contro condotte non solo in contrasto con esso, ma potenzialmente deleterie per la sua stessa sopravvivenza.

Si è detto che la tutela offerta dal diritto penale è particolarmente intensa, perché penetra in maniera incisiva nella sfera personale e patrimoniale dei soggetti. Un così elevato grado di penetrazione, tuttavia, che determina una inevitabile compressione delle situazioni giuridiche soggettive tutelate dalla legge, può essere giustificato solo in considerazione della necessità di apprestare tutela alle situazioni particolarmente rilevanti e degli interessi che vi si connettono. Le entità tutelate, per questa via, dal diritto penale, si dicono beni giuridici, secondo la terminologia comunemente usata dalla dottrina contemporanea. Invero, anche il diritto amministrativo presenta, sotto un profilo molto limitato, assonanze con il meccanismo appena descritto. Esso, infatti, prevede talune misure sanzionatorie, di carattere disciplinare, miranti a prevenire e reprimere determinate condotte dei suoi operatori, ma se ne distingue sia per la qualità delle misure adottate su di essi sia per la competenza ad adottarle.

Non tutti i beni giuridici sono tutelati dal diritto penale, attesa la gravità delle conseguenze che derivano dall’inflizione in concreto delle misure sanzionatorie criminali. Quali di essi ricevono una tutela così intensa è la legge a stabilirlo, in ossequio al principio di legalità, sulla base delle scelte che il legislatore compie, dopo avere recepito le manifestazioni dei sistemi di valore su cui si fonda la comunità statuale. Si tratta, pertanto, di scelte di politica legislativa che riflettono la struttura della compagine sociale e degli ordinamenti che essa si è dati. E dal momento che i sistemi normativi risentono dei mutamenti occorsi nella società e per il progredire dei tempi, si può osservare come l’elenco dei beni giuridici tutelati dal diritto penale si modifichi in relazione ai bisogni e allo sviluppo della comunità, risentendo del progresso sociale, scientifico, culturale, tecnico ed economico. Detti cambiamenti possono, in base alle necessità avvertite dai consociati, esaltare le esigenze di protezione di taluni beni rispetto ad altri in seguito all’incidenza di determinati eventi (come nel caso delle guerre o di gravi calamità).

Si è accennato alla intrinseca gravità delle sanzioni penali, giustificate dalla necessità di apprestare quei rimedi indispensabili per la salvaguardia del corpo sociale e dell’ordinamento giuridico che questo si è dato. Alla loro applicazione consegue il sacrificio di una parte rilevante del complesso di garanzie dell’individuo e questo conduce alla riflessione che a siffatta conseguenza si arrivi solo ove ciò appaia effettivamente necessario, dovendo il diritto penale circoscrivere il suo intervento alla sfera di interessi che si percepiscono come assolutamente rilevanti. Una sua estensione in altri settori in cui le medesime esigenze non si ravvisano apparirebbe improprio e sproporzionato ove posto in relazione agli strumenti di tutela già presenti (si pensi, ad esempio, alla inutilità di reagire con una sanzione penale alla inosservanza di una clausola contrattuale, bastando, a questo scopo, le azioni previste dalla legge a tutela della parte adempiente, la quale può chiedere anche il ristoro dei danni subiti).

Ma l’applicazione del diritto penale ai settori nei quali esso è chiamato ad intervenire non è privo di giustificazione logica. Attesa la rilevanza dei beni che ci si accinge a tutelare con la minaccia della pena, è evidente come essa deve porsi, in relazione agli scopi di tutela predeterminati dalla legge, come assolutamente necessario, perché gli altri mezzi di protezione apprestati dall’ordinamento si rivelerebbero inefficaci o destinate a fallire. Il ricorso al diritto penale deve, quindi, porsi come l’unico mezzo adeguato agli scopi di difesa sociale fissati dalla legge o, secondo un altro punto di vista, il male minore rispetto all’inevitabile compressione della sfera dei diritti dei soggetti che si vedranno destinatari delle sue particolari misure.

In questo senso, si può cogliere un altro carattere del diritto penale, vale a dire la sua sussidiarietà rispetto agli altri settori dell’ordinamento guridico, nel senso che ad esso si assegna l’ultimo posto nella gerarchia degli strumenti giuridici del controllo sociale, caratterizzando le misure di ultima ratio. Ad ogni modo, come sopra precisato, la circostanza che ad esso si ricorra solo nel momento in cui si deve procedere all’inflizione di una misura punitiva, non ha nulla a che vedere con l’idea, oggi del tutto superata, che il diritto penale assolva solo ad una funzione sanzionatoria. Se così fosse si legittimerebbe una sua ingiustificata restrizione, demandolo allo svolgimento del ruolo di mero strumento rafforzativo dei precetti posti da altri rami dell’ordinamento giuridico. Ma è chiaro che al diritto penale non può essere assegnato il solo compito di rafforzare, attraverso la minaccia dell’applicazione della sanzione, comandi o divieti posti da altri rami del diritto, e in particolare del diritto privato.

Più di una ragione fanno propendere per la conclusione contraria. Innanzitutto, la circostanza che la regola penale è originaria, nel senso che il precetto che esso presenta non ha alcun collegamento con altre regole normative, che pure potrebbero inserirsi, a buon diritto, nel quadro del sistema del controllo sociale. Si pensi, per un momento, alle norme che sanzionano l’omicidio o a quelle che disciplinano i reati contro la persona. In questi casi, il precetto penale presenta un contenuto innovativo, che non si riscontra in altre regole, poiché oltre a quella dell’art. 575 c.p., nel nostro ordinamento, a nessun altra norma di legge viene assegnato il compito di precisare che il togliere la vita ad un’altra persona non è consentito, poiché significherebbe autorizzare la distruzione di uno degli elementi sulle cui sorti è costruito l’intero sistema, la tutela della cui incolumità viene assurta a rango di bene primario, stabilendosi in caso di violazione la concreta inflizione della sanzione giuridico-penale.

Ciò posto, è agevole comprendere che il precetto penale non trae la sua fonte dalle regole già predisposte da altri settori del diritto, ma viene a svolgere una propria ed autonoma funzione nel sistema del controllo sociale. Questa conclusione non può essere messa in discussione nei casi in cui esso tragga da altri rami del sistema normativo taluni presupposti della sua applicazione. Tale può essere il caso del reato di furto, sanzionato dall’art. 624 c.p. come la condotta di chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri. Questa disposizione opera un diretto riferimento al concetto di altruità della cosa sottratta illegittimamente. E l’altruità della cosa rimanda immediatamente all’idea della proprietà di cui all’art. 832 c.c., secondo cui il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo.

Ma al di là del collegamento che può sussistere tra questi due precetti, messi in correlazione dalla prospettiva della realizzazione di una condotta mirante a sottrarre in modo illegittimo la cosa appartenente ad un soggetto, non deve indurre nella credenza che la norma penale che tanto vieti sussista solo al mero scopo di rafforzare il precetto contenuto nell’art. 832 c.c. Con ciò si vuole dire che se è vero che per operare una configurazione dell’azione furtiva si presenta indispensabile fare riferimento alla norma civilistica che disciplina l’istituto della proprietà, è del tutto autonomo dagli altri settori del diritto il collegamento che viene a porsi, grazie alla norma penale, tra il fatto vietato (cioè, il reato) e la sua conseguenza (vale a dire, la sanzione in concreto applicabile: pena, misura di sicurezza). In definitiva, quindi, il comando “non rubare” espresso dalla norma sopra richiamata ha la sua fonte originaria ed esclusiva nell’art. 624 c.p., il quale assume l’azione furtiva fra le condotte per le quali, in caso di realizzazione, prevede quale conseguenza giuridica l’applicazione di una pena criminale.

Discende dal filo logico seguito finora che il diritto penale si presenta come un sistema di norme opportunamente frammentario: attesa, infatti, la gravità delle sanzioni minacciate in caso di non osservanza dei suoi precetti, una sua estensione ad ogni ambito della vita civile determinerebbe una frustrazione di quelle esigenze che normalmente si riconnettono ad una libera manifestazione delle attività consuete di ogni consociato. Pertanto, il diritto penale assume in considerazione solo alcune delle modalità di offesa al complesso dei beni giuridici , sicchè tra l’una e l’altra sogliono sopravvivere aree di operatività che risultano irrilevanti per il diritto penale o che si pongono rispetto ad esso in rapporto di indifferenza.

Questo ulteriore carattere del diritto penale non può che essere giudicato in termini positivi. Basti pensare all’ipotesi in cui si concretizzi la violazione di una clausola contrattuale. In questo caso, il sistema normativo mette a disposizione del privato adempiente adeguati strumenti per fare fronte al contegno di inadempimento tenuto dall’altra parte, giungendo a prevedere anche il risarcimento del danno, poiché l’art. 1218 c.c. richiede, opportunamente, che l’adempimento deve essere esatto, in modo tale da lasciare possibilità di reazione non solo quando esso sia mancato, ma anche quando le sue modalità di attuazione divergono da quelle concordate. Questi comportamenti, benchè rilevanti per il diritto privato (lo stesso può dirsi, ad esempio, per l’arricchimento senza causa), non sono rilevanti per il diritto penale, poiché dalla loro tenuta non emergono significativi profili di interesse tali da giustificare l’adozione delle pesanti misure di carattere sanzionatorio da esso disciplinate e minacciate nel caso di inosservanza delle sue disposizioni.

L’accenno alla frammentarietà delle disposizioni penali reca con sé un’altra riflessione. Il sistema normativo si compone di regole generali ed astratte, nella cui cornice sono racchiusi i molteplici accadimenti della vita sociale. La norma, sotto questo profilo, costruisce un modello ipotetico entro il quale possono trovare regolamento i tanti aspetti della vita quotidiana, onde fornire agli stessi un binario ragionevole e non distruttivo del vivere civile. Ed è proprio dal ripetersi di certe condotte, considerate potenzialmente pericolose per la sopravvivenza della struttura sociale, che sono stati configurati taluni comportamenti, il cui ripetersi nel tempo, ha suggerito l’apprestamento di misure idonee a prevenirne di nuovi. In breve, se il diritto penale, come gli altri settori del diritto, mira a disciplinare l’agire dei consociati, non deve essere sottaciuto il suo peculiare modo di farlo, attraverso la predisposizione di un massiccio sitema di tutela di alcuni beni giuridici, ritenuti così importanti da non poter essere adeguatemente protetti dalle normali misure di reazione previste da altri settori del diritto.

Per le caratteristiche passate in rassegna fino a questo momento, il diritto penale può apparire, più degli altri rami dell’ordinamento giuridico, come quello in cui più vivo si presenta la sua intima colleganza con precetti e principi appartenenti alla sfera morale. Anzi, in epoche passate, ove il confine tra la sfera laica e quella religiosa era quasi del tutto inesistente, era alla tutela di astratti principi della morale civile e religiosa che molti precetti penali venivano predisposti, talvolta minacciando sanzioni per condotte che oggi sono considerate penalmente irrilevanti. Oggi, tuttavia, la gran parte delle esperienze giuridiche moderne presentano, nei loro principi, una chiara linea di demarcazione tra i due ambiti, resa quanto mai opportuna al fine di evitare di correlare il sistema delle norme penali alla sua precipua funzione, vale a dire quella di disciplinare e indirizzare l’agire umano nella sfera sociale.

In tal modo, si può agevolmente comprendere come il diritto penale, al pari di qualsiasi altro sistema di norme giuridiche, sia estraneo all’idea di principio di ottenere la conformità dell’agire umano ad un astratto imperativo moraleggiante. Più di un elemento è utile per comprendere come questa linea di demarcazione sia qualcosa in più di una semplice affermazione di principio. In primo luogo, il diritto penale si dirige solo verso le azioni esterne dell’uomo ed è indifferente rispetto agli atteggiamenti interiori della volontà. Ciò fa capire come il profilo di stretto interesse della penalità investe la sfera sensibile, interessandosi delle sole modificazoni della realtà suscettibili di recare pregiudizio alla categoria di beni per questa via tutelati. In secondo luogo, il diritto penale si presenta indifferente rispetto al valore morale od immorale dei comportamenti in concreto tenuti, purchè essi siano conformi al diritto.

Per rendersi conto di ciò basta osservare che l’area interessata dal diritto penale è circoscritta alla mera azione compiuta e non ai motivi che l’hanno determinata. Così, ad esempio, chi agisce secondo i dettami del diritto penale sol perché teme di essere esposto, in caso di inosservanza, alle sue sanzioni, da un punto di vista morale, non agisce in modo corretto, poiché il fattore che lo ha indotto a comportarsi in questo modo è stato dominato dal timore di essere severamente punito in caso avesse agito in maniera diversa. Se questo tipo di giudizio è rilevante sul piano morale, per il diritto penale, invece, è del tutto irrilevante.

Al diritto penale interessa solo che i precetti siano osservati, non importa se per timore della sanzione ovvero per spirito spontaneo. Ad ogni modo, è anche possibile che chi viola la legge penale, lo fa perché spinto da un alto principio morale: si assiste, in questo caso, alla nascita di un conflitto tra le due sfere, che non sempre è irrilevante. Così, ad esempio, l’art. 62, n. 1, c.p. prevede, tra le varie circostanze attenuanti l’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Ciò, peraltro, non significa che il comportamento di chi così agisce sia penalmente irrilevante, ma gli alti principi che lo hanno animato vengono assunti in considerazione ove al reo venga applicata una diminuzione di pena, che non vi sarebbe stata in assenza dei principi sopra detti.

È chiaro, quindi, che l’influenza della sfera morale sul diritto penale è limitata ai soli casi in cui dal suo riscontro possono essere dedotti elementi che possono essere utilizzati nel giudizio di valore insito in ogni ipotesi penalmente rilevante. Ma questo tipo di giudizio è, tuttavia, estraneo alla predeterminazione dell’intervento penale. Quest’ultimo, infatti, è diretto alla esclusiva finalità di perseguire quegli scopi di difesa e sviluppo sociale che sono strettamente correlati ad una logica di bilanciamento tra costi e benefici, che è del tutto estranea alla considerazione dei comportamenti come approvati o riprovati secondo un giudizio di natura morale.

Ciò è indice di una diversità di fini che si pone secondo un rapporto di reciproca indifferenza e ove si verifichino incidenze, si delinea il recepimento da parte del diritto penale di elementi del giudizio morale nella valutazione di taluni comportamenti (si richiama, ancora, l’esempio dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 1, c.p.). Così delineati i rapporti tra la sfera morale e il mondo del diritto, si può tranquillamente respingere l’idea sostenuta da taluni, secondo cui le possibilità di un sistema penale di essere osservato dai consociati aumentano ove i suoi precetti appaiano conformi ai valori morali che caratterizzano il gruppo sociale, così come, nel caso inverso, un sistema di norme in aperto contrasto con alti principi dell’etica avrebbe poche chance di essere ubbidito. Ma anche in questo caso, la separazione non è assoluta.

Talvolta, infatti, può capitare che la legge possa assumere a base di una sua scelta un princpio di natura morale. Un esempio è offerto dall’art. 529 c.p., il quale, definisce come osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore. In questo caso, alla base del precetto normativo è posto un elemento proprio della sfera morale che assume una importanza decisiva ai fini dell’intervento punitivo dello Stato, legittimandolo. Ma ciò non vuol dire che, in questo particolare frangente, il diritto penale si sia posto in termini di proiezione di astratti contenuti etici. Vuol dire solo che, il comando o il divieto penale ha assunto nella sua considerazione un particolare bene giuridico (il pudore), al quale viene apprestata idonea tutela con la minaccia della sanzione.

Un altro aspetto in cui il diritto penale si presenta strettamente connesso con la sfera morale è quello relativo al processo di interiorizzazione dei suoi precetti, attraverso la costante osservanza delle regole per mezzo di esso prodotte. Se, infatti, come abbiamo visto, il diritto penale risente dei riflessi di astratti concetti etico-morali, non è men vero che proprio grazie alla consuetudine di ubbidienza ai suoi precetti, si realizza un rafforzamento di norme sociali preesistenti. In questo senso, si può dire, quindi, che il diritto penale esercita una funzione di orientamento culturale dei consociati. Ciò è reso possibile grazie alla stretta osservanza dei suoi precetti e dalla minaccia, in caso contrario, di rilevanti sanzioni di carattere giuridico-penale che penetrano a fondo nella sfera personale e patrimoniale dei soggetti.

La presa d’atto di questo processo di orientamento culturale non deve, però, indurre nella erronea credenza che al diritto penale sia richiesto di promuovere migliori condizioni di vita, attraverso la prevezione e repressione dei comportamenti socialmente riprovevoli, essendo estraneo alla sua sfera di interessi quello di farsi promotore di intenti propulsivi dell’agire dei consociati. Se ciò avviene, come prima osservato, dipende solo dalla stretta colleganza insita nella sua precipua funzione di assicurare la sopravvivenza del gruppo sociale da comportamenti distruttivi dei suoi fondamenti con la derivazione, talvolta, di natura etica di alcuni comandi o divieti da esso sanzionati. In questo senso, si comprende perché al diritto penale sia ricollegato un opportuno carattere di frammentarietà atteso che esso assume in considerazione solo alcune manifestazioni dell’agire comune, restando indifferente rispetto ad altre, non viste come potenziali minacce alla salvaguardia dei beni giuridici. Viceversa, se si dovesse riconoscere al diritto penale anche una funzione propulsiva o promozionale di comportamenti socialmente approvati, si innescherebbe un processo che vedrebbe una indebita estensione dei precetti penali anche in ambiti di stretta pertinenza di altri rami dell’ordinamento giuridico. Ciò induce alla ovvia considerazione che la coincidenza di alcuni fondamenti dei precetti penali con astratti valori di natura etico-morale è solo incidentale.

Un altro angolo visuale su cui conviene focalizzare la nostra attenzione in questo viaggio all’interno dei caratteri del diritto penale concerne uno dei corollari fondamentali del principio di legalità, vale a dire il principio di colpevolezza. Se, ai sensi del primo principio, infatti, nessuno può essere sottoposto a pena se non nei casi previsti dalla legge e solo ove il comportamento rimproverato sia previsto dalla legge come reato, è giocoforza concludere nel senso che anche i criteri in virtù dei quali è possibile attribuire a taluno una penale responsabilità siano legislativamente predeterminati. In caso contrario, ove il giudicante fosse libero di ricorrere a criteri di attribuzione lasciati alla sua discrezionalità si incorrerebbe in una palese violazione del principio di legalità, oltre a quello per cui il giudice, come gli altri soggetti dell’ordinamento giuridico, è sottoposto solo alla legge, benchè l’art. 104 Cost. sancisca il principio di autonomia della magistratura. Quest’ultimo, infatti, deve essere inteso come assenza di controlli e di imposizioni da parte di altri poteri dello Stato, ma non implica il riconoscimento di una affrancazione della sua soggezione alla legge e all’autorità del legislatore.

Il diritto penale, infine, deve essere considerato come una scienza umana. Il riferimento investe solamente il c.d. diritto penale oggettivo e si riassume nella sua tendenza a ricercare l’esatto significato delle sue regole e al fine di ricondurle ad un sistema generale di principi, primo fra tutti quello di ordine costituzionale. Compito della scienza del diritto penale è, dunque, quello di misurarsi con i problemi più rilevanti che possono inerire una qualsivoglia disciplina giuridica, come l’interpretazione dei precetti penali, l’individuazione delle sue lacune e la creazione di sistemi per colmarle e la eliminazione delle sue contraddizioni. Essa, inoltre, mette in luce le reciproche connessioni tra le regole del diritto penale e attraverso la scelta delle terminologie più appropriate ne chiarisce il senso e la portata ai suoi destinatari.

Il risultato ultimo dell’attività della scienza del diritto penale è, dunque, la predisposizione di una serie di concetti, i quali, attraverso la mediazione necessaria della legge, vengono imposti ai consociati nel perseguimento degli obiettivi di salvezza del gruppo sociale da ogni manifestazione distruttiva. In questo senso, deve riconoscersi al diritto penale il ruolo di vera e propria scienza dogmatica, in virtù della quale viene predisposto un ulteriore strumento di comprensione e di comunicazione del sistema normativo nel suo complesso e non solo limitato all’area di pertinenza del diritto penale.

Visto dall’angolo visuale della necessaria attività di prevenzione e repressione dei reati, cioè di quei comportamenti umani ai quali si associa un giudizio di valore negativo per la sopravvivenza del gruppo sociale, il diritto penale presenta una stretta connessione con un altro gruppo di scienze umane, vale a dire le c.d. scienze criminali, anzi in questo senso può essere visto anche come un approccio di carattere normativo al problema della devianza criminale, oggetto di quelle scienze che si preoccupano di individuare quei caratteri e quei sintomi, in virtù dei quali si sviluppano e si manifestano negli esseri umani quelle tendenze contrastanti con fondamentali valori del vivere civile e perciò da prevenire e reprimere. Ed è ovvio, che ciò che distingue il diritto penale da queste scienze è il suo profondo carattere di dettare regole di convivenza, le quali, se viste nel più ampio bacino delle scienze criminali, costituiscono solo uno dei diversi modi di affrontare il problema della devianza cui sopra si è accennato.

Un approccio solo empirico-naturalistico è offerto dalla criminologia, che si identifica nell’insieme organico delle conoscenze sperimentali sul reato, sul reo, sulla condotta sociale negativamente rilevante e sul suo controllo. Quest’ultima, però, se rapportata al diritto penale, può solo offrire uno spunto interessante finalizzato ad una migliore e più completa applicazione dei suoi precetti. Il punto di incontro tra l’approccio normativo e l’approccio naturalistico del problema della devianza criminale è, invece, offerto dalla c.d. politica criminale, che si identifica nelle scelte rimesse al legislatore di predisporre, dal punto di vista normativo, i rimedi più efficaci finalizzati alla risoluzione dei problemi emersi dai risultati delle due scienze anzidette.

Nella formulazione delle leggi, dunque, l’approccio orientato alla eliminazione degli elementi perturbanti della vita civile trova la sua espressione più compiuta e più di immediato contatto con i consociati, che proprio in virtù della mediazione della legge, devono ritenersi obbligati alla osservanza di quei precetti, la cui predisposizione è indispensabile per la salvaguardia del tessuto sociale. In questo contesto, non può non sottolinearsi l’aspirazione della scienza del diritto penale a superare la sua originaria soggezione alla politica criminale e di porsi su un eguale livello di rilevanza rispetto a quest’ultima nella misura in cui alla prima viene riconosciuto un non inferiore contributo alla determinazione dei precetti normativi. Si comprende, così, come il fine cui si perviene è quello di superare, una volta per tutte, la distinzione tra scienza del diritto penale e politica criminale ed assorbirne i caratteri in un’unica scienza umana, connotata da elementi comuni e fini omogenei.

Il diritto penale costituisce, senza dubbio, il settore dell’ordinamento giuridico in cui più di altri è vivo il momento del contrasto tra la pretesa di osservanza dei precetti normativi e la manifestazione di una volontà contraria da parte di quei consociati che ritengono di non condividere il giudizio di valore negativo intorno alla necessità di salvaguardi di alcuni beni giuridici. Tuttavia, se negli altri rami del diritto appare normale l’uso della coazione quando ciò sia reso opportuno per ripristinare l’ordine giuridico violato dal mancato rispetto di una norma che comanda o vieta di agire in un certo mdo, nel diritto penale questo momento viene ad assumere una importanza fondamentale, poiché, attesa la rilevanza riconosciuta ai beni che si sogliono tutelare con la minaccia di applicazione della sanzione criminale, si giustifica una ingerenza piuttosto profonda nella sfera personale o patrimoniale dei soggetti, i quali, per questa via, vedono compresso il sistema di diritti e facoltà che l’ordinamento riconosce loro.

Ed, in effetti, la coazione nel diritto penale viene ad assumere più propriamente la denominazione di sanzione, se a questo termine si vuole riconoscere la manifestazione più eclatante della potestà punitiva degli organi statuali deputati alla cura dell’attività di prevenzione e repressione dei reati. Ma si tratta di una visione, per certi versi, superata, poiché oggi si ritiene, comunemente, che il fine del diritto penale non sia quello di apprestare una “giusta” punizione al soggetto che viola le regole dell’ordinamento giuridico, bensì quello di realizzare un complesso sistema di norme poste a tutela di valori fondamentali della nostra civiltà (ad esempio: la vita, la salute, l’ambiente, l’incolumità personale, ecc.), che i rimedi previsti dagli altri settori del diritto non sono in grado di garantire, essendo rimessi, in gran parte, alla disponibilità degli stessi soggetti dell’ordinamento e presentanti un grado di incidenza nella sfera giuridica dei “trasgressori” tali da non ottenere l’effetto deterrente di scoraggiare altri dal seguitare dal violare le regole.

Le sanzioni, che sono il mezzo attraverso il quale il diritto penale opera concretamente sulla persona e sul patrimonio dei soggetti, sono, pertanto, particolarmente gravose per chi viola i precetti del diritto penale, una gravosità senza la quale sia i precetti sia le sanzioni perderebbero rapidamente la loro capacità di indurre altri a non emulare i comportamenti tenuti dai soggetti che hanno violato le norme penali. Ma oltre alle sanzioni, ciò che caratterizza maggiormente il diritto penale dagli altri settori dell’ordinamento è che esso prevede l’uso della forza in una direzione totalmente diversa e per fini differenti rispetto all’uso che pure è previsto in altri rami, come ad esempio il diritto privato (si pensi, per un momento, alla necessità avvertita dal proprietario di un immobile che intenda, in seguito al positivo esperimento del procedimento di sfratto, rientrarne in possesso e chieda l’uso della forza pubblica ove colui che occupa senza titolo l’immobile si rifiuti di liberarlo libero da cose o persone nel termine che gli è stato intimato dal provvedimento giudiziale).

Negli altri rami del diritto, quindi, l’uso della forza risponde all’obiettivo di ottenere, in via di coazione, l’adempimento di uno specifico obbligo da parte del soggetto che non lo ha tenuto (si pensi, ancora, all’obbligo dello sfrattato di lasciare l’immobile che occupa senza titolo). Nel diritto penale, invece, non è rilevante detto obiettivo, perché il soggetto che ha violato un suo precetto ha recato pregiudizio ad un determinato bene giuridico, tutelato proprio attraverso la minaccia di applicazione della sanzione criminale. Quest’ultima, poi, viene applicata come dimostrazione dell’interesse dello Stato a reagire, in modo adeguato, ove si concretizzi la lesione di un bene così importante da essere protetto con la predisposizione di una misura sanzionatoria profondamente incidente nella sfera giuridica del trasgressore.

Si tratta, dunque, di una manifestazione di reazione, poiché l’ordinamento non può restare inerte ove si concretizzi la violazione di una norma penale o rimetterne, in ogni caso, la reazione ai soggetti lesi. Se anche ciò avviene in determinati casi (tale è l’ipotesi dei reati perseguibili a querela di parte), ove sia recato pregiudizio ad alcuni beni ritenuti meritevoli di una protezione rafforzata, l’iniziativa della loro tutela è dello Stato, anche nel caso in cui si manifestasse una coincidenza di interessi da parte dei soggetti danneggiati a vedere applicata la sanzione criminale al reo. Quando si concretizza una di queste ipotesi, si delinea l’interesse degli organi statuali a reprimere una condotta che se non efficacemente circoscritta rischierebbe, attraverso un perverso fenomeno di emulazione, di determinare la dissoluzione dell’organismo sociale. Ne deriva che il ruolo del diritto penale è quello di scongiurare, con gli strumenti di cui dispone, il verificarsi di comportamenti socialmente indesiderati, cioè di contegni che, sia pure condivisi dal soggetto che li pone in essere, sono avversati da tutti gli altri consociati, nel cui giudizio essi sono percepiti come dannosi rispetto alla loro personale sfera di interessi.

In questo modo, il sistema del controllo sociale può esplicare tutta la sua operatività attraverso un meccanismo di dissasione in grado di scoraggiare altri dal violare i precetti penale ed assicurare la salvaguardia del corpo sociale da quelle manifestazioni che, in concreto, possono presentare un contenuto potenzialmente distruttivo. La funzione di controllo, peraltro, come si è avuto modo di chiarire, non si esplica attraverso il ripristino della situazione conforme alle aspettative del sistema normativo (talvolta ciò può risultare impossibile, come nel caso del reato di omicidio da cui deriva la perdita irrimediabile di una vita umana) e neppure è affidata a strumenti direttamente impeditivi di tali comportamenti (compito, questo, semmai, riconosciuto alla polizia di sicurezza), ma riposa essenzialmente sulla minaccia di applicazione della sanzione criminale e sulla sua concreta inflizione per il caso di effettiva realizzazione del comportamento indesiderato.

La minaccia della sanzione penale concorre a scoraggiare altri dal violare i precetti stabiliti dal diritto penale e, quand’anche maturasse la violazione, la sua concreta appliazione ne ribadisce la validità e contribuisce a rafforzare nei destinatari la convinzione della obbligatorietà dei comandi giuridico-penali. Sotto questo profilo, quindi, il diritto penale costituisce la valvola di sicurezza del sistema, il quale sarebbe esposto al rischio della sua estinzione ove non fossero apprestati rimedi efficaci contro condotte non solo in contrasto con esso, ma potenzialmente deleterie per la sua stessa sopravvivenza.

Si è detto che la tutela offerta dal diritto penale è particolarmente intensa, perché penetra in maniera incisiva nella sfera personale e patrimoniale dei soggetti. Un così elevato grado di penetrazione, tuttavia, che determina una inevitabile compressione delle situazioni giuridiche soggettive tutelate dalla legge, può essere giustificato solo in considerazione della necessità di apprestare tutela alle situazioni particolarmente rilevanti e degli interessi che vi si connettono. Le entità tutelate, per questa via, dal diritto penale, si dicono beni giuridici, secondo la terminologia comunemente usata dalla dottrina contemporanea. Invero, anche il diritto amministrativo presenta, sotto un profilo molto limitato, assonanze con il meccanismo appena descritto. Esso, infatti, prevede talune misure sanzionatorie, di carattere disciplinare, miranti a prevenire e reprimere determinate condotte dei suoi operatori, ma se ne distingue sia per la qualità delle misure adottate su di essi sia per la competenza ad adottarle.

Non tutti i beni giuridici sono tutelati dal diritto penale, attesa la gravità delle conseguenze che derivano dall’inflizione in concreto delle misure sanzionatorie criminali. Quali di essi ricevono una tutela così intensa è la legge a stabilirlo, in ossequio al principio di legalità, sulla base delle scelte che il legislatore compie, dopo avere recepito le manifestazioni dei sistemi di valore su cui si fonda la comunità statuale. Si tratta, pertanto, di scelte di politica legislativa che riflettono la struttura della compagine sociale e degli ordinamenti che essa si è dati. E dal momento che i sistemi normativi risentono dei mutamenti occorsi nella società e per il progredire dei tempi, si può osservare come l’elenco dei beni giuridici tutelati dal diritto penale si modifichi in relazione ai bisogni e allo sviluppo della comunità, risentendo del progresso sociale, scientifico, culturale, tecnico ed economico. Detti cambiamenti possono, in base alle necessità avvertite dai consociati, esaltare le esigenze di protezione di taluni beni rispetto ad altri in seguito all’incidenza di determinati eventi (come nel caso delle guerre o di gravi calamità).

Si è accennato alla intrinseca gravità delle sanzioni penali, giustificate dalla necessità di apprestare quei rimedi indispensabili per la salvaguardia del corpo sociale e dell’ordinamento giuridico che questo si è dato. Alla loro applicazione consegue il sacrificio di una parte rilevante del complesso di garanzie dell’individuo e questo conduce alla riflessione che a siffatta conseguenza si arrivi solo ove ciò appaia effettivamente necessario, dovendo il diritto penale circoscrivere il suo intervento alla sfera di interessi che si percepiscono come assolutamente rilevanti. Una sua estensione in altri settori in cui le medesime esigenze non si ravvisano apparirebbe improprio e sproporzionato ove posto in relazione agli strumenti di tutela già presenti (si pensi, ad esempio, alla inutilità di reagire con una sanzione penale alla inosservanza di una clausola contrattuale, bastando, a questo scopo, le azioni previste dalla legge a tutela della parte adempiente, la quale può chiedere anche il ristoro dei danni subiti).

Ma l’applicazione del diritto penale ai settori nei quali esso è chiamato ad intervenire non è privo di giustificazione logica. Attesa la rilevanza dei beni che ci si accinge a tutelare con la minaccia della pena, è evidente come essa deve porsi, in relazione agli scopi di tutela predeterminati dalla legge, come assolutamente necessario, perché gli altri mezzi di protezione apprestati dall’ordinamento si rivelerebbero inefficaci o destinate a fallire. Il ricorso al diritto penale deve, quindi, porsi come l’unico mezzo adeguato agli scopi di difesa sociale fissati dalla legge o, secondo un altro punto di vista, il male minore rispetto all’inevitabile compressione della sfera dei diritti dei soggetti che si vedranno destinatari delle sue particolari misure.

In questo senso, si può cogliere un altro carattere del diritto penale, vale a dire la sua sussidiarietà rispetto agli altri settori dell’ordinamento guridico, nel senso che ad esso si assegna l’ultimo posto nella gerarchia degli strumenti giuridici del controllo sociale, caratterizzando le misure di ultima ratio. Ad ogni modo, come sopra precisato, la circostanza che ad esso si ricorra solo nel momento in cui si deve procedere all’inflizione di una misura punitiva, non ha nulla a che vedere con l’idea, oggi del tutto superata, che il diritto penale assolva solo ad una funzione sanzionatoria. Se così fosse si legittimerebbe una sua ingiustificata restrizione, demandolo allo svolgimento del ruolo di mero strumento rafforzativo dei precetti posti da altri rami dell’ordinamento giuridico. Ma è chiaro che al diritto penale non può essere assegnato il solo compito di rafforzare, attraverso la minaccia dell’applicazione della sanzione, comandi o divieti posti da altri rami del diritto, e in particolare del diritto privato.

Più di una ragione fanno propendere per la conclusione contraria. Innanzitutto, la circostanza che la regola penale è originaria, nel senso che il precetto che esso presenta non ha alcun collegamento con altre regole normative, che pure potrebbero inserirsi, a buon diritto, nel quadro del sistema del controllo sociale. Si pensi, per un momento, alle norme che sanzionano l’omicidio o a quelle che disciplinano i reati contro la persona. In questi casi, il precetto penale presenta un contenuto innovativo, che non si riscontra in altre regole, poiché oltre a quella dell’art. 575 c.p., nel nostro ordinamento, a nessun altra norma di legge viene assegnato il compito di precisare che il togliere la vita ad un’altra persona non è consentito, poiché significherebbe autorizzare la distruzione di uno degli elementi sulle cui sorti è costruito l’intero sistema, la tutela della cui incolumità viene assurta a rango di bene primario, stabilendosi in caso di violazione la concreta inflizione della sanzione giuridico-penale.

Ciò posto, è agevole comprendere che il precetto penale non trae la sua fonte dalle regole già predisposte da altri settori del diritto, ma viene a svolgere una propria ed autonoma funzione nel sistema del controllo sociale. Questa conclusione non può essere messa in discussione nei casi in cui esso tragga da altri rami del sistema normativo taluni presupposti della sua applicazione. Tale può essere il caso del reato di furto, sanzionato dall’art. 624 c.p. come la condotta di chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri. Questa disposizione opera un diretto riferimento al concetto di altruità della cosa sottratta illegittimamente. E l’altruità della cosa rimanda immediatamente all’idea della proprietà di cui all’art. 832 c.c., secondo cui il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo.

Ma al di là del collegamento che può sussistere tra questi due precetti, messi in correlazione dalla prospettiva della realizzazione di una condotta mirante a sottrarre in modo illegittimo la cosa appartenente ad un soggetto, non deve indurre nella credenza che la norma penale che tanto vieti sussista solo al mero scopo di rafforzare il precetto contenuto nell’art. 832 c.c. Con ciò si vuole dire che se è vero che per operare una configurazione dell’azione furtiva si presenta indispensabile fare riferimento alla norma civilistica che disciplina l’istituto della proprietà, è del tutto autonomo dagli altri settori del diritto il collegamento che viene a porsi, grazie alla norma penale, tra il fatto vietato (cioè, il reato) e la sua conseguenza (vale a dire, la sanzione in concreto applicabile: pena, misura di sicurezza). In definitiva, quindi, il comando “non rubare” espresso dalla norma sopra richiamata ha la sua fonte originaria ed esclusiva nell’art. 624 c.p., il quale assume l’azione furtiva fra le condotte per le quali, in caso di realizzazione, prevede quale conseguenza giuridica l’applicazione di una pena criminale.

Discende dal filo logico seguito finora che il diritto penale si presenta come un sistema di norme opportunamente frammentario: attesa, infatti, la gravità delle sanzioni minacciate in caso di non osservanza dei suoi precetti, una sua estensione ad ogni ambito della vita civile determinerebbe una frustrazione di quelle esigenze che normalmente si riconnettono ad una libera manifestazione delle attività consuete di ogni consociato. Pertanto, il diritto penale assume in considerazione solo alcune delle modalità di offesa al complesso dei beni giuridici , sicchè tra l’una e l’altra sogliono sopravvivere aree di operatività che risultano irrilevanti per il diritto penale o che si pongono rispetto ad esso in rapporto di indifferenza.

Questo ulteriore carattere del diritto penale non può che essere giudicato in termini positivi. Basti pensare all’ipotesi in cui si concretizzi la violazione di una clausola contrattuale. In questo caso, il sistema normativo mette a disposizione del privato adempiente adeguati strumenti per fare fronte al contegno di inadempimento tenuto dall’altra parte, giungendo a prevedere anche il risarcimento del danno, poiché l’art. 1218 c.c. richiede, opportunamente, che l’adempimento deve essere esatto, in modo tale da lasciare possibilità di reazione non solo quando esso sia mancato, ma anche quando le sue modalità di attuazione divergono da quelle concordate. Questi comportamenti, benchè rilevanti per il diritto privato (lo stesso può dirsi, ad esempio, per l’arricchimento senza causa), non sono rilevanti per il diritto penale, poiché dalla loro tenuta non emergono significativi profili di interesse tali da giustificare l’adozione delle pesanti misure di carattere sanzionatorio da esso disciplinate e minacciate nel caso di inosservanza delle sue disposizioni.

L’accenno alla frammentarietà delle disposizioni penali reca con sé un’altra riflessione. Il sistema normativo si compone di regole generali ed astratte, nella cui cornice sono racchiusi i molteplici accadimenti della vita sociale. La norma, sotto questo profilo, costruisce un modello ipotetico entro il quale possono trovare regolamento i tanti aspetti della vita quotidiana, onde fornire agli stessi un binario ragionevole e non distruttivo del vivere civile. Ed è proprio dal ripetersi di certe condotte, considerate potenzialmente pericolose per la sopravvivenza della struttura sociale, che sono stati configurati taluni comportamenti, il cui ripetersi nel tempo, ha suggerito l’apprestamento di misure idonee a prevenirne di nuovi. In breve, se il diritto penale, come gli altri settori del diritto, mira a disciplinare l’agire dei consociati, non deve essere sottaciuto il suo peculiare modo di farlo, attraverso la predisposizione di un massiccio sitema di tutela di alcuni beni giuridici, ritenuti così importanti da non poter essere adeguatemente protetti dalle normali misure di reazione previste da altri settori del diritto.

Per le caratteristiche passate in rassegna fino a questo momento, il diritto penale può apparire, più degli altri rami dell’ordinamento giuridico, come quello in cui più vivo si presenta la sua intima colleganza con precetti e principi appartenenti alla sfera morale. Anzi, in epoche passate, ove il confine tra la sfera laica e quella religiosa era quasi del tutto inesistente, era alla tutela di astratti principi della morale civile e religiosa che molti precetti penali venivano predisposti, talvolta minacciando sanzioni per condotte che oggi sono considerate penalmente irrilevanti. Oggi, tuttavia, la gran parte delle esperienze giuridiche moderne presentano, nei loro principi, una chiara linea di demarcazione tra i due ambiti, resa quanto mai opportuna al fine di evitare di correlare il sistema delle norme penali alla sua precipua funzione, vale a dire quella di disciplinare e indirizzare l’agire umano nella sfera sociale.

In tal modo, si può agevolmente comprendere come il diritto penale, al pari di qualsiasi altro sistema di norme giuridiche, sia estraneo all’idea di principio di ottenere la conformità dell’agire umano ad un astratto imperativo moraleggiante. Più di un elemento è utile per comprendere come questa linea di demarcazione sia qualcosa in più di una semplice affermazione di principio. In primo luogo, il diritto penale si dirige solo verso le azioni esterne dell’uomo ed è indifferente rispetto agli atteggiamenti interiori della volontà. Ciò fa capire come il profilo di stretto interesse della penalità investe la sfera sensibile, interessandosi delle sole modificazoni della realtà suscettibili di recare pregiudizio alla categoria di beni per questa via tutelati. In secondo luogo, il diritto penale si presenta indifferente rispetto al valore morale od immorale dei comportamenti in concreto tenuti, purchè essi siano conformi al diritto.

Per rendersi conto di ciò basta osservare che l’area interessata dal diritto penale è circoscritta alla mera azione compiuta e non ai motivi che l’hanno determinata. Così, ad esempio, chi agisce secondo i dettami del diritto penale sol perché teme di essere esposto, in caso di inosservanza, alle sue sanzioni, da un punto di vista morale, non agisce in modo corretto, poiché il fattore che lo ha indotto a comportarsi in questo modo è stato dominato dal timore di essere severamente punito in caso avesse agito in maniera diversa. Se questo tipo di giudizio è rilevante sul piano morale, per il diritto penale, invece, è del tutto irrilevante.

Al diritto penale interessa solo che i precetti siano osservati, non importa se per timore della sanzione ovvero per spirito spontaneo. Ad ogni modo, è anche possibile che chi viola la legge penale, lo fa perché spinto da un alto principio morale: si assiste, in questo caso, alla nascita di un conflitto tra le due sfere, che non sempre è irrilevante. Così, ad esempio, l’art. 62, n. 1, c.p. prevede, tra le varie circostanze attenuanti l’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale. Ciò, peraltro, non significa che il comportamento di chi così agisce sia penalmente irrilevante, ma gli alti principi che lo hanno animato vengono assunti in considerazione ove al reo venga applicata una diminuzione di pena, che non vi sarebbe stata in assenza dei principi sopra detti.

È chiaro, quindi, che l’influenza della sfera morale sul diritto penale è limitata ai soli casi in cui dal suo riscontro possono essere dedotti elementi che possono essere utilizzati nel giudizio di valore insito in ogni ipotesi penalmente rilevante. Ma questo tipo di giudizio è, tuttavia, estraneo alla predeterminazione dell’intervento penale. Quest’ultimo, infatti, è diretto alla esclusiva finalità di perseguire quegli scopi di difesa e sviluppo sociale che sono strettamente correlati ad una logica di bilanciamento tra costi e benefici, che è del tutto estranea alla considerazione dei comportamenti come approvati o riprovati secondo un giudizio di natura morale.

Ciò è indice di una diversità di fini che si pone secondo un rapporto di reciproca indifferenza e ove si verifichino incidenze, si delinea il recepimento da parte del diritto penale di elementi del giudizio morale nella valutazione di taluni comportamenti (si richiama, ancora, l’esempio dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 1, c.p.). Così delineati i rapporti tra la sfera morale e il mondo del diritto, si può tranquillamente respingere l’idea sostenuta da taluni, secondo cui le possibilità di un sistema penale di essere osservato dai consociati aumentano ove i suoi precetti appaiano conformi ai valori morali che caratterizzano il gruppo sociale, così come, nel caso inverso, un sistema di norme in aperto contrasto con alti principi dell’etica avrebbe poche chance di essere ubbidito. Ma anche in questo caso, la separazione non è assoluta.

Talvolta, infatti, può capitare che la legge possa assumere a base di una sua scelta un princpio di natura morale. Un esempio è offerto dall’art. 529 c.p., il quale, definisce come osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore. In questo caso, alla base del precetto normativo è posto un elemento proprio della sfera morale che assume una importanza decisiva ai fini dell’intervento punitivo dello Stato, legittimandolo. Ma ciò non vuol dire che, in questo particolare frangente, il diritto penale si sia posto in termini di proiezione di astratti contenuti etici. Vuol dire solo che, il comando o il divieto penale ha assunto nella sua considerazione un particolare bene giuridico (il pudore), al quale viene apprestata idonea tutela con la minaccia della sanzione.

Un altro aspetto in cui il diritto penale si presenta strettamente connesso con la sfera morale è quello relativo al processo di interiorizzazione dei suoi precetti, attraverso la costante osservanza delle regole per mezzo di esso prodotte. Se, infatti, come abbiamo visto, il diritto penale risente dei riflessi di astratti concetti etico-morali, non è men vero che proprio grazie alla consuetudine di ubbidienza ai suoi precetti, si realizza un rafforzamento di norme sociali preesistenti. In questo senso, si può dire, quindi, che il diritto penale esercita una funzione di orientamento culturale dei consociati. Ciò è reso possibile grazie alla stretta osservanza dei suoi precetti e dalla minaccia, in caso contrario, di rilevanti sanzioni di carattere giuridico-penale che penetrano a fondo nella sfera personale e patrimoniale dei soggetti.

La presa d’atto di questo processo di orientamento culturale non deve, però, indurre nella erronea credenza che al diritto penale sia richiesto di promuovere migliori condizioni di vita, attraverso la prevezione e repressione dei comportamenti socialmente riprovevoli, essendo estraneo alla sua sfera di interessi quello di farsi promotore di intenti propulsivi dell’agire dei consociati. Se ciò avviene, come prima osservato, dipende solo dalla stretta colleganza insita nella sua precipua funzione di assicurare la sopravvivenza del gruppo sociale da comportamenti distruttivi dei suoi fondamenti con la derivazione, talvolta, di natura etica di alcuni comandi o divieti da esso sanzionati. In questo senso, si comprende perché al diritto penale sia ricollegato un opportuno carattere di frammentarietà atteso che esso assume in considerazione solo alcune manifestazioni dell’agire comune, restando indifferente rispetto ad altre, non viste come potenziali minacce alla salvaguardia dei beni giuridici. Viceversa, se si dovesse riconoscere al diritto penale anche una funzione propulsiva o promozionale di comportamenti socialmente approvati, si innescherebbe un processo che vedrebbe una indebita estensione dei precetti penali anche in ambiti di stretta pertinenza di altri rami dell’ordinamento giuridico. Ciò induce alla ovvia considerazione che la coincidenza di alcuni fondamenti dei precetti penali con astratti valori di natura etico-morale è solo incidentale.

Un altro angolo visuale su cui conviene focalizzare la nostra attenzione in questo viaggio all’interno dei caratteri del diritto penale concerne uno dei corollari fondamentali del principio di legalità, vale a dire il principio di colpevolezza. Se, ai sensi del primo principio, infatti, nessuno può essere sottoposto a pena se non nei casi previsti dalla legge e solo ove il comportamento rimproverato sia previsto dalla legge come reato, è giocoforza concludere nel senso che anche i criteri in virtù dei quali è possibile attribuire a taluno una penale responsabilità siano legislativamente predeterminati. In caso contrario, ove il giudicante fosse libero di ricorrere a criteri di attribuzione lasciati alla sua discrezionalità si incorrerebbe in una palese violazione del principio di legalità, oltre a quello per cui il giudice, come gli altri soggetti dell’ordinamento giuridico, è sottoposto solo alla legge, benchè l’art. 104 Cost. sancisca il principio di autonomia della magistratura. Quest’ultimo, infatti, deve essere inteso come assenza di controlli e di imposizioni da parte di altri poteri dello Stato, ma non implica il riconoscimento di una affrancazione della sua soggezione alla legge e all’autorità del legislatore.

Il diritto penale, infine, deve essere considerato come una scienza umana. Il riferimento investe solamente il c.d. diritto penale oggettivo e si riassume nella sua tendenza a ricercare l’esatto significato delle sue regole e al fine di ricondurle ad un sistema generale di principi, primo fra tutti quello di ordine costituzionale. Compito della scienza del diritto penale è, dunque, quello di misurarsi con i problemi più rilevanti che possono inerire una qualsivoglia disciplina giuridica, come l’interpretazione dei precetti penali, l’individuazione delle sue lacune e la creazione di sistemi per colmarle e la eliminazione delle sue contraddizioni. Essa, inoltre, mette in luce le reciproche connessioni tra le regole del diritto penale e attraverso la scelta delle terminologie più appropriate ne chiarisce il senso e la portata ai suoi destinatari.

Il risultato ultimo dell’attività della scienza del diritto penale è, dunque, la predisposizione di una serie di concetti, i quali, attraverso la mediazione necessaria della legge, vengono imposti ai consociati nel perseguimento degli obiettivi di salvezza del gruppo sociale da ogni manifestazione distruttiva. In questo senso, deve riconoscersi al diritto penale il ruolo di vera e propria scienza dogmatica, in virtù della quale viene predisposto un ulteriore strumento di comprensione e di comunicazione del sistema normativo nel suo complesso e non solo limitato all’area di pertinenza del diritto penale.

Visto dall’angolo visuale della necessaria attività di prevenzione e repressione dei reati, cioè di quei comportamenti umani ai quali si associa un giudizio di valore negativo per la sopravvivenza del gruppo sociale, il diritto penale presenta una stretta connessione con un altro gruppo di scienze umane, vale a dire le c.d. scienze criminali, anzi in questo senso può essere visto anche come un approccio di carattere normativo al problema della devianza criminale, oggetto di quelle scienze che si preoccupano di individuare quei caratteri e quei sintomi, in virtù dei quali si sviluppano e si manifestano negli esseri umani quelle tendenze contrastanti con fondamentali valori del vivere civile e perciò da prevenire e reprimere. Ed è ovvio, che ciò che distingue il diritto penale da queste scienze è il suo profondo carattere di dettare regole di convivenza, le quali, se viste nel più ampio bacino delle scienze criminali, costituiscono solo uno dei diversi modi di affrontare il problema della devianza cui sopra si è accennato.

Un approccio solo empirico-naturalistico è offerto dalla criminologia, che si identifica nell’insieme organico delle conoscenze sperimentali sul reato, sul reo, sulla condotta sociale negativamente rilevante e sul suo controllo. Quest’ultima, però, se rapportata al diritto penale, può solo offrire uno spunto interessante finalizzato ad una migliore e più completa applicazione dei suoi precetti. Il punto di incontro tra l’approccio normativo e l’approccio naturalistico del problema della devianza criminale è, invece, offerto dalla c.d. politica criminale, che si identifica nelle scelte rimesse al legislatore di predisporre, dal punto di vista normativo, i rimedi più efficaci finalizzati alla risoluzione dei problemi emersi dai risultati delle due scienze anzidette.

Nella formulazione delle leggi, dunque, l’approccio orientato alla eliminazione degli elementi perturbanti della vita civile trova la sua espressione più compiuta e più di immediato contatto con i consociati, che proprio in virtù della mediazione della legge, devono ritenersi obbligati alla osservanza di quei precetti, la cui predisposizione è indispensabile per la salvaguardia del tessuto sociale. In questo contesto, non può non sottolinearsi l’aspirazione della scienza del diritto penale a superare la sua originaria soggezione alla politica criminale e di porsi su un eguale livello di rilevanza rispetto a quest’ultima nella misura in cui alla prima viene riconosciuto un non inferiore contributo alla determinazione dei precetti normativi. Si comprende, così, come il fine cui si perviene è quello di superare, una volta per tutte, la distinzione tra scienza del diritto penale e politica criminale ed assorbirne i caratteri in un’unica scienza umana, connotata da elementi comuni e fini omogenei.