Cassazione Civile: il danno per illecita pubblicazione dell’immagine altrui va provato
La Cassazione condivide il suddetto principio "pur con alcune precisazioni, rimaste nella citata decisione non formulate".
Prosegue la Cassazione "rileva il Collegio che quando la lesione del diritto all’immagine è stata arrecata dalla pubblicazione di fotografie che non si dovevano pubblicare perché la persona fotografata non era d’accordo per la pubblicazione, il fatto che l’interesse della persona che è stato leso sia rappresentato proprio dal particolare aspetto del diritto all’immagine rappresentato dal tener riservata la rappresentazione fotografica e ad escluderne la fruibilità da parte di terzi, e, dunque, la conseguente certezza che la persona non avrebbe commercializzato la rappresentazione fotografica, non è di per sé ostativo a che quella persona possa allegare l’esistenza di un danno rappresentato dall’utilità che avrebbe potuto conseguire se chi ha utilizzato indebitamente le fotografie avesse dovuto pagare il suo consenso. E’ sufficiente osservare che, appartenendo la scelta della pubblicazione delle fotografie esclusivamente alla persona fotografata ed essendo scelta suscettibile di ripensamento nel tempo, se del caso anche in dipendenza delle vicende della professione od anche soltanto dell’evoluzione dei tempi, ad escludere che si configuri come danno conseguenza il non aver ottenuto l’utilità che sarebbe derivata dal prezzo del consenso non sarebbe potuta valere la scelta fatta al momento dell’utilizzazione di non volere la pubblicazione delle foto. Ritenere altrimenti, sarebbe contrario alla stessa logica di una situazione personalissima come quella del diritto all’immagine, che non si cristallizza nell’atteggiarsi della volontà del soggetto in un dato momento, ma, proprio per la sua natura, dev’essere a lui garantita anche nella possibilità ch’egli nel tempo possa mutare convincimento ed indirizzarsi altrimenti.
Ciò chiarito, si deve rilevare che tutte le ipotesi di possibile danno patrimoniale innanzi indicate o talune di esse o anche soltanto l’ultima di esse avrebbero dovuto, comunque, essere oggetto di allegazione da parte della Tizia. Inenerendo il danno patrimoniale conseguenza dell’illecito rappresentato dall’utilizzazione indebita dell’immagine, quale danno evento, all’ambito dei fatti costitutivi della domanda di risarcimento danni, esso dev’essere allegato dal soggetto leso e non può certo essere individuato ed introdotto d’ufficio da parte del giudice e ciò nemmeno attraverso il potere di liquidazione equitativa del danno, di cui all’art. 2056 c.c., giacché questo potere concerne la quantificazione del danno e non l’individuazione del danno.
Nella specie nel ricorso (tanto nell’illustrare il motivo, quanto indirettamente nelle allegazioni con cui si enuncia il fatto sostanziale e processuale), non si dice alcunché in ordine a quelle che erano state le allegazioni della Tizia in punto di individuazione del danno patrimoniale. In tale situazione la cassazione della sentenza, là dove ha motivato il disconoscimento del danno patrimoniale anzitutto "nel non avere minimamente l’appellante provato la sussistenza" ed in secondo luogo "l’entità di un nocumento di carattere patrimoniale", non appare in alcun modo possibile, perché la carenza di individuazione di quella che era la situazione in punto di alIegazioni a sostegno della domanda risarcitoria del danno patrimoniale prospettata dalla Tizia impedisce di apprezzare la motivazione qui censurata come motivazione che, pur di fronte ad allegazioni di danno patrimoniale come quelle sopra ipotizzate e, in ultima analisi, di un’allegazione come danno patrimoniale del danno da perdita dell’utilità che avrebbe assicurato un pagamento del consenso alla pubblicazione delle foto, si è rifiutata di riconoscere l’esistenza del danno".
In conclusione: "lnvero, se non si sa quel era stato il danno patrimoniale lamentato con la domanda, non è possibile in alcun modo valutare la correttezza dell’affermazione della sentenza impugnata che esso non era stato provato nell’an (e, subordinatarnente, nel quantum)".
(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 6 maggio 2010, n.10957).
La Cassazione condivide il suddetto principio "pur con alcune precisazioni, rimaste nella citata decisione non formulate".
Prosegue la Cassazione "rileva il Collegio che quando la lesione del diritto all’immagine è stata arrecata dalla pubblicazione di fotografie che non si dovevano pubblicare perché la persona fotografata non era d’accordo per la pubblicazione, il fatto che l’interesse della persona che è stato leso sia rappresentato proprio dal particolare aspetto del diritto all’immagine rappresentato dal tener riservata la rappresentazione fotografica e ad escluderne la fruibilità da parte di terzi, e, dunque, la conseguente certezza che la persona non avrebbe commercializzato la rappresentazione fotografica, non è di per sé ostativo a che quella persona possa allegare l’esistenza di un danno rappresentato dall’utilità che avrebbe potuto conseguire se chi ha utilizzato indebitamente le fotografie avesse dovuto pagare il suo consenso. E’ sufficiente osservare che, appartenendo la scelta della pubblicazione delle fotografie esclusivamente alla persona fotografata ed essendo scelta suscettibile di ripensamento nel tempo, se del caso anche in dipendenza delle vicende della professione od anche soltanto dell’evoluzione dei tempi, ad escludere che si configuri come danno conseguenza il non aver ottenuto l’utilità che sarebbe derivata dal prezzo del consenso non sarebbe potuta valere la scelta fatta al momento dell’utilizzazione di non volere la pubblicazione delle foto. Ritenere altrimenti, sarebbe contrario alla stessa logica di una situazione personalissima come quella del diritto all’immagine, che non si cristallizza nell’atteggiarsi della volontà del soggetto in un dato momento, ma, proprio per la sua natura, dev’essere a lui garantita anche nella possibilità ch’egli nel tempo possa mutare convincimento ed indirizzarsi altrimenti.
Ciò chiarito, si deve rilevare che tutte le ipotesi di possibile danno patrimoniale innanzi indicate o talune di esse o anche soltanto l’ultima di esse avrebbero dovuto, comunque, essere oggetto di allegazione da parte della Tizia. Inenerendo il danno patrimoniale conseguenza dell’illecito rappresentato dall’utilizzazione indebita dell’immagine, quale danno evento, all’ambito dei fatti costitutivi della domanda di risarcimento danni, esso dev’essere allegato dal soggetto leso e non può certo essere individuato ed introdotto d’ufficio da parte del giudice e ciò nemmeno attraverso il potere di liquidazione equitativa del danno, di cui all’art. 2056 c.c., giacché questo potere concerne la quantificazione del danno e non l’individuazione del danno.
Nella specie nel ricorso (tanto nell’illustrare il motivo, quanto indirettamente nelle allegazioni con cui si enuncia il fatto sostanziale e processuale), non si dice alcunché in ordine a quelle che erano state le allegazioni della Tizia in punto di individuazione del danno patrimoniale. In tale situazione la cassazione della sentenza, là dove ha motivato il disconoscimento del danno patrimoniale anzitutto "nel non avere minimamente l’appellante provato la sussistenza" ed in secondo luogo "l’entità di un nocumento di carattere patrimoniale", non appare in alcun modo possibile, perché la carenza di individuazione di quella che era la situazione in punto di alIegazioni a sostegno della domanda risarcitoria del danno patrimoniale prospettata dalla Tizia impedisce di apprezzare la motivazione qui censurata come motivazione che, pur di fronte ad allegazioni di danno patrimoniale come quelle sopra ipotizzate e, in ultima analisi, di un’allegazione come danno patrimoniale del danno da perdita dell’utilità che avrebbe assicurato un pagamento del consenso alla pubblicazione delle foto, si è rifiutata di riconoscere l’esistenza del danno".
In conclusione: "lnvero, se non si sa quel era stato il danno patrimoniale lamentato con la domanda, non è possibile in alcun modo valutare la correttezza dell’affermazione della sentenza impugnata che esso non era stato provato nell’an (e, subordinatarnente, nel quantum)".
(Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 6 maggio 2010, n.10957).